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Il ritorno dell’insicurezza sociale

di Robert Castel

(cfr. l'introduzione di Gianvito Brindisi)

Vivere l’insicurezza sociale equivale a trovarsi alla mercé di ogni minimo rischio dell’esistenza: una malattia, un incidente, un’interruzione del lavoro, un imprevisto nel corso della vita possono spezzare il fragile equilibrio della quotidianità e far precipitare nella disgrazia, se non addirittura nella rovina. Su scala storica, questa insicurezza sociale è stata la condizione ordinaria di quello che un tempo era detto il popolo. «Vivere alla giornata», dispiegare sforzi costanti per arrivare a «sbarcare il lunario», sfiancarsi al fine di «guadagnarsi il pane»… Sono stati questi, nel corso dei secoli, i problemi quotidiani di quanti non avevano che il frutto del proprio lavoro per vivere o per sopravvivere. Nessuna provvista, nessuna proprietà, nessun gruzzoletto: tutti i giorni la domanda imperiosa su come si presenterà il domani. L’insicurezza sociale è questa impossibilità di securizzare l’avvenire, poiché la padronanza di questo avvenire dipende da condizioni che ci sfuggono.

Tale insicurezza sociale, che per lungo tempo ha tessuto di una trama nera la storia popolare, è stata infine combattuta e sconfitta grazie alla costituzione di uno zoccolo di risorse, di uno zoccolo che dà consistenza al presente e consente di prendere in carico l’avvenire: si tratta della sicurezza sociale. Questo zoccolo di risorse è stato in origine predisposto fondamentalmente in relazione al mondo del lavoro, poiché era la vulnerabilità della condizione del lavoratore ad alimentare principalmente l’insicurezza sociale. Ma da quando abbiamo fatto il nostro ingresso nella cosiddetta «crisi», vale a dire dai primi anni Settanta, l’insicurezza sociale è tornata.

Questo ritorno è la conseguenza della fragilizzazione dei supporti (delle protezioni e dei diritti) che securizzavano il mondo del lavoro. Ma si tratta di un’insicurezza sociale nuova, a un tempo omologa e differente rispetto all’insicurezza sociale secolare che ha segnato in profondità la condizione popolare.


«Vivere alla giornata»

In origine, dunque, era l’insicurezza sociale. Ma non per tutti.

Schematicamente, si potrebbe dire che era affare dei poveri. Ma chi sono i poveri, e qual è esattamente la relazione tra povertà e insicurezza?

Per quanto riguarda la società preindustriale europea tra il XIV e il XVII secolo, gli storici sono concordi nel pensare che circa la metà della popolazione poteva essere qualificata come povera. La povertà è dunque una condizione strutturale e comune nella quale le masse popolari sono installate permanentemente. Ma si tratta anche di uno stato che può degradarsi. È possibile cioè, secondo la forte espressione di Pierre le Pesant de Boisguilbert, «mandare in rovina un povero»1(ruiner un pauvre): ciascuno può restare, bene o male, sul filo del rasoio, ma sono sufficienti un cattivo raccolto o un inverno particolarmente rigido per generare «un forte rincaro dei prezzi» (une grande cherté), ed ecco che questo fragile equilibrio si spezza.

Sébastien La Prestre de Vauban, che fu anche un attento osservatore delle sofferenze del popolo, sottolinea la stretta relazione esistente tra l’estrema vulnerabilità popolare e l’estrema fragilità dei rapporti di lavoro, ed evoca così la situazione di un rappresentante dei piccoli salariati dell’epoca, giornalieri, manovali, «gente di fatica e di braccia» (gens de peine et de bras) che in città o in campagna lottano quotidianamente per la loro sopravvivenza: «Sarà sempre difficile arrivare alla fine dell’anno. Da qui è chiaro che, per quanto poco carico debba sopportare, è necessario che soccomba»2. Dubito che si possa trovare sintesi più corretta dell’insicurezza sociale, la quale risiede proprio in questa condizione di fragilità permanente – la permanenza della precarietà – che segna il destino di una buona parte del popolo.

