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La meritocrazia è il contrario della democrazia

di Carlo Scognamiglio

Così il sociologo laburista Michael Young smontò una delle parole chiave di tutte le svolte autoritarie. “L’avvento della meritocrazia” è di nuovo in libreria. Popoff l’ha letto

can-stock-photo csp6978574Se dovessi segnalare l’operazione editoriale più lucida dell’ormai trascorso 2014, non potrei che attribuire il giusto merito alle Edizioni di Comunità, per la ripubblicazione, dopo molti anni, dello straordinario libro del sociologo laburista Michael Young (1915-2002): L’avvento della meritocrazia. Ascrivibile al filone letterario della “distopia”, cioè dell’utopia negativa, il libro fanta-sociologico pubblicato da Young nel 1958 introduceva nel dibattito culturale il termine “meritocrazia”, colorandolo a tinte fosche e inquietanti, a tutto dispetto della faciloneria con cui viene oggi adoperato.

Su un piano propagandistico, la politica dei palazzi non rinuncia mai a far propria la bandiera di un riscatto dei meritevoli da collocare nelle posizioni sociali commisurate alle capacità di ciascuno. E la propaganda funziona particolarmente bene, in uno Stato come il nostro dove familismi e nepotismi d’ogni genie hanno reso insopportabile qualsiasi competizione pubblica o privata per aggrapparsi a un chimerico ascensore sociale.

Su un piano personale, invece, non manca mai sulla bocca di ciascun “deluso” – sia esso escluso da un concorso accademico, da una promozione ospedaliera, o bellamente ignorato da un potenziale datore di lavoro – la lagnanza sull’assenza di meritocrazia in questo nostro benedetto Paese. Ebbene sì: perché tutti coloro che lamentano quella deficienza, presumono naturalmente di appartenere all’area dei meritevoli.

Ma non si tratta di fare le pulci al termine, per capire se il “governo dei più capaci” sia realmente un’espressione positiva o negativa, seguendo l’idea di chi l’ha coniata. Andiamo alla sostanza del problema, e cerchiamo di capire se una società ispirata ai principi meritocratici sarebbe più o meno egualitaria di una società familista o nepotista. Il libro di Young, da questo punto di vista, è una miniera d’oro.

L’io narrante è un sociologo del futuro, e che scrive nell’anno 2033, producendosi in una ricostruzione storica delle trasformazioni sociali avvenute nella società inglese a partire dalla fine del diciannovesimo secolo. Lo Stato in cui vive è retto da un sistema di potere meritocratico. In altri termini, nel corso dei decenni si è affermato il principio in base al quale non ha senso (produttivo) collocare soggetti poco intelligenti o poco capaci in posizioni verticistiche o di comando, né imbattersi in autentiche genialità tra coloro che si occupano di pulizie stradali o consegna della posta. Una società meritocratica pone ognuno al proprio posto, secondo le proprie capacità e secondo i propri mezzi. Il punto di svolta di questa intuizione sociologica è collocato dal narratore in una presunta scoperta genetista capace di individuare le potenzialità di sviluppo – in termini di QI – fin dalla più tenera infanzia. Automaticamente il ministero chiave della nuova società meritocratica, cioè quello dedicato all’istruzione, è investito della straordinaria responsabilità della differenziazione precoce dei percorsi formativi, di modo da introdurre fin dall’inizio dell’esistenza di ciascuno un meccanismo di mobilità sociale e trasferire le buone menti, anche se di modeste origini, nelle posizioni chiave del comando e della programmazione.

Questa apparente democratizzazione delle opportunità si ribalta nel proprio opposto quando alcuni scienziati riescono a generare delle diagnosi sul futuro della prole prima ancora che questa sia generata, attraverso lo studio delle coppie dei potenziali genitori. Si affaccia dunque il pericolo di scelte eugenetiche. In buona sostanza Young disegna un quadro in cui si viene a determinare un nuova aristocrazia ereditaria, perché gli “intelligenti”, accoppiandosi tra loro, generano nuovi prodigi. I “tecnici” (così vengono definiti i lavoratori manuali per edulcorarne la destinazione), mettono invece alla luce prevalentemente dei nuovi sudditi. Il paradosso disegnato da Young è provocatorio ma intuitivo. La meritocrazia non è democratica, ma potenzialmente antidemocratica. Vediamo di capire meglio.

