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comedonchisciotte

Guerre, paure, umiliazioni, stato di polizia

I primi amari frutti dell'Unità Nazionale post Charlie Hebdo

di Saïd Bouamama

«Alla fine, non ricorderemo le parole dei nostri nemici, ma i silenzi dei nostri amici»
Martin Luther King

l43-francia-velo-islam-120329220419 mediumLa grande manifestazione «Je suis Charlie» è stata celebrata dall’insieme dei nostri media, dal governo e dalla quasi totalità della classe politica come simbolo dell’«unità nazionale», vista come strumento necessario di fronte alla minaccia terroristica. È stata altresì presentata come l’esempio di un’unità internazionale contro quello stesso terrorismo.

Le poche voci discordanti che hanno chiesto di far luce sulle cause, sulle poste in gioco e sulle conseguenze prevedibili di quest’obbligazione all’unanimità emotiva, sono state bollate come «sostegno ai terroristi», secondo un ragionamento binario che martella tutto il giorno: se non «sei Charlie», vuol dire che sei per gli attentati. Il seme di questa «unità nazionale» comincia a dare i suoi frutti amari e avvelenati. È giunto il tempo di un primo bilancio.

 

Una rafforzata legittimazione alle guerre

Tutte le potenze della NATO, così come i loro alleati, erano rappresentate alla manifestazione «Je Suis Charlie» dell’11 gennaio 2015. Capire il significato e la funzione di questa foto di famiglia vuol dire prendere in considerazione il contesto mondiale e i suoi rapporti di forza.

Le guerre imperialiste per il petrolio, per i minerali strategici e l’indebolimento delle potenze emergenti si moltiplicano ormai da diversi decenni. Guerre di rapina, il cui unico scopo è il superprofitto, queste avventure militari non possono essere presentate per quel che sono veramente. Per svilupparsi completamente, senza resistenze, hanno bisogno di essere infiorettate come «guerre giuste»: contro l’oscurantismo e il terrorismo, per l’emancipazione delle donne, per la difesa d’una minoranza oppressa, contro il genocidio, ecc… L’islamofobia è uno degli ingredienti ideologici diffusi almeno dagli attentati dell’11 settembre 2001, per preparare un «immediato profumo ideologico» (1) favorevole alla guerra.

La negrofobia (2)  è un altro ingrediente corrispondente alle nuove scoperte di giacimenti di petrolio, gas, e minerali che negli ultimi anni si sono moltiplicate in Africa, aggiungendosi ai giacimenti già noti del continente e soprannominati lo «scandalo geologico» (3).

La Francia è particolarmente impegnata in tutte le aggressioni imperialiste di questi ultimi anni. Dall’Afghanistan alla Siria, passando per l’Iraq, il Mali nel Centrafrica e la Libia, l’esercito francese sembra non volersi perdere nessuna guerra di aggressione. La pressione ideologica dell’islamofobia e della negrofobia è tanto più forte quanto è importante e necessaria la legittimazione degli interventi militari nei Paesi africani e/o «mussulmani».

É lo stesso sito della Direction de l’information légale et administrative a dare i seguenti dati statistici :

“Negli ultimi cinquanta anni, la Francia è intervenuta militarmente per circa quaranta volte sul suolo africano, di cui una ventina di volte fra 1981 e 1995, sotto i due settennati di François Mitterrand. Alcune di queste operazioni hanno avuto una durata di qualche giorno, altre hanno avuto sviluppi molto più lunghi (ad esempio le operazioni Manta e Sparviero, nel Ciad)” (4).

A queste cifre, che riguardano esclusivamente l’Africa, bisogna aggiungere il Libano (1983), l’Iraq (1990), la Bosnia (1992), il Kosovo (1999), l’Afghanistan (2001), la Siria (2014), ecc… Gli interventi militari francesi all’estero si inseriscono all’interno di una strategia globale della NATO. Questa strategia è definita in un documento intitolato «Concetto strategico». L’ultima versione di questo concetto, nel 2010, comprendeva la capacità di intervenire su più zone contemporaneamente; l’inclusione dell’Europa orientale nelle zone sotto sorveglianza; la possibilità di una guerra nucleare «limitata»; e la condivisione dell’«onere strategico»: “è lo spirito stesso del nuovo concetto strategico della NATO, quello di obbligare in una certa misura gli europei a definire la natura e l’ampiezza degli impegni che sono pronti a prendere all’interno dell’alleanza”. (5)

La moltiplicazione degli interventi militari, europei in generale e francesi in particolare, si inserisce all’interno della nuova strategia della NATO.