In un primo tempo, nel XIX secolo, questa situazione non appare sostanzialmente mutata, nonostante la rivoluzione della fine del XVIII secolo abbia investito anche il campo del lavoro, con l’abolizione delle corporazioni e l’instaurazione del libero contratto di lavoro come forma obbligata della relazione salariale (il contrat de louage della forza lavoro). Ma la dissimmetria del rapporto di forza tra il datore di lavoro e l’impiegato è tale da condannare i salariati a un salario di sopravvivenza. La conseguenza è la condizione degli operai dei primi apparati industriali che ci siano noti, condizione che le descrizioni del pauperismo ci consentono di qualificare propriamente come spaventosa. I proletari perdono letteralmente la vita nel tentativo di guadagnarsela. Ma i piccoli artigiani destabilizzati dall’abolizione delle corporazioni, i lavoratori indipendenti che operano in subappalto per i commercianti, e i manovali di ogni genere che lavorano a giornata non sono messi molto meglio. I salari sono ridotti al minimo, non vi è alcuna garanzia d’impiego e i lavoratori non possono vantare alcun diritto: «L’operaio offre il suo lavoro, il padrone paga il salario convenuto, e lì finiscono le obbligazioni reciproche. Dal momento in cui [il padrone] non ha più bisogno delle sue braccia [dell’operaio], lo congeda, e sta all’operaio trarsi d’impaccio»3.

L’applicazione rigorosa dei principi del liberalismo – il mercato del lavoro come mercato di ‘libera’ contrattazione – condanna impietosamente i lavoratori alle condizioni minime della sopravvivenza. Essi versano perciò in una situazione di costante insicurezza sociale, e questo stato, per la maggior parte di loro, si prolungherà per buona parte del XIX secolo.

 
La securizzazione

Come si è venuti fuori da tutto questo? Quali sono le condizioni che hanno permesso di superare questa insicurezza sociale permanente? L’aver garantito al lavoro protezioni e diritti. Ad essersi imposta con molte difficoltà, cioè, è l’idea, totalmente nuova, che la proprietà non sia l’unico antidoto all’insicurezza sociale.

Che la proprietà privata rappresenti la miglior difesa contro l’insicurezza lo si sapeva da sempre. Chi ha dei beni è «coperto» contro i rischi dell’esistenza. Potrà curarsi nel caso si ammali. E spesso non avrà neanche bisogno di lavorare, o comunque potrà continuare a provvedere ai suoi bisogni e a quelli della sua famiglia nel caso pure venga a mancare il lavoro. La proprietà è un cuscino di risorse che garantisce la sicurezza e in aggiunta a ciò conferisce rispettabilità. Nel 1902 Charles Gide dichiarava: «Per quanto riguarda la classe possidente, la proprietà costituisce un’istituzione sociale che poco a poco rende le altre superflue»4.

Di conseguenza, l’accesso alla proprietà è stato considerato in origine come la via regia per vincere l’insicurezza sociale. È questa, nel XIX secolo, l’opinione comune dei filantropi e delle élites politiche, di parte conservatrice o liberale, che guardano alla sorte delle «classi povere» esortandole senza sosta a quelle virtù del risparmio e della previdenza che le salveranno dalla loro miseria. Ma l’accesso alla proprietà è un’aspirazione largamente condivisa negli stessi ambienti popolari. La condizione salariale è cosi miserabile che molti operai non sognano altro che di poter comprare qualche attrezzo e fittare una botteguccia per «mettersi in proprio».

Questo punto va sottolineato. Perché arrivasse a imporsi un’altra risposta rispetto all’accesso alla proprietà per vincere l’insicurezza, è stato necessario che lentamente, e non senza difficoltà, si generalizzasse la consapevolezza della sostanziale irreversibilità della condizione del salariato, essendo la sua espansione organicamente legata allo sviluppo del capitalismo industriale. Era la forma di organizzazione del lavoro a esigere un sistema di produzione comandato dal peso crescente della grande industria. Da quel momento, ci si è trovati di fronte a un dilemma: lasciare il salariato nello stato di abbandono che gli appartiene quando il lavoro è assimilato a una merce – ma è proprio così che si consentiranno l’instaurazione e lo sviluppo, nel cuore della società moderna, di quelle masse di salariati che, come dirà Karl Marx, «non hanno nulla da perdere fuorché le loro catene», con la conseguenza del sovvertimento totale dell’ordine sociale attraverso la rivoluzione –, o altrimenti consolidare la condizione salariale sino a farne uno zoccolo duro capace di procurare le risorse sufficienti per garantire la sicurezza dei lavoratori.

