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Note sul dopo Charlie

di Marco Assennato

sito charlia 880x5801. Sottomissione. Si direbbe: il mercato editoriale funziona come un orologio: batte il tempo e sforna preciso – lievemente sbilanciato indietro a dire il vero, come a giocare d’anticipo – prodotti adatti ad accarezzare l’ansia, ingoiarne l’inquietudine, confermando tutti i bassi istinti, e le nevrosi del giorno. Così la storia ignobile degli attentati fascisti contro il settimanale Charlie Hebdo è stata preceduta dalla mercanzia editoriale dell’anno: un volume che immagina – certo in un orizzonte cinico e nichilista, di chi coltiva la passione di non aver passione politica – la Francia governata da funzionari religiosi, in una Europa che inverte miracolosamente il corso della sua pluricentenaria secolarizzazione, precipitando in una seconda, più subdola barbarie. E giù a leccarsi i baffi nel dichiararne il bello e il brutto, senza privarsi del piacere di scandalizzare gli animi sensibili, proclamando l’uomo, uno dei più grandi autori del nostro tempo – che in fondo non c’importa nulla di cosa egli pensi, né del fatto che non abbia capito un fico secco della cultura “del ’68″, e neppure si tratta di stare lì a misurare l’improbabile della sua narrazione, le ombelicali contorsioni d’una autobiografia senza corpo di mamma, il piccolo mondo mostruoso fatto di forme di vita putrefatte e in fondo innocue.

Anzi: al contrario proprio ciò c’importa, la meraviglia d’una psiche disfatta, perché ci permette di vedere dentro le testoline di coloro che decidono come è fatto il mondo. Non ha capito nulla dei movimenti né della storia sociale del nostro tempo, l’autore, però pensa come loro. Solo non è ipocrita, scrive ciò che loro non hanno il coraggio di dire, interpreta magistralmente i tratti della depressione politica contemporanea: è una finestra quel libro, che ci permette di “capire un mondo”. Quale mondo? Quello del potere. Anzi meglio de “Il Potere” con articolo e maiuscola. Ognuno ci ficchi poi dentro quello che gli pare, l’effige che più detesta, il fantasmino che non fa dormire la notte, o la plastica iconica che più desidera. Il potere, le istituzioni, il sistema in divisa o in doppiopetto, araldico o repubblicano, bianco o multiculturale, insomma ci siamo capiti no?

Ed infatti a leggerlo, dopo quanto accaduto a Parigi, quel libro ci aiuta a trovare il coraggio, la forza, la lucidità di sibilare della “marcia dell’ipocrisia”, ci aiuta a vedere ciò che conta nella piazza parigina che ha seguito le stragi: la prima fila, loro, il potere, giusto davanti a quella nebulosa indifferente, sfondo televisivo tanto riprodotto quanto ininteressante. Sì, decisamente, alla letteratura si possono chiedere molte cose, tra queste si può chiedere che aiuti a capire il mondo, secondo la sua ragione, decostruendo e rimontando ordini del discorso. E questo libro lo fa e domina il dibattito e il pensiero. Anche il dibattito e il pensiero critico, nell’enorme mole di discussioni e prese di posizione che hanno prevalso nei siti e sui quotidiani tanto italiani quanto francesi, nel dopo-Charlie. Il dibattito nato da Sottomissione produce un bel sistema binario, con i suoi articoli determinativi e le sue maiuscole. Un bel mondo diviso in due: perché sia chiaro c’è il potere, la sua follia, e c’è “tutto ciò che potere non è” come insegnava quel vecchio filosofo che inventò l’autonomia del politico.

