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Per una teoria del potere destituente

Giorgio Agamben

Conferenza pubblica (Atene, 16 novembre 2013), trascrizione a cura di ΧΡΟΝΟΣ
Traduzione di Giacomo Mercuriali

Una riflessione sul destino della democrazia oggi qui ad Atene in qualche modo è inquietante, poiché obbliga a pensare alla fine della democrazia nel luogo stesso in cui questa è nata. In effetti, l’ipotesi che vorrei proporre è che il paradigma governamentale predominante oggi in Europa non solo non sia democratico, ma che non possa nemmeno essere considerato politico. Tenterò allora di mostrare che la società europea non è più una società politica: è qualcosa di totalmente nuovo, qualcosa per cui ci manca una terminologia appropriata e dovremo quindi inventare una nuova strategia.

Permettetemi di iniziare con un concetto che sembra aver rimpiazzato ogni altra nozione politica a partire dal settembre 2001: la sicurezza [security]. Come sapete, la formula “per ragioni di sicurezza” funziona oggi in ogni ambito, dalla vita quotidiana ai conflitti internazionali, come una parola chiave che serve per imporre misure che le persone non hanno alcuna ragione di accettare. Tenterò di mostrare che lo scopo reale delle misure di sicurezza non è, come si ritiene comunemente, prevenire pericoli, disordini o addirittura catastrofi. Sarò dunque obbligato a fare una breve genealogia del concetto di “sicurezza”.

Una possibile modalità per abbozzare questa genealogia sarebbe quella di inscrivere la sua origine e la sua storia nel paradigma dello “stato di eccezione”.

In questa prospettiva, potremmo farla risalire al principio romano salus publica suprema lex – la sicurezza pubblica è la legge suprema – e connetterla alla dittatura Romana così come al principio canonico la necessità non riconosce alcuna legge, ai comités de salut publique durante la rivoluzione francese e infine all’articolo 48 della costituzione di Weimar che fu la premessa giuridica del regime nazista. Una genealogia di questo tipo è certamente corretta, ma non penso che potrebbe veramente spiegare il funzionamento degli apparati di sicurezza e le misure che ci sono familiari. Mentre lo stato di eccezione fu originariamente concepito come una misura provvisoria, intesa ad affrontare un pericolo immediato per poter ripristinare la situazione normale, le “ragioni di sicurezza” costituiscono oggi una tecnologia di governo permanente. Quando nel 2003 pubblicai un libro nel quale tentavo di mostrare precisamente come lo stato di eccezione stesse diventando nelle democrazie occidentali un normale sistema di governo, non avrei potuto immaginare che la mia diagnosi si sarebbe rivelata, alla prova dei fatti, così accurata. L’unico precedente chiaro era il regime nazista. Quando Hitler prese il potere nel febbraio 1933, immediatamente promulgò un decreto che sospendava gli articoli della costituzione di Weimar riguardanti le libertà personali. Il decreto non fu mai revocato, per questo l’intero Terzo Reich può essere considerato come uno stato di eccezione della durata di dodici anni.