Ma la fase storica che stiamo vivendo a livello mondiale è anche quella degli ostacoli frapposti all’acquisizione del controllo mondiale da parte statunitense. Tali ostacoli sono certamente di natura differente, ma convergono insieme a mettere in difficoltà il «Nuovo Ordine Mondiale» che l’«Occidente» cerca di imporre al resto del mondo, compresi i suoi stessi popoli. Dappertutto spadroneggiano aggressioni militari e spinte alla guerra o alle sanzioni economiche. In America del Sud l’ALBA sperimenta nuove solidarietà e coesioni regionali, capaci di spezzare la morsa del sistema capitalista mondiale. Russia e Cina frenano con la loro posizione all’ONU i tentativi di ricoprire le aggressioni militari sotto il mantello della legittimità internazionale. Le guerre aperte lasciano trapelare sempre di più il loro unico risultato: il caos.

In tale contesto, la strumentalizzazione delle emozioni attraverso la retorica dell’«unità nazionale» in politica interna e della «guerra mondiale contro il terrorismo» in politica estera hanno un doppio obiettivo: da un lato annunciare nuove guerre imperialiste e dall’altro legittimarle agli occhi della gente, e in particolare del popolo francese. Si tratta di rimettere in moto e sgombrare il campo, dargli legittimazione popolare, e riunirlo in vista di nuove guerre.

È così che, con 488 voti favorevoli e 1 contrario, il 13 gennaio l’Assemblea Nazionale ha approvato la proroga dei raid aerei francesi in Iraq. Stessa musica al Senato, con 327 voti favorevoli e 19 astenuti lo stesso giorno. Il primo amaro frutto dell’unità nazionale è la guerra. Ieri come oggi, nel 1914 come nel 2015, la Sacra Unione ha sempre lo stesso sapore di guerra.

 

Riabilitare gli alleati assassini

Ma la grande strumentalizzazione dell’emozione è stata altresì l’occasione per rinforzare i legami con gli «amici dell’Occidente» e per riabilitare coloro che a causa dei loro crimini avevano perso credito agli occhi dell’opinione pubblica. Citiamo i due esempi che contraddicono la retorica di una mobilitazione per la libertà di espressione e contro il terrorismo.

Lo Stato di Israele era rappresentato da tre ministri: il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il ministro degli esteri Avigdor Lieberman, e il ministro dell’economia Naftali Bennett. Dopo i massacri dei palestinesi da parte del terrorismo di Stato, quest’estate, la loro presenza suona come una provocazione per le decine di migliaia di manifestanti francesi che quasi quotidianamente avevano dato il loro sostegno al popolo palestinese. “La presenza di questi ministri, riassume il giornalista Alain Gresh, è un insulto a tutti i valori dei quali pretendono di pregiarsi gli organizzatori della manifestazione, un hold-up che bisogna assolutamente denunciare”. (6)

Bisogna forse ricordare che 17 giornalisti sono stati uccisi quest’estate nel corso dei bombardamenti sionisti sulla striscia di Gaza? Ricordiamo anche l’espulsione da Israele del giornalista francese Maximilien Le Roy, che si era recato a un festival di fumetti, a causa delle sue vignette giudicate pro-palestinesi:

“mi hanno spiegato, per concludere, che se potevo criticare Israele nel mio paese, non avrei più avuto il diritto di farlo sul loro territorio. Sapevo fin dal primo minuto che mi avrebbero espulso, ma non mi aspettavo un’interdizione di soggiorno di dieci anni. Mi hanno trattato come se fossi un terrorista”. (7)

Anche la «democratica» Arabia Saudita «era Charlie» l’11 gennaio scorso, con la presenza alla manifestazione del suo ministro degli esteri Nizar al-Madani. Due giorni prima, il blogger saudita Raïf Badawi riceveva le sue prime 50 frustate. È stato condannato a 10 anni di prigione e 1000 colpi di frusta (50 ogni venerdì) per aver criticato i dignitari religiosi del regno. Gli alleati del Nuovo Ordine Mondiale sono troppo importanti per la sua stessa preservazione. Possono pure continuare a farsi impunemente un baffo della libertà d’espressione, e possono anche continuare a finanziare gruppi che destabilizzano gli Stati vicini, coprendo le loro aggressioni sotto il nome dell’Islam.

Questi due esempi sono sufficienti per smascherare l’ipocrisia in merito alla libertà di espressione. La si difende solo quando serve agli interessi di chi domina, ed è presto dimenticata quanto li rimette in discussione.

