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lavoro culturale

La bona scuola

di Marco Ambra

Bauducco, oltre a parlarmi di sport – scherma, equitazione, voga – e di quando era alpino, mi spiegava anche come cultura e produzione si accordino secondo una doppia curva. «Queste sono le spese generali», diceva mostrandomi una riga rossa ascendente su un foglio di carta millimetrata.
«Il fatturato invece è rappresentato da una riga verde. Quando le due curve si toccano, allora si ha il pareggio, e vuol dire che l’azienda è sana. Quanto più le due curve si distaccano, all’opposto, tanto più l’azienda è malata, passiva». «Ma qui la curva verde non si vede», feci io, perché infatti non si vedeva nessuna linea verde. «Ecco, per il momento noi abbiamo solo la riga rossa; quella verde non c’è, perché ora nella nostra azienda non esiste fatturato».

(L. Bianciardi, L’integrazione, Feltrinelli, Milano 2014, p. 41)

la-buona-scuola copertina-e1409814034118Passerà alla storia come un capitolo formidabile di storia della lingua italiana questo documento sulla Riforma della scuola pubblica diffuso ieri dal MIUR. Se non per la pletora di annunci e obbiettivi ambiziosi (come quello di riscrivere il Testo Unico del 1994), per l’uso iperbolico di anglismi e acronimi con cui le sue 136 pagine descrivono la visione de la buona scuola promossa dal duo Renzi-Giannini. In un Paese come il nostro in cui il livello di conoscenza della lingua inglese è considerato basso dagli indici internazionali per livello di competenza, il governo ha deciso di costruire la strategia di comunicazione di una di quelle che è considerata fra le riforme-chiave più importanti proprio sull’efficacia sciamanica delle formule anglofone, lessico di base dell’epoca del primato dell’economia sulla vita. Non perderò tempo ad analizzare la cornice semantica di un certo uso di parole inglesi come coding e governance, che a prima vista tradiscono una certa subalternità culturale – è un eufemismo – al pidgin english del neoliberismo e dei digitalisti. Mi limiterò dunque a scandagliare la cortina di governance e challenge che si addensa sul tanto atteso documento, per trarre qualche aleatoria conclusione sui suoi potenziali effetti.

 

Il piano di assunzioni dei precari nelle Graduatorie ad esaurimento (Gae)

Lo aveva anticipato il ministro Giannini alla compiacente assise del meeting di CL che il progetto di riforma della scuola andava nella direzione dell’abolizione delle supplenze e di conseguenza della fascia di precariato ad esse connessa, i precari e le precarie delle Graduatorie ad esaurimento.

Si tratta di 148.100 persone stanziate all’ombra delle promesse di immissione in ruolo e che sarebbero in procinto di essere arruolate nell’organico funzionale della scuola pubblica di ogni ordine e grado in virtù di un piano di assunzione dal costo di 4,1 miliardi di euro spalmati sui prossimi dieci anni.  Per effetto domino l’assunzione dei precari delle Gae comporterebbe l’abolizione anche della III fascia d’istituto, quella dei laureati non abilitati, pochissimi dei quali ormai riescono a lavorare per più di 30 giorni, e la promozione della II fascia d’istituto (abilitati Tfa, Pas e Lauree in Scienze della Formazione del Vecchio Ordinamento) a unico potenziale bacino delle “supplenze brevi”.