Quello che sta accadendo oggi è ancora diverso. Uno stato di eccezione non è dichiarato formalmente e invece vediamo vaghe nozioni giuridiche – come le “ragioni di sicurezza” – che vengono utilizzate per instaurare uno stabile stato di emergenza strisciante e fittizia senza che ci sia alcun chiaro pericolo identificabile. Un esempio di questo tipo di nozioni non giuridiche che sono usate come fattori produttivi di emergenza è il concetto di crisi. A parte il significato giuridico di giudizio in un processo, due tradizioni semantiche convergono nella storia di questo termine che, per voi è chiaro, provengono dal verbo greco krino: una medica e una teologica. Nella tradizione medica, krisis significa il momento nel quale il dottore deve giudicare, deve decidere se il paziente morirà o sopravviverà. Il giorno o i giorni nei quali questa decisione è presa sono chiamati krismoi, i giorni decisivi. In teologia, krisis è il Giudizio Universale, pronunciato da Cristo alla fine dei tempi. Come poteve vedere, ciò che è essenziale in entrambi le tradizioni è la relazione ad un certo momento nel tempo. Nell’utilizzo odierno del termine, è precisamente questa relazione ad essere abolita. La crisi, il giudizio, è strappata dal suo indice temporale e coincide ora con il corso cronologico del tempo, per cui non solo in economia e in politica, ma in ogni aspetto della vita sociale, la crisi coincide con la normalità e diventa, in questo modo, solamente uno strumento di governo. Di conseguenza, la capacità di decisione scompare una volta per tutte e il processo decisionale non decide nulla. Per dirla con termini paradossali, potremmo dire che, dovendo affrontare un continuo stato di eccezione, il governo tende ad assumere la forma di un perpetuo coup d’état. Tra l’altro questo paradosso costituirebbe un’accurata descrizione di ciò che accade oggi qui in Grecia così come in Italia, dove governare significa compiere una serie continua di piccoli coups d’état. Il governo attuale in Italia non è legittimo.

Perciò penso che se vogliamo capire il regime di governamentalità sotto il quale viviamo, il paradigma dello stato di eccezione non è interamente adeguato. Seguirò allora il suggerimento di Michel Foucault e indagherò l’origine del concetto di sicurezza agli inizi dell’economia moderna, attraverso François Quesnay e i fisiocrati, la cui influenza sulla governamentalità non può essere sottostimata. Partendo dal trattato di Westfalia, i grandi stati assolutistici europei iniziarono ad introdurre nel loro discorso politico l’idea che il sovrano deve prendersi cura della sicurezza dei suoi sudditi. Ma Quesnay è il primo a considerare la sicurezza (sûreté) come la nozione centrale nella teoria del governo – e questo in un modo del tutto peculiare.

Uno dei principali problemi che dovevano affrontare i governi dell’epoca era quello delle carestie. Prima di Quesnay, il metodo usuale era tentare di prevenire le carestie attraverso la creazione di granai pubblici e la proibizione di esportare cereali. Entrambi le misure avevano effetti negativi sulla produzione. L’idea di Quesnay fu di invertire il processo: invece di tentare di prevenire le carestie, decise di lasciarle avvenire e di governarle una volta occorse, liberalizzando sia gli scambi interni sia le esportazioni. “Governare” conserva qui il suo significato etimologico cibernetico: un buon kybernes, un buon pilota, non può evitare le tempeste, ma, nel caso una tempesta capiti, deve essere in grado di governare la sua barca, utilizzando la forza delle onde e dei venti per la navigazione. Questo è il significato del celebre motto “laissez faire, laissez passer”: questo non solo è lo slogan del liberalismo economico; è un paradigma di governo che concepisce la sicurezza (sûreté, per dirla con Quesnay) non come una prevenzione dei problemi ma piuttosto come l’abilità di governarli e guidarli nella giusta direzione una volta avvenuti.

Non dovremmo trascurare le implicazioni filosofiche di questo capovolgimento. Significa un trasformazione epocale dell’idea stessa di governo, che rovescia la tradizionale relazione tra cause ed effetti. Dato che governare la cause è difficile e costoso, è più prudente e utile tentare di governare gli effetti. Vorrei suggerire che questo teorema di Quesnay è l’assioma della governamentalità moderna. L’ancien régime puntava a governare le cause, la modernità pretende di controllare gli effetti. E questo assioma si applica in ogni settore: dall’economia all’ecologia, dalle politiche estere e militari alle misure interne di polizia. Dobbiamo renderci conto che i governi europei oggi hanno abbandonato ogni tentativo di governare le cause, vogliono solo governare gli effetti. E il teorema di Quesnay rende intelligibile un fatto che sembrerebbe altrimenti inesplicabile: intendo la paradossale convergenza odierna di un paradigma assolutamente liberale in economia con un paradigma di controllo statale e poliziesco senza precedenti. Se il governo punta agli effetti e non alle cause, sarà obbligato a estendere e moltiplicare i controlli. Le cause chiedono di essere conosciute, mentre gli effetti possono essere solo verificati e controllati.

