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educaz.democrat

Abbasso la scuola

Effetti perversi di un’utopia democratica

 

di Raffaele Alberto Ventura

«Quando un attività strumentale supera una certa soglia definita
dalla sua scala specifica, dapprima si rivolge contro il proprio scopo,
poi minaccia di distruggere l’intero corpo sociale.»
Ivan Illich, La convivialità (1973)

scuola3491 imgIl fondamento della democrazia

Se Gustave Flaubert tornasse in vita per scrivere un’edizione aggiornata del suo Dizionario dei luoghi comuni, sui principali argomenti potrebbe limitarsi alla semplice trascrizione di qualche documento ufficiale dell’ONU o dell’UNESCO. Nella fitta produzione letteraria di questi organismi transnazionali si articolano i dogmi della religione del nostro tempo in materia d’arte, cultura, politica e istruzione. Un distillato dell’ideologia che poi respiriamo nella propaganda istituzionale, nella comunicazione pubblicitaria e nella filosofia spicciola. Avendo già discusso della concezione dominante di Arte in un articolo del 2009 (raccolto nell’ebook Forza d’Arte) (Ventura 2014), per proseguire il lavoro di critica dell’ideologia intendo concentrarmi sulla questione dell’istruzione — scolastica e universitaria — usando anche in questo caso come pretesto le definizioni emanate dalle organizzazioni delle Nazioni Unite. In forma più sintetica e impulsiva, queste concezioni riaffiorano nei più suggestivi slogan di piazza che abbiamo letto in questi anni: «Senza cultura siamo solo spazzatura», «Chi taglia la scuola, cancella il futuro», eccetera.

Seguendo queste tracce tenterò di rispondere a quattro semplici domande: primo, che cosa si aspetta la società dal sistema educativo? secondo, quali effetti perversi produce questo sistema sul piano economico e sociale? terzo, a cosa servono effettivamente l’obbligo scolastico e gli investimenti formativi? E infine quarto, per citare Ivan Illich (1983): bisogna descolarizzare la società? In questi quattro movimenti verranno descritte le contraddizioni di una società che, per rovesciare la replica di Mefistofele nel Faust di Goethe, «vuole costantemente il bene e opera costantemente il male». A interessarci qui non sono le problematiche interne del sistema educativo — sistema che conosciamo in qualità di ex-studenti e non di addetti ai lavori — ma le conseguenze collaterali che la competizione scolastica e universitaria provocano sulla società intera. Insomma partendo dalla scuola arriveremo a parlare della crisi della democrazia; forse perché l’unico modo di parlare di questa crisi è appunto partendo dalla scuola.

Procediamo con ordine: cosa ci aspettiamo, dunque, dal sistema educativo? L’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 sancisce il diritto di ogni cittadino all’istruzione o più generalmente all’educazione, secondo i testi originali in inglese e francese. Due sono le principali finalità dell’istruzione: il «pieno sviluppo della personalità umana» e il «rafforzamento del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». La prima fa riferimento all’uguaglianza delle opportunità mentre la seconda esprime la convinzione che l’individuo debba essere, diciamo, programmato per la democrazia. Coltivando la finzione teorica di un livellamento preliminare delle condizioni economiche e delle posizioni politiche, la scuola appare insomma come pietra angolare dell’intero edificio di legittimazione del cosiddetto stato liberale secolarizzato. Un sistema che dovrebbe permettere al figlio di un operaio di diventare impiegato o al figlio dell’impiegato di diventare avvocato; un sistema nel quale a ognuno vengono forniti gli strumenti culturali per decidere del destino comune. Fondare la democrazia — ecco, in tutta semplicità, quello che ci aspettiamo dalla scuola.

Questa idea risale all’Illuminismo: nel progetto di riforma del sistema educativo presentato all’Assemblea Nazionale nel 1792, il marchese Condorcet sosteneva che l’istruzione pubblica fosse lo strumento necessario per formare una società composta da individui responsabili, uguali e opposti al dispotismo (Condorcet 1792; si veda anche Jolibert 1993). Secondo questa visione la scuola è la prima, vera e necessaria condizione della convivenza civile. In effetti, il buon cittadino democratico deve essere in grado di capire il mondo che lo circonda per esprimere delle preferenze politiche: egli si emancipa imparando a riconoscere il proprio interesse. Ma deve inoltre farlo in piena armonia con l’interesse collettivo, all’insegna di valori condivisi ovvero — cito ancora l’articolo 26 — «la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi». Non si tratta di trasmettere soltanto una certa quantità di sapere, ma anche una specifica qualità. La Dichiarazione fa riferimento a un insegnamento animato dai principi della carta stessa: «libertà di parola e di credo», «uguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna», eccetera. Secondo questa visione, un cittadino non-istruito potrebbe essere portato a formulare posizioni non-democratiche che risulterebbero per ciò stesso non-legittime. Ma secondo concezioni più inclusive della democrazia, come ad esempio quelle di Paul K. Feyerabend (1994), Immanuel Wallerstein (2007) o Slavoj Zizek (2005), qui sta la contraddizione fondamentale dell’ideologia detta «universalista» o «umanitarista». Associando la legittimità di una posizione politica a una competenza che deve essere acquisita, o a una scala di valori che deve essere accettata, questa concezione di democrazia presta essa stessa il fianco ad accuse di classismo, razzismo e talvolta neocolonialismo.

Si tratta di un vero e proprio paradosso, che riemerge non appena uno scrutinio premia forze politiche considerate aberranti. Pensiamo alle reazioni di fronte ai risultati del Fronte Nazionale in Francia o di Hamas a Gaza, ma anche alla litania che abbiamo sentito in Italia per vent’anni sugli elettori di Berlusconi o della Lega Nord naturalmente «ignoranti». Le statistiche effettivamente possono mostrare, in certi contesti, una correlazione tra elevato livello di studi e posizionamento politico a sinistra e questo dato ha potuto rinforzare l’idea paternalista secondo cui gli «incidenti di percorso» della democrazia dipendono da un difetto d’istruzione dei cittadini chiamati a esprimere le loro preferenze. Pare più difficile accettare che queste divergenze politiche radicali siano piuttosto l’espressione di divergenze d’interesse altrettanto radicali, e si preferisce dunque «medicalizzare» il conflitto. Pur di ampliare il campo delle patologie culturali da debellare si è creata nel dopoguerra la categoria di «analfabetismo funzionale». Ricorrendo ad elaborati test e indicatori, l’OCSE poteva affermare nel 2014 che «in totale il 70% della popolazione italiana si colloca al di sotto del Livello 3, il livello di competenze considerate necessarie per interagire in modo efficace nella società del XXI secolo» (ISFOL 2014). Il confine tra filantropia e disprezzo risulta spesso molto sottile e talvolta sembra addirittura scomparire, come nel caso di un maldestro striscione del 2011 (segnalato da Antonio Vigilante) che proclamava: «Senza cultura siamo solo spazzatura»; uomini indegni, cittadini per metà.

