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manifesto

Contro i mastini di Silicon Valley

Evgeny Morozov

«L’economia della condivisione» più che un’alternativa ai colossi della Rete è la forma più innovativa dell’industria basata sull’acquisizione e vendita dei dati personali. Una parola d’ordine populista che trova un alleato negli studiosi che denunciano i pericoli allo sviluppo cognitivo rappresentati dalla tecnologia

30cultNel bagno con­nesso, lo spaz­zo­lino da denti inte­rat­tivo lan­ciato quest’anno dalla società Oral-B (filiale del gruppo Procter&Gamble) è una star: inte­ra­gi­sce senza fili con il nostro cel­lu­lare men­tre, sullo schermo, un’applicazione segue secondo per secondo le fasi della puli­zia dei denti e indica gli angoli della cavità orale che meri­te­reb­bero mag­giore atten­zione. Abbiamo stro­fi­nato con suf­fi­ciente vigore, pas­sato il filo inter­den­tale, raschiato la lin­gua, risciac­quato il tutto?

Ma c’è di meglio.

Come spiega con fie­rezza il sito che gli è dedi­cato, lo spaz­zo­li­no­ con­nesso tra­sforma il gesto di spaz­zo­lare i denti in un insieme di dati che si pos­sono ren­dere in forma di gra­fico o comu­ni­care ai pro­fes­sio­ni­sti del set­tore. Che sarà di que­sti dati, è ancora oggetto di dibat­tito: ne man­ter­remo l’uso esclu­sivo? O saranno cat­tu­rati dai den­ti­sti pro­fes­sio­ni­sti e per­fino ven­duti a com­pa­gnie di assi­cu­ra­zione? Si aggiun­ge­ranno alla mon­ta­gna di infor­ma­zioni già dispo­ni­bili nel gra­naio di Face­book e Google?

L’improvvisa presa di coscienza che i dati per­so­nali regi­strati dal più banale degli elet­tro­do­me­stici dallo spaz­zo­lino elet­trico al fri­go­ri­fero potreb­bero tra­sfor­marsi in oro ha sol­le­vato cri­ti­che alla logica por­tata avanti dai masto­donti della Sili­con Valley.

 

Que­ste imprese rac­col­gono su grande scala le tracce lasciate dagli inter­nauti sui siti che fre­quen­tano, le siste­mano e le riven­dono a inser­zio­ni­sti o ad altre società. Così gua­da­gnano miliardi di dol­lari, men­tre i frui­tori, noi, otten­gono sola­mente alcuni ser­vizi gra­tuiti. Da que­sta con­sta­ta­zione nasce una cri­tica biz­zarra, dai con­no­tati popu­li­sti: con­te­stiamo que­sti mono­poli, si sostiene, e sosti­tuia­moli con una mol­ti­tu­dine di pic­coli impren­di­tori. Ognuno di noi, insomma, potrebbe costi­tuire il pro­prio por­ta­fo­glio di dati e trarre van­taggi dalla sua commercializzazione, vendendo ad esem­pio i dati sulla spaz­zo­la­tura dei denti a un pro­dut­tore di den­ti­frici e il pro­prio genoma a un labo­ra­to­rio far­ma­ceu­tico, o rive­lando la pro­pria ubi­ca­zione in cam­bio di uno sconto al risto­rante all’angolo. Voci auto­re­voli, come quella del sag­gi­sta e impren­di­tore Jaron ­La­nier o del ricer­ca­tore e infor­ma­tico Alex Sandy Pen­tland, decan­tano que­sto nuovo modello.

Ci viene pro­messo un mondo nel quale la pro­te­zione della vita pri­vata sarebbe comun­que garan­tita: se si con­si­de­rano i dati come una pro­prietà pri­vata, allora un solido arse­nale giu­ri­dico e tec­no­lo­gie ade­guate pos­sono assi­cu­rare che nes­sun sog­getto terzo li tra­fu­ghi. Al tempo stesso si fa bale­nare ai nostri occhi anche un futuro di pro­spe­rità. Gra­zie a quale mira­colo? Quello dell’internet degli oggetti, cioè la pro­li­fe­ra­zione di appa­rec­chi gra­zie ai quali i nostri più pic­coli atti e gesti saranno cen­siti, ana­liz­zati e…monetizzati. Da qual­che parte c’è qual­cuno dispo­sto a pagare per cono­scere il motivo che can­tiamo sotto la doc­cia. Se non si è ancora mani­fe­stato, è solo per­ché nel nostro bagno non ci sono micro­foni col­le­gati a internet.