È questa seconda soluzione a essersi imposta dopo un secolo di controversie, lotte e conflitti talvolta molto violenti. Fu come una grande rivoluzione silenziosa sfociata in quella che è stata giustamente detta «società salariale». Il lavoratore non proprietario è divenuto titolare di diritti che gli assicurano le condizioni necessarie a garantire il suo presente e a controllare il suo avvenire. Prendiamo il caso del diritto alla pensione. Prima, il futuro di chi era diventato troppo vecchio per lavorare non poteva che essere vissuto come la minaccia di un disastro, quale ad esempio finire a marcire in un ospizio per indigenti. Con il diritto alla pensione, lo stesso soggetto non vivrà certo nell’opulenza, ma disporrà quantomeno di quelle risorse minime che gli permetteranno di non dipendere da altri per soddisfare i suoi bisogni. Se dunque egli soddisfa le condizioni richieste, vale a dire se ha lavorato e ha versato i contributi per molto tempo, vi ha effettivamente diritto. È diventato proprietario di diritti.

Il diritto alla pensione è solo uno degli elementi di un largo ventaglio di protezioni che saranno legate allo statuto del lavoratore: diritto alla salute, diritto all’indennizzazione in caso di incidente o di sospensione del lavoro, diritto del lavoro come fonte di garanzie contro l’arbitrio padronale etc. È così che i principali rischi della vita vengono a trovarsi «coperti», come si suol dire.

La promozione di un vero statuto del lavoro ha rappresentato dunque il fondamento della costituzione di quello zoccolo di risorse che ha permesso di padroneggiare l’insicurezza sociale. Tanto che questo ventaglio di protezioni non resterà relegato al mondo del lavoro, coprendo ugualmente gli «aventi diritto» del lavoratore, vale a dire il suo universo familiare. Ma questi diritti sociali si estenderanno anche all’insieme della popolazione, costituendo la base di una «società assicurativa», com’è stata giustamente definita da François Ewald5.

 
La risalita dell’insicurezza sociale

Questa vittoria sull’insicurezza sociale, punto terminale di un lungo processo iniziato in Francia alla fine del XIX secolo, sembra imporsi nel periodo che corre dalla seconda guerra mondiale all’inizio degli anni Settanta, e costituisce il prodotto di quello che è stato definito «il compromesso sociale del capitalismo industriale». Gli interessi del capitale e delle imprese sono assicurati, come testimonia il considerevole sviluppo economico che ha caratterizzato quegli anni. In contropartita, il mondo del lavoro beneficia di estese protezioni: è la promozione di questa sicurezza sociale generalizzata. È così che l’insicurezza sociale è praticamente scomparsa, dissolvendosi in questo edificio della protezione allestito nella società salariale. Resta ai margini di questa società una sorta di sottoproletariato costituito da individui che non hanno potuto o voluto piegarsi agli obblighi di un lavoro regolare. Si parla al riguardo di un «quarto mondo», come se sussistessero delle isole di sottosviluppo che richiamano il terzo mondo e perpetuano delle forme antiche d’insicurezza sociale in seno alla modernità. Ma più in generale si pensa anche che si tratti di sopravvivenze arcaiche in via di riassorbimento con gli sviluppi del progresso economico e sociale.

L’equilibrio sottile tra le esigenze del rendimento sul versante del capitale e le esigenze di sicurezza sul versante del mondo del lavoro, a cui il capitalismo industriale era alla fine pervenuto, si disferà con quella crisi che inizia a far sentire i propri effetti dopo lo shock petrolifero del 1973. Una crisi che in un primo momento è stata interpretata come un blocco temporaneo della crescita, ma di fronte alla quale si è stati poi costretti a riconoscere – e il cataclisma finanziario dell’autunno del 2008 ce l’ha di recente ricordato – come essa fosse molto più grave di una turbolenza passeggera. In realtà, si tratta di un cambiamento di regime del capitalismo stesso, vale a dire dell’uscita dal capitalismo industriale con ingresso in un regime nuovo e più aggressivo che impone una concorrenza esasperata al livello globale (globalizzazione) sotto l’egemonia del capitale finanziario internazionale.