Ci sono loro e ci siamo noi. Loro bianchi, metropolitani, atei e bestemmiatori come le vittime degli attentati, loro che pretendono gli si chieda scusa e marciano. Loro che praticano potere: braccia e gambe della costituzione d’Europa, che rimuove la sua pazzia a colpi di laicità forzata e imposta. E ci siamo noi: noi, il contrario di loro. Noi che viviamo fuori le mura e abitiamo i luoghi del bando, noi che detestiamo la whiteness, e sputiamo in faccia alle ipocrisie della laicità, noi antieuropei, che non marciamo e non chiediamo scusa. Ci siamo anche noi. Speculari e opposti. Loro potere costituente, vestito in gessato. Noi nuda vita, destituente, ultimi, residui del campo di concentramento globale, disegnato dal sistema neoliberista. Loro la parola, noi, il silenzio. Noi privati di ragione che tuttavia mostriamo ancora ciò che non può essere testimoniato. Noi, lacuna costitutiva del loro discorso. Giorgio Agamben (riprendendo notizia da Levi) ci ha insegnato diversi anni fa come si chiama questo vuoto, il nome che nel gergo dei campi viene data a questa forma di vita, totalmente preda della Gorgone: il suo nome è “musulmano”. Così il cerchio è chiuso, il discorso del potere è confermato: loro i laici, noi muslim.

Cosa si può chiedere alla letteratura? Molte cose, senza dubbio. Ad esempio Jean-Marie Le Clezio ha colto rapidamente l’urgenza di trovare il coraggio di scendere in strada, innanzitutto per impedire la proliferazione di estraneità, per spezzare il combinato disposto di isolamento, solitudine, e individuazioni dicotomiche che l’una accanto all’altra non fanno una civiltà, ma una strisciante e odiosa guerra civile, razzista e violenta. Rimediare alla miseria degli spiriti per guarire la malattia che corrode le basi della nostra democrazia, ha scritto Le Clezio. E farlo mettendosi in marcia, e augurandosi che per generazioni, questa marcia democratica continui e si allarghi. Semplice, certo privo dell’ornamentazione ditirambica delle derive psichiche di quell’altro, e tuttavia davvero inascoltabile, questo Le Clezio, per il prevalente del dibattito sui fatti di Parigi.

2. Discorso. Dunque l’ipocrisia. Uno degli autori più letti in quei giorni, pubblicato tra l’altro sulle colonne de L’internazionale è stato Karim Metref. In particolare ampio spazio ha avuto la sua polemica con Igiaba Scego, che aveva scritto, subito dopo l’attentato un accorato articolo dal titolo Not in my name:

«Oggi mi hanno dichiarato guerra. Decimando militarmente la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo mi hanno dichiarato guerra. Hanno usato il nome di dio e del profeta per giustificare l’ingiustificabile. Da afroeuropea e da musulmana io non ci sto. (…) L’Europa è formata da cittadini ebrei, cristiani, musulmani, buddisti, atei e così via. Siamo in tanti e conviviamo. Certo il continente zoppica, la crisi è dura, ma siamo insieme ed è questo che conta. I killer professionisti e ben addestrati che hanno colpito Charlie Hebdo vogliono il caos. Vogliono un’Europa piena di paura, dove il cittadino sia nemico del suo prossimo. E in questo vanno a braccetto con l’estrema destra xenofoba.»

E no, scrive Metref, rievocando le evidenti responsabilità della politica estera di tre quarti dei paesi occidentali: «loro creano mostri e poi, quando gli si rivoltano contro, noi dobbiamo chiedere scusa, dissociarci e farci piccoli. A me questo giochino non interessa più. Non chiedo scusa a nessuno e non mi dissocio da niente». Non si dissocia e non si identifica, lui non è Charlie – ma poco, pochissimo importa questo fascinoso, piccolo e orgoglioso anticonformismo, molto di più conta la conclusione di Metref: «Io non ho più pazienza per questi macabri giochini. Mando allo stesso inferno sia questi mostri sia gli stregoni della Nato e dei paesi del Golfo che li hanno creati e li tengono in vita da decenni. Mando tutti all’inferno e vado a farmi una passeggiata in questa notte invernale che sa di primavera… Speriamo non araba». Gli appassionati di Sottomissione, esultano e applaudono. Primo imperativo del discorso, dunque: non agire, non muoversi, non costruire conflitto. Basta mandarli a quel paese e far due passi. Non mischiarsi al coro del rassemblement – come se mancassero strumenti e analisi per prender distanza, lavorare sulle manifeste contraddizioni di quella logica, declinarne il composto coloniale e rigettarne le ombre.