È chiaro. Se Goo­gle riem­pie la nostra casa di gra­ziosi sen­sori intel­li­genti fab­bri­cati dalla sua filiale Nest, sarà Goo­gle e non noi a gua­da­gnare denaro quando can­tic­chiamo. La stra­te­gia di que­sto gigante con­si­ste nell’aggregare dati pro­ve­nienti da una quan­tità di fonti (auto­vet­ture senza con­du­cente, occhiali col­le­gati, posta elet­tro­nica) e a far dipen­dere l’efficacia del sistema dalla sua ubi­quità: per trarne il mas­simo van­tag­gio, dovremmo per­met­tere ai suoi ser­vizi di arri­vare, come il gas, a tutti gli angoli della nostra vita quotidiana.

L’enormità del ser­ba­toio di dati in tal modo costi­tuito lo pro­tegge da qua­lun­que con­cor­renza; le imprese di minore dimen­sione l’hanno capito benis­simo. Non rimane loro che una scelta: rispon­dere all’appello di Pen­tland e Lanier, e con­trat­tac­care Goo­gle esi­gendo che i dati appar­ten­gano by default agli uti­liz­za­tori, o almeno che que­sti siano i desti­na­tari di una parte dei benefici.

Que­ste due stra­te­gie appa­ren­te­mente diver­genti attin­gono alla stessa sor­gente ideo­lo­gica, della quale rap­pre­sen­tano due varianti intel­let­tuali. Come spiega il socio­logo bri­tan­nico Wil­liam Davies, la visione pro­po­sta da Pen­tland e Lanier si ricol­lega ala tra­du­zione ordo­li­be­ri­sta tede­sca, che eleva la con­cor­renza al rango di impe­ra­tivo morale e con­si­dera dun­que peri­co­loso qua­lun­que monopolio.

Meno osses­sio­nato dalla morale che dall’efficacia eco­no­mica e dall’interesse del con­su­ma­tore, l’approccio di Goo­gle, dal canto suo, è ricon­du­ci­bile all’ideologia neo­li­be­ri­sta sta­tu­ni­tense incar­nata dalla scuola di Chi­cago: i mono­poli non sono nocivi di per sé; alcuni pos­sono anche gio­care un ruolo posi­tivo. Mal­grado le sue pre­tese di inno­va­zione e sov­ver­ti­mento dell’ordine costi­tuito, il dibat­tito con­tem­po­ra­neo sulla tec­no­lo­gia rimane dun­que inca­na­lato in un alveo fami­liare: l’informazione, con­si­de­rata una merce, si inte­gra benis­simo nel para­digma liberista.

Per con­ce­pire l’informazione in altro modo occor­re­rebbe, per comin­ciare, sot­trarla alla sfera eco­no­mica. Magari con­si­de­ran­dola come bene comune, con­cetto caro a una certa sini­stra radi­cale. Ma sarebbe molto utile doman­darsi intanto per­ché si accetta come un dato di fatto la mer­ci­fi­ca­zione dell’informazione. La rispo­sta risiede nel ruolo che la fase sto­rica attuale asse­gna alla tec­no­lo­gia: un deus ex machina crea­tore di lavoro, che deve sti­mo­lare l’economia e col­mare i defi­cit di bilan­cio pro­vo­cati dall’evasione fiscale di ric­chi e mul­ti­na­zio­nali. In que­sto con­te­sto, non con­si­de­rare l’informazione come una merce equi­var­rebbe per i poli­tici a bucare il loro stesso salvagente.

 

Ritorno al XIX secolo

Anche i più acuti osser­va­tori della crisi finan­zia­ria sot­to­va­lu­tano il peso di que­sta fede nell’onnipotenza della tecnologia.

Così, il socio­logo tede­sco Wol­fgang Streeck spiega che all’inizio degli anni 1970, con la com­parsa dei primi segni di crollo del modello sociale nato dal com­pro­messo del dopo­guerra, i diri­genti occi­den­tali appli­ca­rono tre stra­te­gie per gua­da­gnare tempo e man­te­nere lo statu quo: l’inflazione, l’indebitamento degli Stati e, infine, un tacito inco­rag­gia­mento all’indebitamento dei cit­ta­dini, ai quali il set­tore pri­vati vende pre­stiti immo­bi­liari e cre­diti al con­sumo. Nell’elenco di que­sti stru­menti desti­nati a ritar­dare l’inevitabile, Streeck non indica le tec­no­lo­gie informatiche.