Questa dinamica impone nuovi modi di produrre e di scambiare, prendendo in contropiede quei sistemi di regolazione che, instaurati alla fine della stagione del capitalismo industriale, erano al cuore del suo compromesso sociale. Un altro modo di dire che l’insicurezza sociale fa il suo ritorno. E ritorna perché le dighe che avevano permesso di arginarla si rompono, e i diritti e le protezioni che erano stati assicurati al lavoro si indeboliscono e talvolta scompaiono.

Questa insicurezza è innanzitutto la conseguenza di una profonda riconfigurazione dei rapporti di lavoro. Nel momento stesso in cui si installa la disoccupazione, la precarietà si generalizza. Da una quindicina d’anni, la categoria dei lavoratori poveri è riapparsa nel nostro paesaggio sociale. Si può di nuovo lavorare e trovarsi comunque sul filo del rasoio per provvedere ai propri bisogni e a quelli della propria famiglia. E si può anche, come nel caso dei beneficiari del reddito di solidarietà attiva (revenu de solidarité active - RSA), essere lavoratori impiegati, ma in condizioni talmente misere da necessitare allo stesso tempo di assistenza, così che per sopravvivere si dipenda dal beneficio concesso dai servizi sociali. Le frontiere tra il lavoro e l’assistenza si confondono.

Si potrebbero descrivere a lungo queste situazioni che fanno sì che un numero crescente di persone si trovi nuovamente nella condizione di vivere o di sopravvivere «alla giornata». Situazioni che non sono affatto inedite, e tuttavia nuove in rapporto alla sequenza storica che ha permesso di vincere l’insicurezza sociale costruendo la sicurezza a partire dal lavoro. Poiché questa insicurezza contemporanea non è identica alla vecchia. Si tratta infatti di un’insicurezza che succede alle protezioni, che succede alla sicurezza, e perciò senza dubbio più difficile da vivere oggi rispetto a un’epoca in cui l’insicurezza sociale poteva apparire come un destino comune e in qualche modo «normale» o «naturale», in quanto associata da sempre alla condizione popolare.

Ma essa è nondimeno ancora più ingiusta in una moderna società sviluppata nella quale il problema non è più quello della scarsità dei beni, come quando la sopravvivenza di una buona parte della popolazione poteva dipendere da un inverno rigido o da un cattivo raccolto. Oggi, il problema è piuttosto quello della ripartizione delle ricchezze in una società che ne produce effettivamente molte, ma – nello spirito del nuovo regime del capitalismo – giocando alla ricerca del profitto per il profitto attraverso la messa in concorrenza di tutti contro tutti. In tale prospettiva, i diritti sociali e le protezioni legate al lavoro appaiono come degli ostacoli da eliminare nella prospettiva di massimizzare la competitività delle imprese e promuovere il libero gioco del mercato. Ma questa armatura di diritti – diritto del lavoro e protezione sociale – costituiva la diga che, come dice Karl Polanyi, «addomesticava il mercato», e la sua eliminazione si paga con il ritorno dell’insicurezza sociale.

Queste analisi portano così a pensare che il solo modo di combattere questo ritorno sarebbe elaborare un nuovo compromesso sociale. Un compromesso che deve essere omologo, ma differente, rispetto a quello proprio del capitalismo industriale, tra gli interessi del mercato, che bisogna certo tenere in conto se è vero (ed è vero) che siamo pur sempre in un regime capitalista, e gli interessi del mondo del lavoro misurati in termini di sicurezza e di protezione.

 (Traduzione dal francese di Gianvito Brindisi)

 Note al testo

 Le retour de l’insécurité sociale, in “Alternatives Economiques Hors-série”, 89 (2011), pp. 28-31.

1 Pierre le Pesant de Boisguilbert, Mémoires, citato in Correspondances des contrôleurs généraux des finances, 1874, t. 2, p. 531.

2 Sébastien La Prestre de Vauban, Projet de dîme royale (1710), 1907, p. 78.

3 Charles-Marie Tanneguy Duchatel, De la charité dans ses rapports avec l’état moral et le bien-être des classes inférieures de la société, 1829, p. 130.

4 Charles Gide, Economie sociale, 1902, p. 6.

5 F. Ewald, L’Etat-providence, Grasset 1986.

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