Proprio qui si inserisce un secondo imperativo del discorso egemonico. Rovistando negli armadi della memoria, a qualcuno è parso intelligente rispolverare la critica marxista del liberalismo. Libertà di espressione? Laicità? Che c’importa di questi vessilli universalistici già rovesciatisi nella tragica dialettica dell’illuminismo in imperialismo culturale, colonialismo e oppressione? Qualcuno ha persino preteso di parlare “da terra, e non dai cieli dell’ideologia” spacciando per materiale d’inchiesta una serie di pensieri scritti in salotto, con l’Ipad ben acceso e sintonizzato sulle pagine di Le Monde, per compiacersi del fatto che in alcuni licei di Saint Denis gli studenti non hanno rispettato il minuto di silenzio. Per poi articolare in seminari e interviste quella curiosa identificazione tra occidente e marcia parigina, che ha preteso di coprire di whiteness i milioni di partecipanti alla giornata dell’11 gennaio, quelli di Parigi come quelli di tutte le altre metropoli del mondo in cui si è manifestato. Girolamo De Michele ha già suggerito la necessità di revocare in dubbio queste goffe letture che si tengono esclusivamente sulla linea del colore – come se la storia di Francia, diceva, fosse fatta solo da «guerre coloniali e non anche dalla resistenza e dal maggio’68» – e ha denunciato la «schematizzazione meccanica di due linee di colore – quella bianca-occidentale e quella nera-banlieue»1. Più in generale sarebbe sufficiente, quando si tenta una lettura materialista ricordarsi che la critica è sempre situata, mai una sterile contrapposizione tra categorie astratte. Fuor di metafora: la società Europea, non assomiglia a quella latinoamericana. Ma qui sta il punto, da questi pensieri storti si produce pur sempre, il secondo imperativo del discorso: interiorizzare l’immaginario del nemico e lasciare che le soggettività metropolitane europee, in particolare quelle che sfuggono alla categorizzazione dei tenori del rassemblement national possano essere cristallizzate e digerite, fissarne l’identità allo specchio del potere. Musulmana e nera è la periferia sulla quale Manuel Valls ha deciso di lanciare la riconquista a colpi di catechismo repubblicano e retate di polizia. Così musulmani, arabi, neri, dobbiamo essere tutti noi, per effetto d’una ignorante forme di pensiero aderente, conciliante, meramente riproduttivo dei più triti e – stavolta sì – occidentali e coloniali stereotipi della propaganda istituzionale.

3. Double-Bind. Da questo immaginario non si esce. Al contrario se ne moltiplicano gli effetti devastanti. La polarizzazione del ragionamento, farsesca più che tragica, attorno all’essere o non essere Charlie, ha fatto il suo lavoro. Riprendiamo alcuni fatti: Il 13 gennaio, la direttrice del servizio politico di France 2, Nathalie Saint-Cricq, sostiene l’urgenza di «scovare tutti coloro che “non sono Charlie”» perché, come ha spiegato Hugues Lagrange ciò sarebbe l’espressione inequivocabile di «tare morali» tipiche delle «minoranze cresciute nei paesi colonizzati». Cosa più grave, Najat Vallaud-Belkacem, la ministra dell’educazione, a proposito della situazione nelle scuole francesi, ha dichiarato, il 14 gennaio all’emiciclo dell’Assemblée Nationale: «Anche lì dove non ci sono stati incidenti, ci sono state troppe domande da parte degli studenti (…) queste domande e questi dubbi ci risultano insopportabili, soprattutto quando le sentiamo ripetere a scuola, che ha il compito di trasmettere dei valori». In sintesi: seppure nessun Patriot Act à la francese, ha visto il giorno, il governo socialista ha tuttavia partecipato ampiamente alla costruzione d’una lettura dei fatti schematica e violenta, ha dato disposizioni per inacerbare i controlli di polizia, moltiplicare i fermi e gli arresti, sino a rischiare di precipitare nell’isterica persecuzione di tutto ciò che potesse anche minimamente somigliare al loro demenziale identikit dell’altro-da-noi – arabo, musulmano, banlieusard, nero. Nera come l’infanzia di Ahmed, 8 anni, di Nizza, convocato dalla polizia per apologia del terrorismo all’uscita dalla scuola. Come giustamente hanno sottolineato in molti, si dovrebbe combattere contro questo clima che rispolvera inni nazionali e identità territorializzate, standard, docili (ma come altro deve essere una identità?).