Una sfera importante in cui è operativo questo assioma è quello dei dispositivi di sicurezza biometrici che stanno pervadendo sempre di più ogni aspetto della vita sociale. Quando le tecnologie biometriche apparvero per la prima volta in Francia nel XVIII secolo con Alphonse Bertillon e in Inghilterra con Francis Galton, l’inventore delle impronte digitali, queste erano ovviamente intese non come un mezzo per prevenire i crimini, ma solo per riconoscere i delinquenti recidivi. Solamente dopo che un secondo crimine è stato commesso si possono utilizzare dati biometrici per identificare il colpevole.

Le tecnologie biometriche, che sono state inventate per i criminali recidivi, rimasero a lungo un loro esclusivo privilegio. Nel 1943, il Congresso degli Stati Uniti ancora rifiutava il Citizen identification act, concepito per introdurre una carta d’identità con impronte digitali per ogni cittadino. Ma per una sorta di fatalità o legge non scritta della modernità, le tecnologie che sono state inventate per animali, criminali, stranieri o ebrei, saranno infine estese a tutti gli esseri umani. Pertanto nel corso del ventesimo secolo le tecnologie biometriche sono state applicate a tutti i cittadini e le fotografie identificative di Bertillon così come le impronte digitali di Galton sono oggi utilizzate in ogni paese nelle carte d’identità.

Ma l’ultimo passo è stato fatto solo ai nostri giorni ed è tuttora in atto la sua realizzazione completa. Lo sviluppo delle nuove tecnologie digitali, con scanner ottici che possono facilmente registrare non solo le impronte digitali ma anche la retina o la struttura dell’iride dell’occhio, estende i dispositivi biometrici oltre le stazioni di polizia e gli uffici di immigrazione e si diffonde nella vita quotidiana. In molti paesi, l’accesso alle mense studentesche o perfino alle scuole è controllato da dispositivi biometrici sui quali lo studente deve solo appoggiare la mano. Le industrie europee in questo campo, che stanno velocemente crescendo, raccomandano che i cittadini si abituino a questi tipi di controllo fin da giovani. Questo fenomeno è davvero inquietante perché le commissioni europee per lo sviluppo della sicurezza (come l’ESPR, European security research program) includono tra i suoi membri permanenti i rappresentanti di grosse industrie del campo, che sono semplicemente i produttori di armamenti come Thales, Finmeccanica, EADS e BAE Systems, riconvertite al mercato della sicurezza.

È facile immaginare i pericoli rappresentati da un potere che potrebbe avere a sua disposizione illimitate informazioni biometriche e genetiche di tutti i suoi cittadini. Avendo un simile potere a portata di mano, lo sterminio degli ebrei, che fu condotto sulla base di una documentazione incomparabilmente meno efficiente, sarebbe stata totale e incredibilmente rapida. Ma non mi soffermerò su questo aspetto importante del problema della sicurezza. Le riflessioni che vorrei condividere con voi riguardano piuttosto la trasformazione dell’identità politica e delle relazioni politiche che sono coinvolte nelle tecnologie di sicurezza. Questa trasformazione è così estrema, che possiamo legittimamente chiederci non solo se la società in cui viviamo è ancora democratica, ma anche se questa società può ancora essere considerata politica.

Christian Meier ha mostrato come nel V secolo ad Atene avvenne una trasformazione del concetto politico basata su ciò che lui chiama una “politicizzazione” (politisierung) della cittadinanza. Mentre fino a quel momento il fatto di appartenere alla polis era definito da un certo numero di condizioni e status sociali di diverso tipo – per esempio il fatto di appartenere alla nobiltà o a una certa comunità cultuale, essere un contadino e un mercante, membro di una certa famiglia, ecc… -d’ora in avanti la cittadinanza divenne il criterio principale dell’identità sociale.