Que­ste ultime cree­reb­bero al tempo stesso ric­chezza e posti di lavoro a con­di­zione che tutti si tra­sfor­mino in impren­di­tori e impa­rino a pro­gram­mare per scri­vere delle appli­ca­zioni. Fra i primi, il governo bri­tan­nico ha con­cre­tiz­zato que­sto poten­ziale su scala nazio­nale ten­tando di ven­dere i dati dei malati alle com­pa­gnie di assi­cu­ra­zione (fin­ché un’ondata di pro­te­sta popo­lare non ha archi­viato l’iniziativa), o i dati per­so­nali di stu­denti a ope­ra­tori della tele­fo­nia mobili e a ven­di­tori di bevande ener­ge­ti­che. Un recente rap­porto, par­zial­mente finan­ziato da Voda­fone, sostiene che si potreb­bero creare 16,5 miliardi di ster­line (21 miliardi di euro) aiu­tando i con­su­ma­tori a gestire, cioè a ven­dere, i loro dati per­so­nali. Lo Stato si limi­te­rebbe a defi­nire un qua­dro legale per gli inter­me­diari pre­po­sti alle tran­sa­zioni tra con­su­ma­tori e for­ni­tori di servizi.

Men­tre gli Stati si sfor­zano di gua­da­gnare tempo dall’alto, le start-up della Sili­con Val­ley pro­pon­gono solu­zioni per gua­da­gnare tempo dal basso. Hanno una fede totale in ser­vizi come Uber (pri­vati che usano la pro­pria auto­mo­bile come taxi) e Airbnb (e i loro appar­ta­menti in hotel), in grado di tra­sfor­mare anti­quati beni ana­lo­gici in fonte di pro­fitti digi­tali e moderni.

Obiet­tivo: assi­cu­rare un red­dito com­ple­men­tare al loro pro­prie­ta­rio. Come spiega Brian Che­sky, pre­si­dente e diret­tore gene­rale di Airbnb, la disoc­cu­pa­zione e le disu­gua­glianze hanno rag­giunto i livelli più ele­vati, ma siamo seduti su una miniera d’oro (…). Abbiamo impa­rato a creare i nostri con­te­nuti, ma ormai pos­siamo tutti creare il nostro lavoro e, per­ché no, un nostro set­tore di atti­vità.

Fedele alle sue abi­tu­dini, la Sili­con Val­ley riprende qui la reto­rica comu­ni­ta­ria della con­tro­cul­tura per pre­sen­tare Uber e Airbnb come i pila­stri della nuova eco­no­mia della con­di­vi­sione, uto­pi­stico oriz­zonte, sognato dagli anar­chici quanto dai liber­ta­riani, nel quale gli indi­vi­dui trat­te­ranno diret­ta­mente gli uni con gli altri eli­mi­nando gli inter­me­diari. Più pro­sai­ca­mente, si tratta di sosti­tuire inter­me­diari ana­lo­gici, come le com­pa­gnie di taxi, con inter­me­diari digi­tali, come Uber, impresa finan­ziata dai noti anar­chici di Gold­man Sachs.

Poi­ché il set­tore alber­ghiero quanto quello dei taxi è uni­ver­sal­mente dete­stato, il dibat­tito pub­blico è rapi­da­mente sfo­ciato nell’immagine di audaci pre­cur­sori che spaz­zano via dei ren­tiers bolsi e privi di imma­gi­na­zione. Que­sta pre­sen­ta­zione così poco obiet­tiva maschera un fatto essen­ziale: i corag­giosi cam­pioni dell’economia della con­di­vi­sione si muo­vono in un uni­verso men­tale tipico del XIX secolo. Nel loro sistema il lavo­ra­tore, radi­cal­mente indi­vi­dua­liz­zato, gode di una pro­te­zione sociale solo sim­bo­lica; si assume rischi che in pre­ce­denza erano dei datori di lavoro; le sue pos­si­bi­lità di con­trat­ta­zione col­let­tiva sono ridotte a zero.