«Non è dei nostri studenti o degli adolescenti che abbiamo paura – hanno scritto, polemizzando con il ministro, un gruppo di educatori francesi su Mediapart2 - abbiamo fiducia nella loro capacità di sviluppare un pensiero autonomo e generoso. Pensiamo che il nostro ruolo di insegnanti ed educatori non consiste né in un esercizio di addestramento né in una impresa di adattamento al mondo così com’è, ma nel rendere i giovani capaci di pensiero critico, esigente, nutrito da ideali collettivi»

Ma a nessuno è venuto in mente – tranne appunto a qualche sito militante, soprattutto in Italia e molto anche in Francia – di bearsi nell’estetizzazione del disagio, nelle difficoltà di adolescenti che si son visti sbattere in faccia identità a loro estranee e imposte. Un’insegnante di una scuola della Val-d’Oise, ha descritto con sobrietà e precisione il dramma delle parole che ha dovuto attraversare di fronte ai suoi studenti. Ne leggano con attenzione il racconto, gli appassionati d’inchiesta3. Senza inquadrarne i pensieri in modo pregiudiziale, senza incasellarne l’immaginario in categorie preconcette, si possono attraversare le ansie e le paure dei ragazzi, affrontare la sproporzione costitutiva della visione del mondo di chi è costretto a crescere ai piedi di un HLM di periferia, decostruirne la compassione a corrente alternata, il mito del rispetto conquistato con la forza, e tutto il corollario narcisista che ogni adolescenza porta con sé, per poter finalmente discutere di relatività della legge, individuare insieme a loro una via d’uscita, le parole per dire che «è successo qualcosa di grave, che concerne la vita di molte persone».

«Gli studenti esitano, Pongono domande. Ripetono. Provocano. Provano a interpretare le cose a partire dai soli quadri mentali di cui dispongono. Sono adolescenti che si stanno formando. Contraddirli ridicolizzando i loro punti di vista (…) significa perdere. Ascoltiamoli prima di chiamarli “islamisti”».

Quanto è accaduto a Parigi, qualche settimana fa, quanto accade in queste ore a Copenaghen, parla d’Europa, di città, di diritti negati. Alcuni interventi preziosi per ricostruirne i contesti sono stati scritti da Patric Jean e pubblicati su Mediapart4. Ma per disinnescare la miccia del doppio vincolo polizia-terrore, per rompere la tenaglia di questa barbarica identificazione psichica e collettiva, bisogna innanzitutto pensare altrimenti. Si tratta di politica: nulla che venga concesso per virtù dello spirito santo. Una buona scuola, condizioni di vita decenti, l’accesso a un reddito che permetta una vita dignitosa, un modello di cittadinanza cosmopolita e inclusiva, la rottura dei confinamenti e delle frontiere che attraversano le nostre metropoli, nessuno ce li regalerà: sono diritti non concessioni. Vanno conquistati attraverso un ciclo di lotte politiche che cambi il diagramma delle forze in campo, che rifiuti le identificazioni meccaniche e i loro opposti speculari.