La soluzione a tutti questi problemi sarebbe quindi semplicissima: bisogna investire nella formazione. Ma se non basta la scuola dell’obbligo, quanti anni di studio sono necessari per educare gli italiani a «interagire» e votare correttamente? Bisognerà istituire il dottorato obbligatorio e generalizzato per assicurare la vittoria delle forze democratiche? Questa ipotesi caricaturale non è troppo distante da certe incarnazioni contemporanee dell’idea di «diritto allo studio» inteso come assegno in bianco per un investimento di risorse pubbliche e private senza limite. A dire il vero, è il concetto stesso di diritto allo studio a essere indeterminato. Raramente viene indicata la misura della dose d’istruzione alla quale ogni individuo avrebbe «diritto», anche se nei testi ufficiali vengono talvolta fornite delle indicazioni di minima per quanto riguarda la sua applicazione. In cosa consiste precisamente questa educazione? Si parla di conoscere l’alfabeto o di leggere romanzi o di leggere buoni romanzi (no Fabio Volo) o di navigare su Internet o di conoscere la storia delle idee politiche oppure di che altro? Il diritto all’istruzione è vago e quindi estensibile secondo i punti di vista: può giustificare tanto la promozione di programmi di alfabetizzazione in Sudan quanto la difesa tenace di cicli di studi universitari lunghi tre, cinque o otto anni in Italia — al termine dei quali, peraltro, non si è nemmeno certi che lo studente abbia acquisito le competenze basilari di comprensione del testo1. Nella grande confusione ideologica che regna, possiamo quindi vedere le piazze occidentali riempirsi prima di ventenni che reclamano finanziamenti pubblici per sofisticatissime formazioni, e poi, qualche anno dopo, di trentenni che rivendicano il diritto a un inserimento professionale all’altezza della loro educazione. Perché «Choosy ci sarai tu», io ho un master in Cooperazione allo sviluppo e non vado certo a fare la commessa al Lidl.

La Dichiarazione dei diritti umani del 1948, che ha forza di soft law per gli stati aderenti alle Nazioni Unite, prescrive come minimo la gratuità delle classi elementari, l’obbligo dell’istruzione elementare e la libertà di accesso sulla base del merito all’istruzione superiore. Ma gran parte degli stati occidentali si sono spinti ben oltre, estendendo l’obbligo fino alla scuola secondaria (15-16 anni), la gratuità fino all’università (Francia, Nord-Europa) e spianando per quanto possibile le barriere all’accesso, in nome — ma solo in nome, come vedremo — della lotta alla discriminazione di censo. L’aumento della durata degli studi e della spesa per l’educazione viene generalmente interpretata come un «progresso»: ma ancora una volta non è chiaro a che punto si possa considerare sufficiente l’istruzione del cittadino. Sappiamo solo che è giusto indignarsi perché (come tutti sanno) l’Italia è l’unico Paese dell’area dell’OCSE che dal 1995 non ha aumentato la spesa per studente nella scuola primaria e secondaria. Ma che l’aumento della spesa sia auspicabile è tutto da dimostrare.

Già nel 1971 Ivan Illich denunciava il costo considerevole dell’intero sistema, a fronte di risultati sociali sempre meno incoraggianti. La sua analisi, che all’epoca poteva sembrare «utopistica» e magari un po’ hippie, appare oggi al contrario anti-utopistica e terribilmente realista. Il sistema educativo rappresenta un costo privato innanzitutto, per coloro che inseguono la promessa di un’improbabile ascesa sociale. E rappresenta inoltre un costo pubblico, poiché si chiede allo Stato di finanziare una crescente domanda di educazione drogata dalla competizione per l’accesso al mondo del lavoro: una «gara al rialzo» senza nessun rapporto con le competenze necessarie per partecipare alla vita economica della collettività. Questi costi sono diventati semplicemente irrazionali. Ma i sostenitori del diritto allo studio rispondono: lo studio non è un costo ma un investimento. Il progresso sul piano dell’educazione accompagnerebbe e guiderebbe il progresso economico. E il progresso economico, come noto a tutti da quanto John Maynard Keynes ha inventato la pietra filosofale, di limiti non ne ha. Il progresso insomma non sarebbe più soltanto un movimento verso un ordinamento giuridico conforme ai principi rivelati del diritto naturale, bensì un’evoluzione inarrestabile verso un benessere sempre crescente.

Nella presentazione del programma «Istruzione per il secolo XXI» sul sito Internet dell’UNESCO si afferma che il diritto allo studio deriva «dalla convinzione che l’istruzione svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo umano, sociale ed economico». Questo «ruolo fondamentale» allude a una possibilità affascinante: ovvero che sia possibile alimentare lo sviluppo con l’istruzione, e da lì finanziare l’istruzione con lo sviluppo, in un miracoloso circolo virtuoso keynesiano. Stimolando i consumi e incrementando la produttività del lavoro, effettivamente i diplomi possono generare posti di lavoro. Per questo motivo sarebbe utile continuare a estendere l’istruzione nel tempo e nello spazio, facendo studiare tutti e più a lungo, alimentando con sempre maggiori risorse la scuola e l’università.

Secondo una teoria molto fortunata, ci sarebbe un necessario rapporto di causa a effetto (o addirittura di proporzionalità) tra il livello d’istruzione e la crescita economica di un paese. Molto sostengono addirittura che il rapporto sarebbe «dimostrato» ma si tratta più che altro di un luogo comune. Questa teoria è fondata su una correlazione che può effettivamente essere ravvisata in certi contesti, ma su di essa gravano anche numerosi controesempi e tare metodologiche. Primo, se le due curve crescono in parallelo, di tutta evidenza il rapporto causale può anche essere rovesciato: la società risulta sempre più educata innanzitutto perché può permettersi di spendere risorse nell’istruzione, e come abbiamo visto ha forti ragioni ideologiche per farlo. L’istruzione è un effetto prima di essere una causa della crescita. Inoltre, se l’educazione può garantire un più alto livello di produttività del lavoro e una maggiore capacità di assorbire tecnologie avanzate dai paesi sviluppati, ciò dipende dalla specifica conformità tra formazione e domanda del mercato e non da una quantità generica di anni di studio o di «cultura», come può invece risultare da dati statistici eccessivamente vaghi messi al servizio di una specie di pensiero magico. Insomma non basta investire nella formazione, ma bisogna anche chiedersi in quale formazione. Infine, poiché la famosa correlazione nei paesi occidentali risulta sempre più fiacca e meno evidente, è assurdo ignorare la possibilità molto concreta che esista una soglia di saturazione, raggiunta la quale la causa cessa di agire o agisce più debolmente. Un rendimento marginale decrescente dell’istruzione, per così dire, peraltro conforme alla legge più generale sul rendimento decrescente dei fattori di produzione. In generale la teoria del rapporto necessario e meccanico tra educazione e crescita è stata sottoposta a varie critiche a partire dagli anni Sessanta e definitivamente confutata dall’economista inglese Alison Wolf nel fondamentale Does Education Matter? Myths About Education and Economic Growth al quale rimandiamo per un’analisi più rigorosa e completa (Wolf 2002).