I difen­sori di que­sto nuovo modello giu­sti­fi­cano una simile pre­ca­rietà con argo­menti degni del teo­rico libe­ri­sta Frie­drich Hayek. I mec­ca­ni­smi auto­re­go­la­tori (è il mer­cato a decre­tare la qua­lità dell’autista o dell’ospite) sono più effi­caci delle leggi, dun­que tanto vale sba­raz­zarsi di que­ste ultime. Quando avremo costruito sistemi dav­vero in grado di auto-correggersi, assi­cura il noto inve­sti­tori in capi­tali di rischio Fred Wil­son, non avremo più biso­gno di mec­ca­ni­smi rego­la­tori.

A que­sto scopo basta satu­rare la società di mec­ca­ni­smi retroat­tivi, cioè valu­ta­zioni qua­li­ta­tive for­nite con­ti­nua­mente dagli attori del mer­cato: i pareri e i com­menti degli uti­liz­za­tori. La digi­ta­liz­za­zione della vita quo­ti­diana unita all’avidità pro­dotta dalla finan­zia­riz­za­zione fa pre­sa­gire la tra­sfor­ma­zione di tutto il genoma come la camera da letto in bene pro­dut­tivo. Esther Dyson, pio­niera della geno­mica per­so­na­liz­zata, azio­ni­sta prin­ci­pale della società 23andMe, para­gona la sua società a un distri­bu­tore auto­ma­tico che vi per­mette di acce­dere alle ric­chezze nasco­ste nei vostri geni.

Ecco dun­que il futuro che ci pro­mette la Sili­con Val­ley: un numero suf­fi­ciente di sen­sori col­le­gati a inter­net cam­bierà le nostre vite in distri­bu­tori auto­ma­tici giganti.

Pre­sto o tardi, i refrat­tari alla sal­vezza pro­spet­tata dall’economia della con­di­vi­sione saranno per­ce­piti come sabo­ta­tori dell’economia, e la non dif­fu­sione di dati sarà vista come uno spreco ingiu­sti­fi­ca­bile di risorse suscet­ti­bili di con­tri­buire alla cre­scita. Non con­di­vi­dere diven­terà bia­si­me­vole quanto non lavo­rare, rispar­miare, ripa­gare i pro­pri debiti; il giu­di­zio morale pas­serà la ver­nice della legit­ti­mità su que­sta forma di sfruttamento.

Non può affatto sor­pren­dere che cate­go­rie sociali schiac­ciate dal far­dello dell’austerità ini­zino a con­ver­tire la cucina di casa in risto­rante, l’automobile in taxi e i dati per­so­nali in attivi finan­ziari. Che altro pos­sono fare? Ma per la Sili­con Val­ley, stiamo assi­stendo al trionfo dello spi­rito d’impresa, gra­zie allo svi­luppo spon­ta­neo di una tec­no­lo­gia sepa­rata da ogni con­te­sto sto­rico, e soprat­tutto dalla crisi finan­zia­ria. In realtà, que­sto desi­de­rio d’impresa è gio­ioso quanto quello dei dispe­rati di tutto il mondo che, per pagarsi l’affitto, arri­vano a pro­sti­tuirsi o a ven­dere gli organi.

A volte gli Stati ten­tano di fre­nare que­ste derive, ma poi devono risa­nare i bilanci. E allora, tanto vale lasciare che Uber e Airbnb sfrut­tino la miniera d’oro come meglio cre­dono. Que­sto at­teg­gia­mento con­ci­liante ha il dop­pio van­tag­gio di aumen­tare le entrate fiscali e aiu­tare i comuni cit­ta­dini ad arri­vare alla fine del mese.

 

Una cri­tica ridotta a lamentela

Ma l’economia della con­di­vi­sione non sosti­tuirà quella del debito: al con­tra­rio, il loro destino è la coe­si­stenza. L’onnipresenza dei dati, unita alla cre­scente effi­ca­cia degli stru­menti di ana­lisi, per­met­terà alle ban­che di ven­dere cre­dito anche a una clien­tela rite­nuta fino a oggi insol­vi­bile ovvia­mente pre­via un’attenta scre­ma­tura digi­tale dei cat­tivi ele­menti. In que­sto modo, start-up come Zest-Finance stanno già aiu­tando le ban­che a fil­trare le richie­ste di pre­stiti on-line sulla base di 60.000 cri­teri, fra i quali il modo di pigiare i tasti del com­pu­ter o di usare il telefono.