La riabilitazione degli assassini e dei finanziatori di morte è il secondo frutto avvelenato della Sacra Unione che la strumentalizzazione statale dell’emozione ha cercato di costruire

 

La paura

Vediamo ora quali sono gli effetti dell’«Unità nazionale» sul territorio francese. Il primo è evidente: l’instaurazione di un clima di paura gravido di ogni pericolo. La copertura mediatica fatta sotto forma di una “informazione emozionale, superficiale e non verificata” fondata sul "principio di un 'amnesia recidiva"(8) pone le basi per un clima ansiogeno.

La pregnanza del vocabolario bellico (dal “Si, siamo in guerra”  (9) di Valls al “la guerra è stata dichiarata alla Francia” di Sarkozy)  (10) nelle prese di posizione politiche ribadite da giornalisti, esperti e cronisti di ogni risma, non fa che rinforzare il clima.

Il dispiegamento di 10.000 soldati, fatto con grande eco mediatica, contribuisce a radicare l’idea di un pericolo costante e onnipresente. La tesi dell’assenza di un confine tra fronte esterno delle operazioni e fronte interno, portata avanti dal ministro della difesa, esalta il sovraccarico di lessico bellico, latore di una paura sociale generalizzata.

“É un’autentica operazione interna. Ci sono operazioni esterne che continuano, ed è un’operazione interna che mette in campo 10.000 uomini, quasi quelli che attualmente sono in servizio per le nostre operazioni estere” (11).

Ecco cosa produce una retorica di guerra che i nostri politici non hanno esitato a usare, anche pesantemente:

“uno stato di guerra scatena una retorica semplificatoria amico-nemico (nemico esterno e nemico interno), la minaccia genera paura, la paura odio, e l’odio spinge alle azioni preventive. Le solidarietà diminuiscono: unione ed esclusione” (12).

Non è dunque una sorpresa il fatto che la retorica bellica sfoci logicamente sulla moltiplicazione di azioni islamofobe, che nel giro di pochi giorni si sono contate a decine. “Qualcosa come 116 atti anti-mussulmani sono stati registrati negli ultimi quindici giorni” (13), secondo la stima fatta da «Libération». La cifra reale è beninteso molto più alta. Molti atti infatti non vengono segnalati nell’attuale contesto soffocante. Non bisogna stupirsi quindi che un clima di paura si sia impadronito delle popolazioni venute su dall’immigrazione postcoloniale. Non si tratta di una paura irrazionale, ma si spiega con lo stillicidio di piccoli atti di aggressività subiti nel quotidiano, che si sommano alle aperte aggressioni recensite in questi giorni: propositi razzisti, silenzi e atmosfere tese sui mezzi pubblici, ecc…

Le donne che indossano un foulard sono ancor più toccate da questa paura strisciante. Il 15 gennaio abbiamo avuto una giornata di lavoro con un gruppo di donne maghrebine e nere di Blancs Mesnil e abbiamo così avuto modo di ascoltare l’allarmante numero di aggressioni verbali e comportamenti di rifiuto che queste trenta donne ci raccontavano. Se è vero che le reazioni sono diverse, un gran numero di esse sono fin d’ora dense di conseguenze: “non esco più di casa, se non per fare la spesa”, “per la prima volta penso di togliermi il velo, ho paura”, “non lascio più uscire mia figlia, ho paura per lei”, ecc…

All’origine di questo aumento di atti islamofobi, e della paura che suscitano, si trovano un certo numero di tematiche ricorrenti fra i media e i discorsi politici. In una Francia che conosce già almeno da due decenni il regolare crescere dell’islamofobia, è da irresponsabili moltiplicare questi discorsi: discorsi sull’Islam e sul suo «legame o non legame con il terrorismo»; sulla «minor presenza di alcuni alla manifestazione di Je Suis Charlie»; sul «sedicente silenzio di alcune popolazioni rispetto agli attentati»; ecc…

Il grosso aumento delle violenze islamofobe dirette o indirette è il terzo frutto marcio della strumentalizzazione politica e mediatica dell’emozione.

 

L’umiliazione

Questa paura si accompagna spesso ad un sentimento di umiliazione, vale a dire con “la percezione di uno scarto fra il posto rivendicato in nome dell’uguaglianza e il posto verso il quale si viene ricacciati in basso” (14). L’umiliazione come abbassamento dell’essere umano, colpendone la sua dignità, è denso di conseguenze. La parola araba «Hoggra» viene quotidianamente usata nelle conversazioni familiari e fra amici. L’abbiamo sentita frequentemente nelle riunioni che abbiamo fatto questa settimana con diversi collettivi nei quartieri popolari. Ecco la definizione che ne demmo già nel 2000 per restituire il vissuto di numerosi giovani delle classi popolari:

“questo vocabolo usato dai giovani esprime un mix di negazione della realtà vissuta, di sensazione d’essere sdegnati e volontariamente diminuiti e di una discriminazione vissuta come un fatto permanente” (15).