Tralasciando ogni precauzione di sorta, il Centro Studi di Confindustria ha presentato nel 2014 uno studio (Centro Studi Confindustria 2014) le cui conclusioni, riassunte sul Sole 24 ore del 29 marzo 2014, appaiono semplicemente fantascientifiche:

Un aumento del Pil fino al 15% in più in termini reali in 10 anni. Tradotto in cifre 234 miliardi, con un guadagno di 3.900 euro per abitante. Uno scenario che potrebbe diventare realtà se il grado di istruzione italiano salisse al livello dei paesi più avanzati.

Nello stesso modo, un economista boemo nell’Ottocento avrebbe potuto formulare una legge universale, anzi un rigoroso modello matematico, che collega la produzione di manufatti di cristallo alla ricchezza di una nazione: salvo essere confutato due secoli dopo da una crisi del mercato del vetro. Dio non voglia che in Boemia esista un setta di «cristalliani» fedeli all’insegnamento di quell’economista, i quali come dei disperati continuino a fabbricare vasi brocche e bicchieri nel cieco convincimento che a furia di produrre merci invendibili si riesca alla fine a riavviare il meccanismo! Con lo stesso metodo astratto da tacchini induttivisti, gli economisti americani avevano negli anni Duemila creato l’illusione di un mercato immobiliare che avrebbe continuato a crescere; e si sono poi ritrovati nel 2008 ad assistere allo scoppio della più gigantesca bolla speculativa della storia umana. Oggi, mentre altri tacchini continuano a proclamare che «la cultura non è un lusso» sono sempre più numerosi gli analisti che parlano di una «bolla educativa» pronta a scoppiare e a trascinare nella povertà la parte più fragile della classe media. Ma quali sono precisamente gli effetti perversi che produce questo sistema sul piano economico e sociale?

 

Ordine educativo ed effetti perversi

Se il sistema educativo fallisce oggi nel generare ricchezza e nel propiziarne l’equa distribuzione è per via di un classico paradosso sociologico che Raymond Boudon riassumeva in Effetti perversi dell’azione sociale (1977): «Le azioni individuali ispirate da buone intenzioni possono, combinandosi tra loro, per composizione, produrre degli effetti non ricercati» (Boudon 1977). L’azione politica non deve quindi essere guidata da buoni principi, ma riflettere sulle conseguenze e imparare dagli errori. Questo è tuttavia molto difficile perché un fallimento può essere interpretato tanto come sanzione di un certo rimedio quanto come un invito ad «aumentare la dose»: così talvolta capita che a fronte di un feedback negativo, ispirandosi a un modello di analisi difettoso, si reagisca peggiorando la situazione. Innumerevoli casi di ostinazione nell’errore si trovano nella serie di libri Les decisions absurdes di Christian Morel, che sulla scorta degli studi di Boudon analizza il mistero della controfinalità e il modo in cui i feedback regolatori possono essere fraintesi (Morel 2002, 2012). Esempio paradigmatico di questo tipo di errore è il ricorso al salasso nella medicina fino al diciannovesimo secolo, pratica che nella maggior parte dei casi indeboliva il malato e talvolta ne causava la morte per anemia. Si parla in questo caso di «effetti iatrogeni» della cura, e questo ispirò a Illich il concetto di «iatrogenesi sociale» come «effetto paradossale non intenzionale» dell’intervento politico (Illich 2005).

Il dibattito sull’educazione, e più in generale i dibattiti sulla spesa pubblica, rischiano di trasformarsi in dialogo di sordi tra quelli che interpretano il fallimento come effetto del «troppo» e gli altri che lo interpretano come effetto del «troppo poco». Tutti comunque concordano nel rilevare che qualcosa non va, ed è peraltro possibile che abbiano ragione entrambi: ovvero che il sistema possa trarre beneficio tanto da un aumento quanto da una diminuzione della dose di spesa, poiché l’effetto perverso dipende da un equilibrio tra le azioni e le variabili di contesto. Tuttavia per quanto riguarda il problema specifico del sistema educativo ci sono valide ragioni per considerare che siano proprio le politiche sociali a produrre gli effetti iatrogeni, ed è appunto questo meccanismo che illustreremo di seguito. Non solo il sistema costa marginalmente più di quanto rende, ma inoltre alimenta quelle differenze sociali ed economiche che pretende di attenuare. Insomma, scrive Boudon, «la credenza secondo cui l’aumento massiccio dell’educazione non poteva portare altro che vantaggi è stata smentita dai fatti». Quarant’anni fa, peraltro.

L’inégalité des chances è il titolo del libro che Boudon ha interamente dedicato allo studio del fallimento del sistema educativo francese nel 1973, e che resta attuale oggi e in paesi diversi (Boudon 2011). Ma il suo monito è rimasto inascoltato, probabilmente perché mette in crisi quel rapporto necessario tra intenzione ed effetto che fonda l’ideologia delle democrazie contemporanee. Secondo l’opinione del politologo Albert Hirschmann, il modello di argomentazione al quale ricorre Boudon è tipico del pensiero reazionario (Fallocco 2007): fin dai tempi degli scritti contro la Rivoluzione francese di Edmund Burke e di Joseph De Maistre, la «tesi della perversità» sopra enunciata servirebbe a impedire «qualunque azione mirante a migliorare un qualche aspetto dell’ordinamento politico» col pretesto che questa «serve soltanto a esacerbare la condizione cui si vuole porre rimedio». Ma se questi effetti perversi effettivamente esistono — e Hirschmann non lo nega —, allora dobbiamo prendere il rischio di essere tacciati di reazionari pur di non partecipare al festoso gioco al massacro chiamato progresso. Può essere gratificante scendere in piazza per difendere l’idea che «Chi taglia la scuola, cancella il futuro», ma se fosse vero proprio il contrario?