A parte la questione del reperimento dei fondi, per il 2015-16 pare serviranno 1,5 miliardi che la revisione della spesa stenta a far emergere, la prima difficoltà contro cui si scontra il roboante annuncio di abolizione del precariato è la fetta di torta troppo piccola da dividere tra precari storici e i vincitori e gli idonei del concorso indetto nel 2012. L’immissione in ruolo per il prossimo anno scolastico dei precari censiti nelle Gae è realizzabile solo al costo di aggirare le percentuali di legge che stabiliscono le immissioni in ruolo e che impongono una divisione 50% e 50% con le graduatorie dei vincitori del concorso 2012. Una bella sfida, viste le maggioranze parlamentari variabili e le tempeste sindacali, in arrivo a tutelare, chi per interesse chi per mestiere, i diritti insindacabili dei vincitori del concorso. Ma se questa macabra contabilità del precariato si risolverà nell’immissione in ruolo di alcuni non intaccherà di certo la questione delle supplenze brevi, briciole di servizio destinate agli abilitati della II fascia d’istituto. Questi, se non dovessero vincere o almeno risultare idonei al concorso indetto per il 2015 (il decreto dovrebbe comparire in primavera) si ritroverebbero a svolgere la funzione di esercito salariato di riserva della scuola pubblica, chiamato a presidiare una cattedra durante i picchi stagionali di assenteismo del personale docente. Costretti dunque a sperare nella prossima influenza e nel frattempo a collezionare un altro paio di lavori precari, pardon flessibili, per tirare a campare. Ma se neanche il vaccino antinfluenzale dovesse eliminarli, questi protervi fattori patogeni di II fascia, riceveranno il ben servito dalla scure del reperimento fondi per le assunzioni dei precari in Gae. Infatti, nel caso in cui il reperimento di 4,1 miliardi in dieci anni dovesse risultare un compito oneroso è già pronta una mannaia sul costo delle supplenze brevi, calcolato nel taglio di  mezzo miliardo di euro all’anno (La Buona Scuola, p. 35).

Va detto poi che i fortunati 148.100 che verranno immessi in ruolo a partire dal 2015-2016 entreranno a far parte di quello che nel gergo dell’autonomia scolastica si chiama “organico funzionale” e che rappresenta la declinazione della funzione docente non solo in termini di didattica frontale in classe ma anche nel senso della partecipazione dell’insegnante ad attività professionali di varia natura, dall’organizzazione dei corsi di recupero alla progettazione delle attività extracurriculari. A tal proposito il documento invoca l’onnipresente paradigma della flessibilità sotto due rispetti: 1) flessibilità geografica, ovvero “cari neoimmessi in ruolo siate pronti a spostarvi in una provincia o regione diversa da quella in cui prestate servizio” (in barba all’età media degli iscritti in Gae, 41 anni); 2) flessibilità disciplinare, ovvero “allargando” le classi di concorso attuali e permettendo i travasi da quelle affini per venire incontro alle necessità dei curricula delle scuole.

 

L’allineamento fra il piano di assunzioni e il piano di carriera nell’ordine del discorso meritocratico

Per i futuri immessi in ruolo dalle Gae la “formazione in servizio” diventerà più di un mantra da società della conoscenza ma una vera e propria religione sulla base della quale costruire carriere e fortune. L’obiettivo è produrre una vera e propria microfisica dell’azione riformatrice che guadagni alla causa riformatrice, dal basso, gli insegnanti neoassunti: a tale scopo nei prossimi tre mesi una commissione italiana di non meglio identificati esperti formulerà “il quadro italiano di competenze dei docenti nei diversi stadi della loro carriera” (p. 45). Questi esperti codificheranno un sistema di crediti formativi, sul modello già funestamente in atto nell’Università post Berlinguer, cui il governo intende agganciare le progressioni di carriera per il futuro prossimo. Con il sistema dei crediti gli scatti di carriera del personale docente verranno legati al continuo aggiornamento  dei  portfolio individuali attraverso un sistema di crediti didattici (che misurerebbero una fantomatica qualità dell’insegnamento), formativi e professionali (organizzazione della scuola e progettazione). Il portfolio, valutato con scadenza triennale dal Nucleo di Valutazione della scuola allargato anche a un membro esterno (forse un tecnico dell’Invalsi), peserà il numero di crediti di ciascun insegnante e valuterà gli scatti negli stipendi. Chi avrà maturato più crediti in un triennio potrà rientrare in quei 2/3 di docenti per scuola – così dice il documento – che avranno diritto alla progressione di carriera. Le scuole in cui la funzione docente ha maturato per cicli triennali consecutivi più crediti saranno in questo modo considerate virtuose  in quanto “sature” di insegnanti competenti e giocoforza determineranno – sempre secondo il documento -  lo spostamento degli “aspiranti meritevoli” in scuole dove la media dei crediti è relativamente bassa.