Sono molti i passaggi che danno da pensare. Uno tra i tanti concerne il processo – immaginato come svoltosi lungo l’intero arco del Novecento – in cui i “meritocratici” avrebbero dovuto persuadere i “tecnici” della bontà di quella divisione sociale. Scrive Young: “le scuole avevano una funzione assai più importante di quella di fornire agli allievi alcune abilità elementari; dovevano anche inculcare un atteggiamento mentale che li disponesse ad assolvere efficacemente i loro compiti nella vita. Le classi inferiori avevano bisogno di un mito, ed ebbero quello che gli occorreva: il Mito del Muscolo” (p. 126). Le pagine dedicate alla descrizione di questo Mito sono esilaranti, e richiamano la vocazione contemporanea dei mass media nell’esaltare tutta una serie di doti (seduttività, prestanza fisica, capacità di ballare, cantare o di giocare a football) che nulla hanno a che fare con gli strumenti concreti di un’ascesa verso le posizioni di comando. Quando racconta dei “tecnici”, Young conclude provocatoriamente: “essi apprezzano le imprese fisiche quasi come noi delle classi superiori apprezziamo quelle mentali” (id.). L’io narrante è uno scienziato del futuro appartenente alla classe dei meritevoli, che quando descrive le classi inferiori e la loro “stupidità” rimprovera agli altri sociologi di commettere un errore analogo all’antropomorfismo, pensando che i “tecnici” siano simili a chi li studia. Essi sono solo oggetti, mai soggetti di ricerca. Si riconoscono agli stupidi altre qualità, come l’amore per la famiglia, la dedizione al lavoro, una certa coscienziosità, ma al tempo stesso se ne segnala la scarsa ambizione o l’ingenuità. Studi scientifici avrebbero poi provato che un lavoratore con scarso QI soffrirebbe a essere impiegato in mansioni superiori alle proprie capacità, mentre invece avrebbe potuto trarre grandi soddisfazioni da incarichi molto semplici. Ne sarebbe derivata l’idea di impiegare gran parte delle persone semplici come personale di servizio nelle case di quelli intelligenti.

E quante volte è capitato a chiunque si senta anche un pochino meritevole di un posto migliore, di ritrovarsi a pensare: “ma guarda tu se uno come me deve perder tempo a lavare pavimenti, stirare o spolverare”. E questo pensiero, che conosciamo bene come parte delle esperienze cognitive nostre o dei nostri cari, Young lo fa diventare legge dello Stato: “non c’era alcuna ragione perché il grosso delle fatiche domestiche dovesse ricadere sulle spalle degli intelligenti. Era molto meglio lasciarle alle persone che, essendo incapaci di fare cose più alte, non le avrebbero affatto considerate una fatica monotona” (p. 141). Questo passaggio, che potrebbe apparire secondario, mi pare invece il punto di svolta per capire il significato più profondo del libro.

La funzione storica del socialismo è reinterpretata in questo quadro come momento funzionale e decisivo all’abbattimento del familismo e del nepotismo, aprendo così la strada al nuovo sistema. L’idea delle uguali opportunità fu l’ideologia che consentì l’ipotizzabilità del sistema meritocratico. Il problema del socialismo – secondo l’io narrante, esprimente la prospettiva elitista – consisteva nell’incapacità di far fronte alle aspettative e ambizioni suscitate in tutti, anche nei meno capaci, provocandone le frustrazioni

Ma andiamo avanti. Le pagine più interessanti del libro sono collocate nella parte finale, quando Young immagina che un gruppo di vecchi ed esasperati socialisti, nel 2009, elabori un Manifesto per attaccare alle fondamenta il sistema meritocratico: il problema viene individuato nel ribaltamento dei valori. La meritocrazia viene giustamente criticata per una visione angusta dei valori, per il suo restringere a una mera logica di funzionalità produttiva non solo l’attività economica privata, ma anche la gestione dello Stato.

È questo l’errore logico della meritocrazia, che la rende profondamente antidemocratica. In un’azienda privata è del tutto ovvio badare alla massimizzazione di profitti, la riduzione degli sprechi e il miglioramento del prodotto. Nei rapporti sociali le cose vanno diversamente. I governi non sono dei consigli d’amministrazione e i rappresentanti eletti non devono essere necessariamente i più intelligenti o più colti. Tanto varrebbe allora far governare la Conferenza dei Rettori Universitari. In una democrazia rappresentativa, le funzioni di governo devono essere demandate a una logica politica, cioè di trasposizione di interessi, valori e volontà. E questo mandato politico deve poter prescindere da titoli di studio o competenze specialistiche.

Non esiste soltanto la produttività, e non conta solo l’efficienza tecnologica, vi sono altri valori a cui dare spazio, come la bontà, il coraggio, la fantasia, la sensibilità, la generosità. Secondo quell’immaginario Manifesto: “chi si sentirebbe più di sostenere che lo scienziato è superiore al facchino che ha ammirevoli qualità di padre, che il funzionario statale straordinariamente capace a guadagnar premi è superiore al camionista straordinariamente capace a far crescere rose?” (p. 194).

Le pagine dedicate alla scuola sono le più pregnanti. Nella società meritocratica si costituiscono due percorsi distinti: le scuole classiche (a indirizzo prevalentemente scientifico) per coloro i quali posseggono un elevato QI, e una seconda opzione, concentrata sui lavori manuali, per tutti gli altri. Nel Manifesto del 2009, si propone l’opposto: “Le scuole non debbono esser vincolate alla struttura occupazionale, non debbono limitarsi a fornire individui idonei a svolgere le mansioni considerate importanti in un particolare momento, ma debbono dedicarsi a incoraggiare lo sviluppo di tutte le qualità umane, siano o non siano queste del tipo richiesto da un mondo scientifico” (p. 195). L’attualità di questo libro diventa trasparente proprio leggendo osservazioni come questa.

Il finale riserva una sorpresa, per cui non lo svelo, ma almeno ci lascia una speranza per il nostro domani.

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