Allo stato attuale, il sistema educativo è lontano dal raggiungimento dei suoi obiettivi fondamentali. È sul piano della mobilità sociale che i risultati sono più desolanti: come già notato dai sociologi degli anni Settanta (Boudon analizza ampiamente la questione) e come confermato da uno studio della London School of Economics nel 2005 (Blanden, Gregg, Machin 2005), e poi naturalmente dal lavoro ormai celebre di Thomas Piketty, le società occidentali hanno smesso di fare progressi in questo senso malgrado l’aumento complessivo della media degli anni studio (Barro, Lee 2010). Certo, le statistiche mostrano ovunque che la media del reddito individuale aumenta con il numero di anni di studio (Pew Research Center 2014), anche se talvolta seguendo una curva a U (Autor, Dorn 2013) che penalizza i risultati intermedi. Generalmente, nella maggior parte dei paesi occidentali studiare resta vantaggioso per chi può permetterselo. Tuttavia il dato in sé segnala semplicemente che il mercato del lavoro usa l’educazione come criterio di selezione (o di «signalling») entro una determinata popolazione, e non che i diplomi producono nuovi posti di lavoro o che incidono positivamente sulla distribuzione ineguale della ricchezza. Il meccanismo di selezione è un gioco a somma a zero e la competizione formativa è una specie di costosissima «conta» per allocare il capitale umano.

Ribadiamo il concetto, semplicissimo eppure evidentemente difficile da assimilare se non si dispone di un minimo di senso logico: il fatto che esista una correlazione tra livello di educazione e reddito individuale non implica in nessun modo che debba esserci, globalmente, un’influenza dell’educazione sulla crescita economica. Illustriamo questo paradosso con un esempio: se un’ipotetica società ripartisce la ricchezza in funzione dei risultati a una corsa, il più veloce avrà un guadagno superiore a quello del più lento. Ma questo non implica che correndo si sia creata della ricchezza, né che correndo tutti più veloce si possa influire sulla ricchezza complessiva. Senza dubbio bisogna tenere in considerazione anche gli effetti dell’educazione sulla produttività e gli effetti della produttività sulla crescita, ma questi effetti possono essere sia positivi che negativi. In effetti l’investimento eccessivo o male allocato produce cali di produttività o addirittura fenomeni di «controproduttività» (il concetto è di Illich), come mostra anche il fatto che il mercato del lavoro sanziona la forza-lavoro sovraistruita — una popolazione caratterizzata da elevati tassi d’insoddisfazione, assenteismo, sabotaggio industriale e uso di droghe (Tsang, Levin 1985)! Anche in questo caso, il problema sta tutto in quella curva a U che sanziona chi fallisce in maniera più severa di chi non partecipa.

Periodicamente un politico incauto lancia una sparata sui giovani fannulloni, così scatenando il subbuglio di mille code di paglia — «Ho sette lauree, vacci tu a raccogliere i pomodori!» – accompagnato da dotte considerazioni keynesiane sulla natura sempre involontaria della disoccupazione. Ma come si concilia, al di là di ogni giudizio morale, la teoria della disoccupazione involontaria con la realtà di un mercato che nondimeno richiede un certo tipo di manodopera e la soddisfa dislocando milioni di lavoratori da una parte del mondo all’altra? Cosa determina le traiettorie formative e professionali dell’attuale generazione di venti-trentenni occidentali se non delle scelte deliberate e delle preferenze soggettive?

La tanto vituperata teoria neoclassica della disoccupazione volontaria ha il vantaggio di porre la questione del lavoro in termini di razionalità individuale e può essere utile per capire cosa accade alla classe media occidentale, e italiana in generale. In effetti per chi dispone delle risorse sufficienti è razionale prolungare gli studi universitari, perfezionare un proprio talento o accumulare relazioni, piuttosto che andare a raccogliere pomodori: in questo modo aumenteranno le probabilità di ottenere il successo nel proprio campo, anche se dopo cinque o dieci anni vissuti da «vitelloni» come nel film di Fellini. Personaggio esemplare di questo tipo di strategia è Richard Katz nel romanzo Libertà (2010) di Jonathan Franzen: cantante in uno sconosciuto gruppo rock fino all’alba dei quarant’anni, barcamenandosi tra vari proverbiali «lavoretti», d’un tratto diventa famoso e passa istantaneamente da sfigato a idolo delle folle. Questo tipo di percorso professionale imprevedibile, caratteristico dei mestieri qualificati e delle attività creative, è analizzato da Nassim Nicholas Taleb nel suo Cigno Nero.

Un problema sorge tuttavia quando tutti gli agenti ricorrono a questa strategia e si configura un vero e proprio dilemma del vitellone, una «situazione lose-lose» prodotta dal gioco autodistruttivo delle razionalità individuali. Come notava Boudon, «la concorrenza per mezzo dei diplomi ha, per dirla come gli specialisti di teoria dei giochi, la struttura di un dilemma del prigioniero generalizzato». Poiché tutti fanno i proverbiali sacrifici per rendersi appetibili sul mercato del lavoro, sono necessari sacrifici sempre più ingenti: si ritarda l’entrata nella vita attiva, si pagano costose formazioni, si lavora gratis o quasi. In un saggio recente sul mondo del lavoro, per definire questo meccanismo si parlava ancora di «efficienza dell’incertezza» diretta a «regolare le fasi iniziali delle carriere professionali dei knowledge workers destinate a sfociare in lavoro dipendente a tempo indeterminato» (Aa. Vv. 2010): beato ottimismo. In realtà, a ogni stadio formativo si presenta una discriminazione di censo, perché viene via via escluso chi non ha le risorse per proseguire. Nello stesso modo, un giocatore di poker con una brutta mano può scegliere tra uscire e perdere l’automobile che ha già puntato (minimizzando il rischio di perdere ancora) oppure bluffare e giocarsi la casa (sperando di far uscire gli avversari). In quest’ultimo caso, il giocatore deve essere sicuro che la sua puntata sia abbastanza grossa da sortire l’effetto voluto. Fuor di metafora, una politica di spesa deve potersi dare i mezzi per essere efficace: altrimenti è soltanto suicida. Ecco una buona regola di comportamento che si potrebbe consigliare a chiunque volesse tentare una scalata sociale senza rischiare di ritrovarsi «in mutande».