In Colom­bia, la gio­vane società di pre­stiti Lenddo con­di­ziona l’emissione di carte di cre­dito al com­por­ta­mento dei can­di­dati sui social net­work: ognuno dei loro clic entra in una linea di conto. Un’evidenza che non sfugge a Dou­glas Mer­rill, cofon­da­tore di Zest­Fi­nance, che in home page­spiega a chiare let­tere: Tutti i dati per­so­nali sono per­ti­nenti in ter­mini di cre­dito. E allora, la nostra stessa vita, inte­gral­mente osser­vata dai sen­sori che ci cir­con­dano, può ini­ziare a bat­tere al ritmo del debito.

Gli idioti utili della Sili­con Val­ley rispon­de­ranno che stanno sal­vando il mondo. Se i poveri chie­dono di inde­bi­tarsi, per­ché non accon­ten­tarli? Gli spi­riti visio­nari non sono sfio­rati dal dub­bio che que­sto biso­gno di cre­dito possa dipen­dere dall’aumento della disoc­cu­pa­zione, dalla ridu­zione delle spese sociali e dal crollo dei salari reali. Né riflet­tono sul fatto che altre poli­ti­che eco­no­mi­che potreb­bero inver­tire que­ste ten­denze, e ren­dere inu­tili que­sti mera­vi­gliosi stru­menti digi­tali che con­sen­tono di ven­dere sem­pre più debito. Il loro unico com­pito e la loro unica fonte di red­dito è creare stru­menti per risol­vere i pro­blemi così come essi si pre­sen­tano giorno per giorno, non svi­lup­pare un’analisi poli­tica ed eco­no­mica suscet­ti­bile di rifor­mu­lare gli stessi pro­blemi per affron­tarne le cause.

In ciò la Sili­con Val­ley è simile a tutte le altre indu­strie: a meno che non pos­sano trarne pro­fitto, le imprese non vogliono un cam­bia­mento sociale radi­cale. Ma Goo­gle, Uber o Airbnb ­di­spon­gono di un reper­to­rio reto­rico molto più ampio rispetto a JP Mor­gan o Gold­man Sachs. Se ci viene voglia di cri­ti­care le ban­che, pas­siamo per avver­sari del capi­ta­li­smo e di Wall Street, con­trari al suo sal­va­tag­gio da parte dei con­tri­buenti: un punto di vista ormai così banale da far sbadigliare.

Invece, cri­ti­care la Sili­con Val­ley, signi­fica essere rite­nuti dei­ tec­no­fobi, stu­pi­doni nostal­gici dei bei tempi andati prima dell’iPhone. Allo stesso modo, qua­lun­que cri­tica poli­tica ed eco­no­mica for­mu­lata con­tro il set­tore delle tec­no­lo­gie infor­ma­ti­che e i suoi legami con l’ideologia neo­li­be­ri­sta è subito con­si­de­rata una cri­tica cul­tu­rale alla moder­nità. E il suo autore è dipinto come nemico del pro­gresso, desi­de­roso di rag­giun­gere Mar­tin Hei­deg­ger nella Fore­sta nera per guar­dare tri­ste­mente il cemento senz’anima delle dighe idroelettriche.

Da que­sto punto di vista, le con­ti­nue lamen­tele sul declino della cul­tura pro­dotto da Twit­ter e dai libri elet­tro­nici hanno gio­cato un ruolo nefa­sto. All’inizio del XX secolo, il filo­sofo Wal­ter Ben­ja­min e il socio­logo Sieg­fried Kra­cauer con­si­de­ra­vano i pro­blemi posti dai nuovi media attra­verso un pri­sma socioeconomico.

Oggi, biso­gna accon­ten­tarsi delle rifles­sioni di un Nicho­las Carr, osses­sio­nato dalle neu­ro­scienze, o di un Dou­glas Rush­koff, con la sua cri­tica bio-fisiologica dell’accelerazione. Indi­pen­den­te­mente dalla mag­giore o minore per­ti­nenza dei loro con­tri­buti, la loro moda­lità di ana­lisi fini­sce per sepa­rare la tec­no­lo­gia dall’economia. E così ci si ritrova a discu­tere di come uno schermo di iPad con­di­zioni i pro­cessi cogni­tivi del cer­vello, invece di com­pren­dere come i dati rac­colti dagli iPad influen­zino le misure di auste­rità dei governi.

Tra­du­zione di Mari­nella Correggia

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