Stiamo esagerando?

Umiliazione quando si pensa di togliersi il velo solo per la paura suscitata dal rapido moltiplicarsi di atti islamofobi?

Umiliazione quando si riceve un’ingiunzione permanente a «dissociarsi dagli attentati»?

Umiliazione quando uno studente si fa escludere dalla classe perché «non vuole essere Charlie»?

Umiliazione quando ci si rifiuta persino di ascoltare le ragioni avanzate da quello studente per giustificare le sue opinioni?

Umiliazione quando ci si fa strappare il proprio velo per strada, davanti a passanti indifferenti?

Certo, alcuni potranno subito gridare alla vittimizzazione. Ovviamente alcuni «esperti» potranno dibattere a lungo per presentare queste umiliazioni come innocue e marginali. All’occhio di altri cronisti sembreranno il segno di una paranoia ingiustificata. Resta però il fatto che quando un sentimento soggettivo è così tanto condiviso, merita come minimo di essere analizzato criticamente, vale a dire l’esatto opposto di quello che propone il nostro ministro dell’educazione nazionale. Costei considera «insopportabili» le reazioni di una parte degli studenti all’ingiunzione statale a commuoversi:

“anche laddove non ci sono stati incidenti, ci sono stati troppi distinguo da parte degli studenti. Abbiamo sentito i vari «Si, sostengo Charlie, ma…»; i «due pesi, due misure»; i «perché difendere la libertà d’espressione qui e non là?». Questi rilievi ci sono insopportabili, soprattutto quando li sentiamo pronunciare a scuola, che ha l’onere di trasmettere certi valori” (16).

E noi che pensavamo che la scuola insegnasse ai nostri figli il contraddittorio, il pensiero critico, l’argomentazione e il libero arbitrio! No, la risposta si orienta invece verso la repressione anziché verso l’obiezione; verso il silenzio imposto anziché verso la dialettica; verso l’esclusione anziché verso il dibattito contraddittorio. Dando voce esplicita al sottinteso di questa logica repressiva, la giornalista Nathalie Saint-Cricq dichiara su France 2: “bisogna contenere e isolare quelli che non sono Charlie” (17).

Dunque a cosa portano la paura, l’umiliazione e il divieto di parlare? Prima di tutto alla violenza contro se stessi, e in seguito – presto o tardi – all’esternalizzazione di questa violenza. Tutti i silenzi che si fanno si queste stigmatizzazioni del comportamento degli studenti rinforzano i sentimenti di isolamento e ingiustizia, sui quali possono far presa condotte nichiliste che vanno dalla distruzione di se stessi e di chi ci sta vicino fino alle rivolte collettive dei quartieri, passando attraverso un’infima minoranza di chi penderà verso gli attentati.

Porre le condizioni per una crescita dei comportamenti nichilisti, questo è un altro frutto pericoloso dell’attuale contesto.

 

Una repressione «isterizzata»

Prendiamo a prestito il vocabolo «isterizzato» dal sindacato dei magistrati che ha fatto un bilancio delle ultime due settimane:

“da alcuni giorni si accavallano le procedure per direttissima, nelle quali si è preso in esame e giudicato il contesto, appena appena le circostanze dei fatti, e molto poco l’uomo indagato per aver commesso apologia di terrorismo. Non per aver organizzato una manifestazione di sostegno agli artefici dell’attentato, per aver elaborato e diffuso a grande scala una solida argomentazione, o per aver preso parte a qualche rete sospetta, ma per chiacchiere, fatte sotto la spinta dell’ubriachezza o del trasporto: di fatto forme tristemente attualizzate dell’oltraggio. Piovono le pesanti condanne, associate alle incarcerazioni preventive. Questa è la disastrosa giustizia prodotta dal ricorso all’istituto dell’udienza immediata, di cui la legge del 13 novembre 2014 ne ha fatto un’arma contro il terrorismo. Come se la giustizia penale, divenuta la piaga della condanna morale, potesse fare a meno del discernimento, più che mai necessario in questi tempi travagliati. Come se alcuni degli attori avessero brutalmente dimenticato che la giustizia penale deve essere amministrata con ponderazione, sulla base di inchieste approfondite, e guardandosi bene dal far di tutt’erba un fascio – che invece è ben presente in quella circolare che accomuna le violenze urbane all’apologia di terrorismo – e, soprattutto, guardandosi bene dalle reazioni isterizzate che la delegittimano  e che portano tutta la società a delegittimarla” (18).