Scriveva Boudon nel 1977 che «l’investimento scolastico necessario per raggiungere un qualsiasi livello nella scala degli status socio-professionali è più elevata per tutti oggi rispetto a ieri». Da allora, le cose sono peggiorate. Come notava nel 1997 uno studio della Cornell University dal titolo profetico, Is An Oversupply of College Graduates Coming?, «centinaia di migliaia di professioni che erano un tempo svolte senza nessuna laurea sono oggi riservate ai laureati perché i datori di lavoro traggono vantaggio dall’eccesso di offerta» (Bishop 1997). Si capisce che una simile corsa all’armamento formativo, per giunta incapace di produrre mobilità sociale, ottiene come solo risultato di penalizzare gli studenti più poveri e accentuare le differenze sociali. Ma è l’intera società che spreca risorse in questa competizione simile a quella che i teorici militari tedeschi chiamavano, come mi ha segnalato Federico D’Onofrio, «Materialschlacht»: ovvero una «guerra di materiale» caratterizzata da investimenti crescenti che fanno levitare il costo del conflitto e intaccano l’entità del bottino finale. Secondo Ivan Illich, «l’escalation scolastica è deleteria quanto l’escalation degli armamenti» e in effetti per descrivere questo meccanismo perverso di può parlare di Declassamento Mutuo Assicurato come ai tempi della guerra fredda si parlava di Mutual Assured Destruction (MAD). Una corsa all’armamento formativo che non scatenerà nessuna apocalisse atomica, ma che prosciuga i patrimoni e abbassa il costo del lavoro.

Si tratta di un vero circolo vizioso perché, come ricorda ancora Boudon, «il principale effetto dell’aumento della domanda di educazione sembra essere di richiedere all’individuo una scolarizzazione di durata sempre crescente in cambio di speranze sociali che, da parte loro, restano immutate». Paradossalmente, più la crisi è acuta e più scarseggia la domanda di forza-lavoro, più aumenta la domanda di titoli, più aumenta di conseguenza il costo d’inserimento professionale fino a raggiungere costi assurdi e proibitivi. Questo circolo vizioso ha conseguenze demografiche che sono particolarmente evidenti in Italia, dove il tasso di fecondità della classe media sembra essersi adattato alla crescita economica, entrambi in decelerazione dalla metà degli Settanta. Non solo i figli si fanno più tardi, perché si entra più tardi nella vita attiva, ma inoltre si fanno meno figli per via dell’aumento esponenziale della quantità di capitale iniziale necessario per mantenersi entro la classe di provenienza. Nel Saggio sui principi della popolazione, nella sua lista dei «freni preventivi» alla crescita della popolazione, Malthus menzionava le seguenti domande che un uomo potrebbe porsi prima di fondare una famiglia:

Non corre il rischio di perdere il proprio rango, ed essere costretto a rinunciare alle abitudini che gli sono care? Quale occupazione o mestiere sarà alla sua portata? Non dovrà imporsi un lavoro più gravoso di quello confacente alla sua attuale condizione? E se fosse impossibile garantire ai suoi figli i vantaggi dell’istruzione di cui egli ha potuto godere? (Malthus 1798, cap. 2. Tutte le traduzioni sono nostre)

Sono considerazioni familiari per la nostra classe media: una classe ricca ma non ricca abbastanza. Come ancora notava Malthus: «Discendere uno o due gradini, a quel punto ove la distinzione finisce e la rozzezza comincia, è un male ben reale agli occhi di coloro che lo provano o che ne sono semplicemente minacciati» (ivi, cap. 4). Pur di non rischiare di essere proletarizzata, pur di partecipare in maniera efficace alla Materialschlacht formativa, la classe media ha semplicemente ridimensionato la propria demografia. Questo aggiustamento, che ha contribuito a rimandare il processo di declassamento, è una forma di estinzione morbida. In un’economia che non cresce ma che continua a far pagare a caro prezzo il posizionamento sociale, questa è l’unica soluzione per sopravvivere.

I difensori del sistema scolastico insistono: se le cose non funzionano è perché non si è investito abbastanza! Se i poveri sono discriminati, allora aiutiamoli, e se i meno ricchi sono in difficoltà e fanno meno figli, aiutiamo anche loro. Insomma continuiamo a spendere per compensare gli scompensi creati dalla spesa stessa. Lo Stato dovrebbe continuare a indebitarsi pur di tamponare queste ingiustizie… Ma in assenza delle risorse adeguate appare più logico riflettere a un vero cambio di rotta. «Nessun paese», notava Illich, «può essere tanto ricco da permettersi un sistema scolastico capace di soddisfare la domanda che esso stesso crea con la sua sola esistenza». Non bisogna necessariamente descolarizzare la società e sostituirla con l’utopia illichiana, ma sicuramente bisogna disinnescare il meccanismo perverso e discriminatorio ingenerato dal programma egualitarista. Se volessimo sinceramente scoraggiare i comportamenti disfunzionali, dovremmo tuttavia tenere presente che questi a loro volta svolgono un insieme di latenti funzioni politiche, sociali ed economiche sulle quali si regge l’intero sistema — il quale risulta perciò «funzionalmente disfunzionale». A cosa servono dunque effettivamente l’obbligo scolastico e gli investimenti formativi?

 

Pensare da ricchi e vivere da poveri

Nello studio Education and Economic Growth: From the 19th to the 21st Century commissionato da Cisco Systems nel 2007, vengono elencante in maniera molto cruda, quasi distopica, le principali finalità economiche del sistema scolastico:

1. Trasmettere e inculcare competenze sociali conformi al metodo industriale di produzione e consumo.

2. Trasmettere e inculcare competenze sociali conformi a una vita urbana anonima, alla condizione di cittadinanza di massa e al rispetto del potere pubblico.

3. Incrementare la popolazione impiegabile nel sistema industriale di produzione e consumo al fine di sviluppare la divisione del lavoro.

4. Ottimizzare la capacità della società di produrre, accumulare, emendare e diffondere il sapere. (Cisco 2007)

Questa sintesi compensa l’eccessiva vaghezza che ci aveva turbati alla lettura dei documenti dell’UNESCO, e non ha bisogno di essere sviluppata ulteriormente. Tuttavia la scuola e l’università non si limitano a inculcare competenze professionali. Ivan Illich parlava di tre funzioni latenti svolte dai sistemi scolastici moderni oltre all’istruzione, ovvero indottrinamento, selezione e custodia. Da parte nostra, abbiamo identificato quattro funzioni che in parte ricapitolano quelle illichiane: primo, imporre il monopolio ideologico; secondo, giustificare l’ordine sociale; terzo, stimolare l’economia; quarto, esercitare un controllo sulle classi popolari. Le tratteremo in maniera più o mena estesa poiché alcune sono note, come la prima, e altre molto meno, come la quarta.

La prima funzione del sistema educativo è imporre il monopolio ideologico: si tratta di stabilire le condizioni linguistiche e culturali per la convivenza di un gruppo sociale su un territorio. Così come Carlomagno ai suoi tempi per fondare l’impero investì risorse nell’istruzione dei suoi sudditi (Le Jean 1997, Leonardi 1981), così come gli stati-nazione usarono la scuola per formare i loro cittadini e insegnar loro a capire e rispettare le leggi, così oggi l’ONU concepisce il diritto allo studio come fondamento di una meta-società mondiale e di una giurisdizione transnazionale.