«Il risultato fu una concezione della cittadinanza specificamente greca nella quale il fatto che gli uomini dovessero comportarsi come cittadini trovò una forma istituzionale. L’appartenenza ad una comunità economica o religiosa fu posta in secondo grado. I cittadini di una democrazia consideravano se stessi come membri della polis solo nella misura in cui si dedicavano alla vita politica. Polis e politeia, città e cittadinanza si costituivano e definivano l’una con l’altra. La cittadinanza divenne in questo modo una forma di vita, tramite cui la polis si costituiva come ambito chiaramente distindo dall’oikos, la casa. La politica divenne quindi un libero spazio pubblico, come tale opposto allo spazio privato della casa, che era il regno della necessità». Secondo Meier, questo processo specificamente greco di politicizzazione fu trasmesso alla politica occidentale, dove la cittadinanza rimase l’elemento decisivo.

L’ipotesi che vorrei proporvi è che questo fondamentale fattore politico è entrato in un irrevocabile processo che possiamo solo definire come processo di crescente depoliticizzazione. Quello che era all’inizio un modo di vita, una condizione essenzialmente e irriducibilmente attiva, è diventato ora uno status giuridico puramente passivo, nel quale azione e inazione, privato e pubblico, sono progressivamente sfumati e diventano indistinguibili. Questo processo di depoliticizzazone della cittadinanza è così evidente che non mi dilungherò ancora su di esso.

Proverò piuttosto a mostrare come il paradigma della sicurezza e i dispositivi di sicurezza abbiano giocato un ruolo decisivo in questo processo. La crescente estensione ai cittadini di tecnologie inizialmente concepite per i criminali ha inevitabili conseguenze sull’identità politica del cittadino. Per la prima volta nella storia dell’umanità, l’identità non dipende più dalla personalità sociale e dal suo riconoscimento da parte di altri, ma piuttosto dipende da dati biologici che non possono sostenere alcuna relazione con essa, come gli arabeschi delle impronte digitali o la disposizione dei geni nella doppia elica del DNA. La cosa più neutrale e privata diventa un fattore decisivo dell’identità sociale, che perde dunque il suo carattere pubblico.

Se la mia identità è ora determinata da fattori biologici, che in nessun modo dipendono dalla mia volonta e sui quali non ho alcun controllo, allora la costruzione di qualcosa come un’identità politica ed etica diventa problematica. Che relazione posso stabilire con le mie impronte digitali o con il mio codice genetico? La nuova identità è un’identità senza la persona, com’era prima, nella quale lo spazio della politica e dell’etica perde il suo senso e deve essere pensata di nuovo da zero. Mentre il cittadino greco era definito attraverso l’opposizione tra il privato e il pubblico, tra l’oikos, lo spazio della vita riproduttiva, e la polis, lo spazio dell’azione politica, il cittadino moderno sembra piuttosto muoversi in una zona di indifferenza tra il privato e il pubblico o, con le parole di Hobbes, il corpo fisico e il corpo politico.

La materializzazione spaziale di questa zona di indifferenza è la videosorveglianza delle strade e delle piazze delle nostre città. Qui di nuovo un dispositivo che è stato concepito per le prigioni è stato esteso agli spazi pubblici. Ma è evidente che una piazza videoregistrata non è più una agorà e diventa un ibrido di pubblico e privato, una zona di indifferenza tra la prigione e il foro. Questa trasformazione dello spazio politico è certamente un fenomeno complesso, che coinvolge una molteplicità di cause, e tra queste la nascita del biopotere occupa ha un posto speciale. La supremazia dell’identità biologica sull’identità politica è certamente connessa alla politicizzazione della nuda vita negli stati moderni. Ma non ci si dovrebbe scordare che il livellamento dell’identità sociale sull’identità del corpo iniziò con il tentativo di identificare i criminali recidivi. Non dovremmo stupirci se oggi la relazione normale fra lo stato e i suoi cittadini è definita da sospetto, archiviazione poliziesca e controllo. Il principio non detto che domina la nostra società può essere espresso in questo modo: ogni cittadino è un potenziale terrorista. Ma che cos’è uno Stato dominato da un tale principio? Possiamo ancora definirlo uno Stato democratico? Possiamo ancora considerarlo come qualcosa di politico? In che tipo di Stato viviamo oggi?