Le cifre ufficiali della cancelleria, comunicate il 20 gennaio, ci danno le seguenti informazioni: 251 procedure dal 7 gennaio, delle quali 117 per «apologia di terrorismo»; 77 giudizi per udienza immediata; 39 condanne, delle quali 28 alla prigione; 22 altre convocazioni davanti al tribunale correzionale (19).

Il sindacato della magistratura ha buoni motivi per parlare di una deriva della «giustizia d’emergenza». Abituarci, acclimatarci, renderci usuali ad una diminuzione delle libertà democratiche, con il pretesto di assicurare la nostra libertà: questo è l’unico possibile risultato di simili pratiche.

Già ci vengono annunciate nuove leggi, fatte in nome della nostra sicurezza, quando una legge definita come «lotta contro il terrorismo» era già stata adottata l’autunno scorso. Dal 1986 sono ormai state votate 14 leggi finalizzate a proteggerci. Ci torneremo sopra, ma possiamo fin d’ora gustare un altro amaro frutto dell’Unità nazionale: la creazione di condizioni per un consenso maggioritario alla rimessa in discussione delle libertà democratiche.

Non sono certo la guerra imperialista, la paura, l’umiliazione, la repressione «isterizzata» e la rimessa in discussione dei diritti democratici che faranno venir meno il terrorismo.

Le misure annunciate dal governo non aggrediscono nessuna delle cause strutturali dell’emergere di posture nichiliste nella nostra società: le massicce inuguaglianze sociali; le sistematiche discriminazioni razziali; l’islamofobia umiliante; i controlli di polizia fatti in base al colore della pelle; le guerre per il petrolio e i minerali strategici. E ciò nonostante, non c’è alcuna soluzione credibile al di fuori dell’aggredire le vere cause, perché senza giustizia non potrà mai esserci pace.

 

Fonte: https://bouamamas.wordpress.com
Link: https://bouamamas.wordpress.com/2015/01/22/les-premiers-fruits-amers-de-lunite-nationale-guerres-peurs-humiliation-mises-sous-surveillance/
22.01.2015
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MARTINO LAURENTI
NOTE
  1. Sous la forme d’une présentation essentialiste des cultures africaines comme marquées par la non historicité, le tribalisme, l’ethinicisme et une « culture de la violence ».
  2. Hubert Deschamps, L’héritage de Léopold, dans Jean Ganiage et Hubert Deschamps, L’Afrique au XXe siècle, Syrey, Paris, 1966, p. 453.
  3. http://www.vie-publique.fr/chronolo…, consulté le 18/01/2015 à 18 h 40.
  4. Zaki Laïdi, Le Monde selon Obama, Stock, Paris, 2010.
  5. Alain Gresh, D’étranges défenseurs de la liberté de la presse à la manifestation pour « Charlie Hebdo », Les blogs du diplo, http://blog.mondediplo.net/2015-01-…, consulté le 18/01/2015 à 20 h 48.
  6. Maximilien Le Roy, dessinateur, interdit de séjour en Israël, Interview de Lucie Servin, l’Humanité du 28 octobre 2014.
  7. Jean François Tétu, Les médias et le temps, figures, techniques, mémoires, énonciation, in les Cahiers du journalisme, n° 7, juin 2000, p. 84.
  8. Manuel Valls à l’assemblée nationale le 13 janvier 2015.
  9. Le Figaro du 9 janvier 2015
  10. Défense Jean-Yves Le Drian, déclaration du 12 janvier 2015.
  11. Yves Ternon, Guerres et génocides au XXe siècle, Odile Jacob, Paris, 2007, p. 315.
  12. Libération du 19 janvier 2015.
  13. Dominique Vidal, Sentiment, moralité et relation d’enquête. Un regard sur les femmes domestiques, in Vincent Caradec et Danilo Martuccelli (dir.), Matériaux pour une sociologie de l’individu : perspectives et débats, Septentrion, Lille, 2004, p. 216.
  14. Said Bouamama, Le sentiment de « Hoggra » : discrimination, négation du sujet et violence, in Les classes et quartiers populaires, Editions du Cygne, Paris, 2009, p. 51.
  15. Najat Vallaud Belkacem, le 14 janvier 2015, cité dans Médiapart du 20 janvier.
  16. https://www.youtube.com/watch?v=qc0…, consulté le 21 janvier à 22 h.
  17. Communiqué du Syndicat de la magistrature du 20 janvier 2015, http://www.syndicat-magistrature.or…, consulté le 21 janvier à 23h 20.
  18. Communiqué de l’AFP.

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