La seconda funzione del sistema educativo è giustificare l’ordine sociale. Questa funzione è tanto più efficace quanto è precisa la convertibilità tra profitto scolastico e successo professionale, insomma quanto è più rigoroso e meritocratico il sistema di selezione. Si tratta, ad esempio, del caso della Francia. Questo meccanismo produce la percezione che l’ordine sociale sia giusto in quanto remunera oggettivamente le capacità. Di conseguenza, chi è insoddisfatto della propria posizione sociale non potrà che considerarla come un fallimento personale: le pagelle dell’asilo, i voti di maturità, il calvario delle «classes préparatoires» e l’esito dei concorsi sono lì per ricordarlo alla società intera in ogni momento. Non esistono qui le infinite e balsamiche scuse alle quali può ricorrere l’italiano, per definizione incompreso poiché nessuno lo ha mai davvero selezionato. Il miserabile dovrà prendersela con sé stesso. Per giunta, nelle società in cui questo meccanismo funziona, il sistema comunque non è in grado di produrre mobilità sociale: il profitto scolastico resta legato alle condizioni economiche di provenienza, come ha mostrato Bourdieu negli anni Sessanta in Les Héritiers, Les étudiants et la culture (Bourdieu, Passeron 1964). Al cittadino francese la République finge di aver dato tutte le opportunità e in verità gli ha dato soprattutto un bel pretesto per sentirsi in colpa: d’altronde stiamo parlando di uno dei paesi con il più alto tasso di suicidi al mondo e il più alto tasso di consumo di psicofarmaci in Europa. La patria della rivoluzione è anche una delle società più infelici della terra (Senik 2010), traumatizzata a vita dal proprio sistema educativo-concentrazionario fintamente egualitario.

La terza funzione del sistema educativo, precisamente keynesiana, è stimolare l’economia: innanzitutto in maniera diretta dando impiego ai funzionari preposti all’insegnamento, e poi in maniera indiretta abituando i cittadini ai consumi, se possibile culturali. Secondo l’analisi di Boudon, si tratta di un meccanismo che in una certa misura (ovvero finché non raggiunge il proprio limite strutturale) si autoalimenta: «L’aumento della domanda di educazione ha permesso uno spettacolare ampliamento del corpo insegnante e in questo modo l’afflusso degli studenti di Lettere e di Scienze ha potuto per ora essere più o meno assorbito» e poi in parte collocato. Oltre a ciò, la scuola si prefigge d’inculcare valori e abitudini della classe borghese senza preoccuparsi che questi possano entrare in conflitto con le risorse materiali presenti e future degli studenti: insegna cioè, dice Illich, a «pensare da ricchi e vivere da poveri». Nel suo ultimo libro, per spiegare l’attuale crisi economica italiana e occidentale Luca Ricolfi ha parlato di una «deriva signorile» o di una «società signorile di massa»:

Una società in cui un vasto ceto medio si è abituato a standard di vita che è sempre meno in grado di mantenere, perché la produzione – specie quella vera, fatta di cose che si toccano – è migrata al di fuori dei propri confini fisici e sociali. Fuori dei confini fisici, in quanto molto di quello che si produce oggi nel mondo non viene più prodotto entro le società più ricche, ma importato dalle economie emergenti. Fuori dei confini sociali, in quanto buona parte dei beni e servizi la cui produzione costa più fatica, o semplicemente dà meno soddisfazioni, è ormai delegata alla popolazione straniera, ospite più o meno tollerato delle società arrivate. E forse, per certi versi, anche fuori dei confini giurisdizionali, visto che una fetta sempre meno trascurabile del nostro consumo è fatta di beni e servizi immateriali, che circolano gratuitamente, o a prezzi irrisori, in quel luogo virtuale o non-luogo sottratto alle leggi che è Internet. (Ricolfi 2010)

Nello stesso modo il duca des Esseintes, in Controcorrente di Huysmans, si diverte a portare un giovane povero al bordello, abituarlo a vizi che non può permettersi e poi abbandonarlo alla sua condizione per farlo soffrire e trasformarlo in un ladro, anzi in un assassino. Nel caso del sistema educativo l’obiettivo è più limitato: trasformare lo studente in consumatore, che tenderà a risparmiare il meno possibile al fine di garantirsi uno stile di vita affine a quello promosso dalla scuola e dall’università. A guidare questo progetto formativo non è la crudeltà come nel caso di Des Esseintes, ma un terribile ottimismo. Le statistiche promettevano tassi di crescita a due cifre, deindustrializzazione felice e imborghesimento di massa: bastava dunque soltanto un pizzico di sospensione dell’incredulità per convincersi che la cultura avrebbe potuto sostituire le altre attività economiche. O, come letto sull’ennesimo striscione: «Il futuro di questa città: no industria ma cultura e università». Che splendida, folle, utopia borghese!

La quarta funzione è forse la meno evidente, ma è fondamentale: si tratta di una funzione di controllo sociale e demografico delle classi popolari. L’obbligo scolastico ha l’effetto evidente di ritardare l’entrata nella vita attiva, fornendo in cambio un titolo di studio inflazionato. Se questo titolo resta tuttavia spendibile sul mercato del lavoro, è proprio perché esso è diventato una condizione minima di selezione. In questo contesto competitivo, conviene effettivamente al singolo individuo studiare fino a sedici o diciott’anni, malgrado l’elevato costo opportunità. Ma complessivamente l’effetto è semplicemente di alzare l’asticella delle competenze richieste sul mercato, inflazionare il valore dell’istruzione e quindi penalizzare quella parte di popolazione che effettivamente potrebbe trarre beneficio da un simile investimento. Questo meccanismo porta quindi a un impoverimento relativo dei più poveri, costretti a sprecare inutilmente risorse nell’educazione invece che in un progetto di emancipazione a più lungo termine. Inoltre, neutralizzando le aspirazioni all’indipendenza che sorgono all’adolescenza, questo meccanismo regola la sessualità, ritarda il matrimonio e perciò attutisce il potenziale demografico delle classi più povere.