Probabilmente saprete che Michel Foucault, nel suo libro Sorvegliare e punire e nei suoi corsi al Collège de France abbozzò una classificazione tipologica degli stati moderni. Egli mostra come lo Stato dell’ancien régime, che chiama Stato territoriale o sovrano e il cui motto era “far morire e lasciare vivere”, si evolve progressivamente in uno Stato popolare e disciplinare, il cui motto si è rovesciato in “far vivere e lasciare morire”, poiché si prenderà cura della vita dei cittadini in modo da produrre corpi sani, ben ordinati e gestibili.

Lo Stato in cui ora viviamo non è più uno Stato disciplinare. Gilles Deleuze ha suggerito di chiamarlo “Etat de contrôle”, stato di controllo, perché ciò che vuole non è ordinare e imporre una disciplina, ma piuttosto gestire e controllare. La definizione di Deleuze è corretta, poiché gestione e controllo non coincidono necessariamente con ordine e disciplina. Nessuno lo ha detto più chiaramente di quell’ufficiale di polizia italiano che, dopo le agitazioni di Genova nel luglio 2001, dichiarò che il governo non voleva che la polizia mantenesse l’ordine, ma che gestisse il disordine.

I politologi americani, che hanno tentato di analizzare la trasformazione costituzionale determinata dal Patrioct Act e da altre leggi che seguirono il settembre 2001, preferiscono parlare di un Security State. Ma cosa significa qui “sicurezza”? È durante la Rivoluzione Francese che la nozione di sicurezza – sûreté – è connessa alla definizione di polizia. Le leggi del 16 Marzo 1791 e 11 Agosto 1792 introducono nella legislazione francese la nozione di “police de sûreté” – polizia di sicurezza – destinata ad avere una lunga storia nella modernità. Leggendo i dibattiti che precedettero la votazione di queste leggi, si può vedere che polizia e sicurezza si definiscono l’una con l’altra, ma nessuno fra i relatori (Brissot, Heraut de Séchelle, Gensonné) è in grado di definire la polizia o la sicurezza in se stessi.

Il dibattito si focalizzava sulla situazione della polizia di fronte alla giustizia e al potere giudiziario. Gensonné sosteneva che questi sono “due poteri separati e distinti”; eppure, mentre la funzione del potere giudiziario è chiara, è impossibile definire il ruolo della polizia. Un’analisi del dibattito mostra che il posto e la funzione della polizia è indecidibile e deve rimanere indecidibile poiché, se fosse veramente assorbita nel potere giudiziario, la polizia non potrebbe più esistere. Questo è il potere discrezionale che ancora oggi definisce l’azione dell’ufficiale di polizia che, in una concreta situazione di pericolo per la sicurezza pubblica, agisce, per così dire, da sovrano. Ma, perfino mentre egli esercita questo potere discrezionale, non prende veramente une decisione, né prepara, come si afferma solitamente, la decisione del giudice. Ogni decisione riguarda le cause, mentre la polizia agisce sugli effetti, che sono per definizione indecidibili.

Il nome di questo elemento indecidibile non è più, com’era nel XVII secolo, “raison d’Etat”, ragione di Stato: è piuttosto “ragioni di sicurezza”. Lo Stato di sicurezza è uno Stato di polizia: ma, ancora, nella teoria giuridica, la polizia è una sorta di buco nero. Tutto ciò che possiamo dire è che quando la cosiddetta “Scienza della polizia” appare per la prima volta nel XVIII secolo, la “polizia” è portata alla sua etimologia greca di “politeia” [amministrazione] e opposta in quanto tale alla “politica”. Ma è sorprendente vedere che la polizia coincide ora con la sua vera funzione politica, mentre il termine “politica” è riservato alla politica estera. Perciò Von Justi, nel suo trattato sulla Polizeywissenschaft, chiama “Politik” la relazione di uno Stato con altri Stati, mentre chiama “Polizei” la relazione di uno Stato con se stesso. Vale la pena riflettere su questa definizione, cito: “La polizia è la relazione di uno Stato con se stesso”.