In altre parole la logica mercatista della mano invisibile sottende la ratio, ammesso che di ciò si possa parlare, di questo allineamento assunzioni-crediti-progressioni di carriera. Un’intenzione riassunta dal binomio valutare e punire: da un lato il bisogno di distinguere i meritevoli- che però non possono superare i 2/3 dell’organico funzionale di una scuola – da quel 1/3 di utili sfaccendati e, dall’altro lato, una fede cieca nel fatto che l’aspirazione a stipendi migliori determinerà nel lungo periodo trasferimenti nelle scuole “peggiori” . A margine va detto poi che questi copiosi scatti di carriera prevedono per i neoassunti 160 euro in più sullo stipendio dopo i primi 6 anni, ma solo se meritevoli, anziché i 180 euro dopo 9 anni, ma per tutti, del contratto attuale. E non è un caso allora se si auspica che il Nucleo di Valutazione di ogni singolo istituto venga inserito fra gli organi di autogoverno, pardon autogovernance, della scuola. Esautorando così di fatto la bella promessa, forse mai mantenuta, dai quei corpi intermedi della vita scolastica nati dalla stagione dei Decreti Delegati del ’74. A che punto siamo, dunque, con i quarant’anni da smantellare?

 

In corpore sano, classe 2.0 e “venghino siooori venghino!”

Chiudo con tre, fra le innumerevoli suggestioni, che questo corposo documento elenca. Innanzitutto l’aumento delle ore di musica (nel IV e V anno della scuola primaria), arte ed educazione fisica previste nel piano di immissioni in ruolo. Iniziativa questa encomiabile e di certo nello spirito delle posizioni di Martha C. Nussbaum, pensatrice immagino molto frequentata dalle parti di Largo del Nazareno. Certo che per quanto riguarda la legittimazione del potenziamento delle ore destinate all’attività fisica, un tempo detta psicomotricità oggi, in tempi di neuro-riduzionismo, solo motricità, una nota di coloritura folcloristica è la rappresentazione dell’obesità infantile come nemico della gioventù italiana. Immagino che le nonne di Molfetta non mancheranno di esprimere le loro perplessità attraverso l’apposita consultazione online e una serie di ipercaloriche merende offline.

Quanto alla classe digitale, croce e delizia dell’istruzione italiana, il documento segna un cambio di rotta rispetto ai soviet d’istituto che vollero e acquistarono a spese del Fondo d’Istituto le LIM. La classe digitale renziana è più leggera e flessibile, più smart: banda larga per tutte le scuole, wi-fi per la classe con possibilità di disattivazione, così da non creare problemi disciplinari e didattica su dispositivi digitali. Un salto nel futuro se solo fossero indicate le coperture di spesa per realizzarlo, tant’è vero che, sommessamente, il documento suggerisce una più saggia attuazione della didattica su dispositivi digitali in modalità BYOD (Bring Your Own Device, p. 76. Traduzione: “Ah ragazzì, porta l’ipod de papà che qui i sordi sò finiti”).

Last but not least, il capitolo sull’apertura ai soldi dei privati della scuola pubblica. E qui il documento auspica e con l’altra mano – quella destra – indica le possibili iniziative del privato filantropo in tre modalità. Lo School Bonus, un bonus fiscale per le aziende o i privati che decidono di dedicare un portafoglio di investimenti ad una scuola, alle sue strutture o ai suoi laboratori nel caso degli I.T.S.; lo School Guarantee, uno strumento di incentivo fiscale che si aggiunge al primo nel momento in cui si dimostra che l’investimento è agganciato al “successo formativo” (petitio principii) e infine il noto crowdfunding dei comuni cittadini (p. 125), già noto perché in tante scuole dell’infanzia e primarie i genitori fanno la colletta per comprare la carta igienica.

La Buona Scuola promette, progetta e minaccia. Ma può realmente e seriamente confrontarsi con un mondo, quello dell’istruzione, che ha subìto fra il 2008 e il 2011 8,4 miliardi di euro di tagli lineari? Può confrontarsi con un mondo, come quello della scuola secondaria di primo grado, che non conosce una riforma strutturale dal 1962? Senza spesa pubblica e senza una seria cultura dell’istruzione non solo non esiste la buona scuola, non esiste più neanche la scuola.

Note
[1] A volo d’uccello mi limito a notare che l’uso degli anglismi è civettuosamente bilanciato da un tributo al latinorum della tradizione crociano-gentiliana con l’in corpore sano con cui si annuncia il potenziamento  delle ore di arte, musica ed educazione fisica.

Tratto dal sito il lavoro culturale al link: http://www.lavoroculturale.org/la-bona-scuola-riforma-renzi-giannini/

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