Per analizzare questo fenomeno possiamo guardare a quello che accade in Francia, caso di scuola del fallimento del sistema educativo nel progetto di accompagnare i figli d’immigrati sul cammino dell’ascesa sociale. Anche qui, il paradosso sorge dalla volontà di sottomettere una classe sociale a un sistema pensato per una classe più ricca. L’istruzione obbligatoria viene istituita in Francia nel 1882, e fissata fino a tredici anni (undici in certi casi). Si passa poi a quattordici anni nel 1936, e a sedici anni nel 1959. Se come l’UNESCO consideriamo che questo progresso normativo sia un movimento naturale verso la realizzazione di un astratto diritto universale alla scolarizzazione, questa evoluzione non ci stupirà. Ma sarebbe più realista riconoscere che la legge non ha fatto altro che adattarsi alla trasformazione del contesto socio-economico e demografico. La società francese s’imborghesiva e la legislazione seguiva, imponendo «una sorta di neoumanismo planetario che mira a generalizzare lo status di signore» come direbbe Ricolfi. Se riconosciamo questo, possiamo anche riconoscere che una trasformazione socio-economica di segno opposto può richiedere un adattamento legislativo, appunto, di segno opposto. Che senso avrebbe ostinarsi a mantenersi una legislazione pensata per una società diversa, una società in rapida espansione economica che oggi è soltanto un bel ricordo? Di tutta evidenza, una trasformazione ha avuto luogo e oggi una parte della popolazione semplicemente non dispone delle risorse per partecipare al grande sogno progressista della République, una «lotteria obbligatoria» (come scriveva Illich) e truffaldina per preparare i più poveri a entrare in una società signorile di massa — nella quale però non entreranno mai.

Osservando da questo di punto di vista la situazione francese, il mantenimento di un’età di scolarizzazione così alta risulta aberrante, un chiaro segno dello scollamento tra la realtà astratta de jure e quella concreta che esiste de facto. La disfunzionalità del sistema scolastico nasce dalla volontà d’imporre anche alle classi più povere un sistema scolastico pensato per la borghesia francese. Questo difetto del sistema può spiegare la «violenza nelle banlieue», la quale non ha nulla di precisamente etnico come vorrebbe il Fronte Nazionale, ma sembra piuttosto essere il prodotto della miscela tra povertà e forza lavoro congelata. Quella che lo Stato francese tenta di controllare è una minaccia di tipo demografico. In questo senso, l’istruzione obbligatoria è soprattutto un sistema di contraccezione per le classi popolari. Se la prole rappresenta per il «proletario» l’unica ricchezza, l’unico effetto della scolarizzazione prolungata consiste nello stoccare questa ricchezza producendo un danno economico. Ma a chi importa di correggere questo meccanismo perverso, fintanto che possiamo apparire progressisti buttando risorse nel pozzo senza fondo dell’educazione nazionale? Se si risolvesse il problema si priverebbero i proletari della speranza di un’ascesa sociale istantanea, e gli intellettuali socialisti della loro buona coscienza. Ma questa speranza emancipatrice è oggi, di fatto, un’illusione crudele, che si alimenta promuovendo quote omeopatiche di proletari. La scuola dell’obbligo serve soltanto a scoraggiare la loro emancipazione e la loro riproduzione, vera e propria minaccia per una classe media che da parte sua s’impoverisce e si estingue.

 

Sovraccumulazione e devalorizzazione del capitale umano

Scriveva Karl Marx : «Tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci» (Marx 2009, I. 1). Di queste merci fanno parte tanto le merci che vengono consumate direttamente quanto quelle particolari merci che servono a produrre ulteriori merci: in questo caso si parla di capitale. Per produrre un profitto o perlomeno ripagare la spesa investita nella produzione, tutta questa merce e tutto questo capitale accumulati devono essere venduti o impiegati in qualche modo. In caso contrario si presenta una crisi: crisi di sovrapproduzione delle merci ma soprattutto crisi di sovraccumulazione del capitale. Immaginate un’azienda che fabbrica un certo tipo di macchina, in previsione di una domanda molto ampia. Si tratta di un gigantesco investimento, ma altrettanto gigantesco è il profitto atteso. Immaginate poi che la previsione si riveli completamente sbagliata. La domanda si è contratta e le macchine non si vendono. Immaginate allora tutte queste belle macchine, oramai inutili, abbandonate nei magazzini. O svendute. Smontate. Distrutte.

Bene. Ora immaginate di essere una di quelle macchine.

La generazione dei venti-trentenni della classe media occidentale, con i loro diplomi e le loro competenze inflazionate, si sarà forse riconosciuta in questa descrizione che la vede nell’insolito ruolo di capitale — umano, come si suol dire. La società occidentale ha fallito nel prevedere e pianificare le competenze che sarebbero state utili alla società a medio e lungo termine, e ha fallito per via di un effetto di composizione tra le previsioni dei singoli individui. Tutti hanno creduto possibile scavalcarsi reciprocamente per ottenere i posti più ambiti, lasciando il resto del lavoro agli immigrati del terzo mondo. E così facendo, la maggior parte di chi aveva qualche risorsa ha investito tutto nel progetto di trasformarsi nella più perfetta delle macchine inutili. Semplificando molto, è come se ogni famiglia abbastanza ricca per permettersela avesse acquistato una costosa macchina per stampare banconote; con il solo effetto d’inflazionare il valore complessivo di quelle banconote. Semplificando un po’ meno, diremmo che la sovraccumulazione ha causato la devalorizzazione del capitale, fenomeno ampiamente analizzato dagli economisti classici fino a Marx2. Il capitale che prima generava un profitto ha iniziato a generarne meno, oppure non ne genera più, o addirittura genera perdite. Questo capitale deve essere distrutto.

Come un tempo nelle scuole militari si studiavano le grandi battaglie per trarne insegnamento, oggi nelle Business School gli aspiranti manager analizzano successi e fallimenti commerciali in forma di exempla edificanti. Impareranno così che il mercato è in continua trasformazione ed è necessario trasformarsi con esso: innovando se necessario, ma senza compromettere la propria posizione. Alcuni di questi casi sono oramai proverbiali e in particolare quelli negativi, le cosiddette brand failures. In tempi recenti ricordiamo Kodak, che sottovalutò l’impatto della fotografia digitale e continuò a investire nella pellicola, acquistando nuovi stabilimenti fino al 2003. Ma la parte da leone nel pantheon delle brand failures la merita forse il Betamax, il sistema di videoregistrazione domestica lanciato da Sony nel 1975 e naufragato nello scontro con il VHS.

Il fallimento, s’insegna ai giovani ambiziosi, fa parte del gioco: un gioco darwinista che si chiama mercato, nel quale ogni trionfo costa cento errori. Alcune aziende falliranno e altre prospereranno, ma nel complesso il meccanismo è virtuoso: Joseph Schumpeter parlava perciò di «distruzione creatrice». Ma cosa succede quando un’intera economia sbaglia direzione, allocando i fattori produttivi su settori sbagliati? Cosa succede se, invece di essere assorbito dalla statistica, l’errore risulta sistemico? Avremmo forse l’occasione di scoprirlo nei prossimi anni: poiché questa è appunto la nostra storia. Storia di un epocale «civilization failure», come quelli raccontati da Jared Diamond in Collasso. Storia di un’economia che ha investito in un miraggio le sue migliori risorse, contando sull’arricchimento ex nihilo di un terziario ipertrofico. Storia di un sistema educativo che ha fabbricato un’intera generazione di macchine inutili, la generazione Betamax.