L’ipotesi che voglio suggerire qui è che, ponendosi sotto il segno della sicurezza, lo Stato moderno ha lasciato che la sfera politica entrasse in una terra di nessuno la cui geografia e i cui confini sono tuttora sconosciuti. Il Security State, il cui nome sembra riferirsi a un’assenza di interesse (securus from sine cura), dovrebbe, al contrario, farci preoccupare riguardo i pericoli che implica per la democrazia, poiché in esso la vita politica è diventata impossibile, mentre democrazia significa precisamente la possibilità di una vita politica.

Mi piacerebbe concludere – o meglio semplicemente terminare il mio intervento (in filosofia come in arte, non è possibile alcuna conclusione, si può solo abbandonare il proprio lavoro) – con qualcosa che, per quanto posso intuire al momento, è forse il problema politico più urgente. Se lo Stato che abbiamo di fronte è il Security State che ho descritto, dobbiamo ripensare nuovamente le strategie tradizionali del conflitto politico. Cosa dovremmo fare, che strategia dovremmo seguire?

Il paradigma di sicurezza implica che ogni dissenso, ogni tentativo più o meno violento di rovesciare il suo ordine, diventa un’opportunità per governarlo in una direzione proficua. Questo è evidente nella dialettica che lega strettamente assieme terrorismo e Stato in un interminabile circolo vizioso. A partire dalla rivoluzione francese, la tradizione politica della modernità ha concepito i cambiamenti radicali sottoforma di processi rivoluzionari che agiscono da pouvoir constituant, “poteri costituenti” di un nuovo ordine istituzionale. Penso che si debba abbandonare questo paradigma e tentare di pensare qualcosa come una puissance destituante, un “potere puramente destituente”, che non possa essere catturato nel circolo della sicurezza.

È un potere destituente di questo tipo che Benjamin aveva in mente nel suo saggio Per la critica della violenza, quando tenta di definire una pura violenza che potrebbe “rompere la falsa dialettica della violenza legiferante e della violenza conservatrice del diritto”, di cui è un esempio lo sciopero proletario generale di Sorel. “Sull’interruzione di questo circolo”, scrive alla fine del saggio “che si svolge nell’ambito delle forme mitiche del diritto, nella destituzione del diritto assieme a tutte le forze alle quali si appoggia, in definitiva quindi nell’abolizione del potere dello Stato, un nuova epoca storica è fondata”. Mentre un potere costituente distrugge il diritto solo per ricrearlo in una nuova forma, il potere destituente, nella misura in cui depone una volta per tutte il diritto, può aprire veramente una nuova epoca storica.

Pensare un tale potere destituente non è un compito semplice. Benjamin scrisse una volta che nulla è così anarchico come l’ordine borghese. Nello stesso senso, Pasolini nel suo ultimo film fa dire a uno dei quattro padroni di Salò che si rivolge agli schiavi: “la vera anarchia è l’anarchia del potere”. È precisamente perché il potere costituisce se stesso attravero l’inclusione e la cattura dell’anarchia e nell’anomia che è così difficile avere accesso a queste dimensioni, così difficile pensare oggi qualcosa come una vera anarchia o una vera anomia. Penso che una prassi che riuscisse a esporre chiaramente l’anarchia e l’anomia catturate nel governo di sicurezza tecnologica potrebbe agire come un puro potere destituente. Una vera nuova dimensione politica diventa possibile solo quando comprendiamo e deponiamo l’anarchia e l’anomia del potere. Ma questo non è solo un compito teoretico: significa prima di tutto la riscoperta di una forma-di-vita, l’accesso a una nuova figura di quella vita politica la cui memoria lo Stato di sicurezza tenta di cancellare a qualsiasi prezzo.

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