4. Critica. Questo confondere il rovescio della medaglia per critica della moneta, m’inquieta almeno quanto i fatti che sono accaduti, e che ancora accadono dentro ai confini d’Europa e nelle sue città. La discussione che si è articolata – soprattutto qui importa quella dei siti e delle testate di movimento – porta il segno deciso di questa posa reattiva, dicotomica, sterile, disimpegnata. Come servisse, il pensiero critico, unicamente ad individuare le sbarre d’una gabbia, per poi esentare il terreno europeo da ogni pratica di conflitto, confermarne l’intransitabilità, lasciarlo in preda al doppio identico terrorismo-polizia. Quanto insidiosa fosse la sfida lanciata dall’esecutivo francese e dalle sue retoriche repubblicane, non era difficile da intuire. Che il rinchiudere la lettura dei fatti nei confini nazionali e in chiave securitaria fosse pericoloso – parte del problema più che sua soluzione – lo avevamo capito tutti e per tempo. Non occorreva particolare arguzia. Ma al discorso istituzionale non si risponde negandosi, si risponde agendo conflitti politici. Proprio perché si tratta di combattere un immaginario dicotomico e universalista, occorre armarsi di precisione e complessità. «Quattro milioni? – ha scritto Judith Revel subito dopo la marcia repubblicana – veramente uno solo ci basterebbe per chiedere l’apertura di un nuovo progetto di costituzione politica all’altezza dell’11 gennaio»5. Per chi, quelle singolarità in marcia volesse vederle, s’intende, per chi voglia coglierne ambivalenze e criticità, per chi voglia scorgervi una parte almeno del corpo collettivo dell’Europa delle lotte. Certo non sarà contro quelle moltitudini che si costruirà la richiesta di una cittadinanza incondizionata, comune, che si potranno sostenere politiche educative aperte e rispettose delle differenze, una scuola come palestra di critica e di emancipazione, un nuovo Welfare per tutte e per tutti. Libertà, uguaglianza, fraternità o sono di tutti o non appartengono a nessuno. Come di tutti e la richiesta di pace, da esigere immediatamente dentro e fuori d’Europa. La vera marcia comincia adesso: contro l’austerità, per una nuova carta dei diritti europei, e – sarebbe forse il momento di tornare a dire – contro tutte le guerre. Possiamo, su queste esili tracce costruire movimento, politica, potere costituente? Si, possiamo, a patto di non cedere alla triste narrazione del resto, dello scarto, della reazione. A patto di non cedere alla récupération istituzionale del dopo-Charlie.  In un brano tanto celebre quanto sistematicamente equivocato, non di rado tirato in causa in questi giorni, Gilles Deleuze, discute di divenire minoritari – e intende con questa espressione contestare la confusione tra il divenire e la storia: «gli storici parlano dell’avvenire delle rivoluzioni», dice Deleuze e concludono ogni volta che le rivoluzioni vengono represse dalle istituzioni, per cui forse non è il caso di affannarsi troppo. In fondo la rivoluzione sovietica ci ha dato Stalin e quella americana Reagan e Bush. Meglio mandarli a quel paese e “farsi una passeggiata aspettando la primavera”. Tuttavia, dice Deleuze, così ragionando si confondono due cose completamente diverse tra loro. Ed in ogni caso gli storici non hanno mai impedito e mai riusciranno a impedire che in determinati momenti, le persone decidano che l’unica via d’uscita per loro è quella di divenire rivoluzionari, scartare l’immaginario dominante e aprire una faglia, praticare un conflitto, cambiare le cose…

 

  1. http://www.carmillaonline.com/2015/02/02/je-suis-humaine/ 
  2. http://blogs.mediapart.fr/edition/les-invites-de-mediapart/article/200115/ce-nest-pas-des-eleves-que-nous-avons-peur 
  3. http://www.chouyosworld.com/2015/01/14/mes-eleves-un-drame-et-des-mots/ 
  4. http://blogs.mediapart.fr/blog/patricjean/070115/charlie-hebdo-refusons-la-guerre-civile 
  5. http://www.euronomade.info/?p=4025 

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