Una classe si costituisce non solo nel suo rapporto con il capitale ma inoltre nel suo essere capitale essa stessa. A differenza di quello che una volta veniva chiamato «proletario» perché non possedeva nulla se non la propria prole, il membro della classe media dispone di un eccesso di capitale che gli è assolutamente necessario per riprodursi e mantenersi entro la classe di provenienza. Questo investimento riproduttivo si chiama formazione e include l’educazione scolastica e universitaria, l’apprendimento di codici e linguaggi, la costruzione di un network. Se non investe capitale sufficiente, in un contesto di crisi economica latente che dura dalla fine degli anni Sessanta, la classe media condanna i propri figli al declassamento. Ma il costo di questa riproduzione risulta sempre più elevato e sempre meno redditizio a causa dell’escalation formativa: elevato perché aumentano gli anni di studio richiesti, meno redditizio perché la crescente concorrenza sul mercato del lavoro deteriora le condizioni contrattuali. A fronte di questo costo, la demografia della classe media si adatta in funzione delle proprie possibilità — ovvero si smorza, si estingue. E così precipita anche la domanda di beni borghesi, e così il valore dei membri della classe in quanto capitale, eccetera. La cosa più assurda che possa fare una società, a questo punto, è scommettere tutto quello che le resta sulla monocoltura del terziario e dei consumi posizionali. Eppure lo ha fatto! Ha formato i propri figli a fare cose raffinatissime e li ha educati a consumarle. Sembrava l’invenzione del moto perpetuo, la grandiosa abolizione del lavoro. Ma era solo un sogno. Ora milioni di macchine si stanno svegliando.

Molti sostengono che il Betamax fosse una formato migliore del VHS, ma questo non è bastato. Che fine hanno fatto quei vecchi videoregistratori? I più fortunati vengono oggi venduti su Internet come oggetti d’antiquariato, testimoni di un’epoca piena di ottimismo. Gli altri sono stati smembrati e riciclati, diventando macchine più utili: bippano, scaldano, frullano. Impegnati in mansioni banali, non possono fare a meno di ripetere indignados: «Io sono un Betamax, che ci faccio qui?». Alcuni si radunano per occupare i comodini e sperimentare esperienze di democrazia reale. Tutti ricordano con malinconia gli anni bellissimi in cui pareva davvero che il Betamax avrebbero conquistato il mondo.

Del pasticcio in cui la classe media occidentale si è cacciata, il sociologo marxista Michel Clouscard aveva descritto il meccanismo nella sua Critique du libéralisme libertaire del 1986: «La classe borghese offre più figli di quanti sono i mestieri borghesi richiesti dal capitalismo. Questo surplus farà le rivoluzioni. Ma rivoluzioni borghesi» (Clouscard 1986). La condizione del figlio borghese è paradossale: se da una parte il suo ruolo è di consumare eccessivamente, e dunque anche consumare un certo capitale ereditato, d’altra parte egli è esso stesso un eccedente: non c’è per lui alcun lavoro borghese da svolgere, e perciò nessun modo di accumulare nuovo capitale. Secondo Clouscard il borghese non è in grado di derogare alla propria condizione: «Per quanto profondamente escluso dal possesso del capitale, dai mestieri e dalle funzioni proprie della sua classe, il borghese non può scivolare nella classe operaia e svolgere la professione di operaio». Ed è appunto questa sua incapacità di derogare che lo condanna.

All’epoca degli attentati dell’undici settembre 2001, vari analisti attirarono l’attenzione sul fatto che i terroristi fossero spesso laureati e che gli ingegneri rappresentassero una proporzione importante dei membri delle organizzazioni islamiste. È stato dimostrato che terroristi ed estremisti tendono ad avere generalmente un’educazione superiore alla media (Krueger 2007), cosa che potrebbe sorprendere i funzionari dell’UNESCO ma che soprattutto attira l’attenzione su un paradosso interessante: «L’adesione al terrorismo non è altro che una particolare applicazione dei principi dell’economia delle scelte occupazionali. Certe persone scelgono di diventare dottori o avvocati, altri tentano una carriera nel terrorismo». Nel loro studio del 2009 Why are there so many Engineers among Islamic Radicals?, Gambetta e Hertog sostengono che la scelta del terrorismo dipende dalla scarsità di posti qualificati offerti dal mercato del lavoro nei paesi arabi al termine di cicli di studi che avevano promesso sbocchi occupazionali di alto livello (Gambetta, Hertog 2009). Conseguenze impreviste della sovraistruzione… Le cose vanno diversamente nei paesi occidentali, dove per ora il disagio della generazione Betamax si traduce al massimo in manifestazioni circoscritte e in voti di protesta. Studenti ed ex-studenti, forti di un’educazione che li ha resi critici di tutto ciò che gli è stato insegnato a criticare, sventolano striscioni su cui è scritto «Cogito ergo protesto» per rivendicare cose che gli è stato insegnato a desiderare. Queste aspirazioni plasmano un’idea di diritto sempre più disfunzionale perché tarata su una realtà che non esiste e forse non è mai esistita.

Bisogna descolarizzare la società, dunque? Nel corso della nostra critica abbiamo sollevato varie questioni e fornito qualche orientamento. Guardiamoci da ogni utopismo e limitiamoci a riflettere su fallimenti ed effetti perversi del dispositivo politico-economico chiamato «sistema educativo», dal quale sembra dipendere la configurazione dell’intera società e molti dei suoi dilemmi. La scuola non riesce a educare i giovani alla convivenza democratica? Chiediamoci se non vi sia qualcosa di occultamente discriminatorio nell’ideologia della tolleranza e qualcosa di occultamente vizioso nell’ideologia della virtù. L’obbligo scolastico penalizza i più poveri? Riflettiamo alla possibilità di ridurlo di qualche anno, al fine di emancipare economicamente la sola classe sociale che forse avrà la forza — su due o tre generazioni — per instaurare un nuovo ciclo. La spesa per l’istruzione non produce crescita? Invece di puntare su una concezione magico-religiosa della spesa pubblica, accettiamo di riallocare le risorse in funzione dei bisogni della società. La classe media si rovina al tavolo da gioco formativo? Ebbene provi a darsi dei fini conformi ai mezzi di cui dispone, e se non ci riesce — beh, diciamoci che la sua estinzione non sarà altro che una forma di regolazione spontanea della popolazione. Ma ricordiamo la profezia di Sismondi: «Un certo tipo di equilibrio è sì raggiunto in un lungo periodo, ma dopo una lunga sofferenza» (de Sismondi 1819).

 

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Note

1 Sullo stato dell’università e della cultura italiana si veda Giunta 2008.

2 Si veda la monumentale sintesi in Boccara 2013.

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