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L’educazione privatizzata. Anatomia della “Buona scuola”

di Marco Magni

Dall'attacco agli insegnanti e ai loro diritti, trasformati in esecutori di ordini stabiliti altrove, all'aziendalizzazione della scuola, orientata alla concorrenza di mercato e non più all’attuazione del welfare. Un'analisi del “nuovo discorso” neoliberista sull'educazione, che dagli anni ’80 di Reagan passa per Tony Blair, fino all’impostazione data da Renzi alla sua riforma

renzi scuola 510 privatizzazioneLe premesse storiche

Negli anni ’60 e ‘70, i governi occidentali vedevano nelle riforme scolastiche una delle leve della costruzione del welfare state e della relativa base di consenso; dagli anni ’80, considerano le riforme scolastiche un modo per infondere un’“anima” all’“economia sociale di mercato” (o, se vogliamo dirlo in termini più semplici, al “neoliberismo”). Possiamo, quindi, inserire la “Buona scuola” in una genealogia, che inizia proprio dagli anni ’80.

Il documento che segna la svolta nelle politiche scolastiche, nel quadro dell’affermarsi dell’egemonia liberista, è “A Nation at Risk”, rapporto presentato dal segretario statunitense all’istruzione di Reagan, Bell, nel 1983. Dalla sua lettura emergono diversi elementi di un’impostazione pedagogica conservatrice (l’invocazione di maggiore disciplina e maggior tempo dedicato allo studio) ma vengono toccati anche dei nervi scoperti del sistema scolastico americano, soprattutto l’eccessiva frammentazione del curricolo, che ha fatto delle high schools un vero e proprio “supermarket educativo” in cui si può studiare di tutto, dalla criminologia all’economia domestica, ma senza alcuna definizione chiara del cosiddetto “curricolo di base”.

La stessa Diane Ravitch, leader intellettuale dell’odierno movimento statunitense contro il “teaching to the test” e la privatizzazione dell’istruzione, promossi dalle leggi Bush (No Child Left Behind) e Obama (Racing the Top), considera “A Nation at Risk” un punto di riferimento positivo per la costruzione di un’alternativa all’esistente, fondata sul rafforzamento delle basi culturali del “curricolo” delle scuole Usa, quindi su una maggiore unitarietà dei saperi e dei programmi di studio e sulla centralità del “pubblico”.

“A Nation at Risk” diede vita ad un importante dibattito internazionale, negli anni ’80, sulla “qualità dell’istruzione”, cui diedero impulso soprattutto i ricercatori dell’Ocse e di cui si fece portavoce, qui in Italia, Norberto Bottani. La scuola di massa aveva tradito le sue promesse, impoverendo la qualità dell’istruzione. Il rimedio proposto da Bottani e dagli altri esperti dell’Ocse non era la scuola élitaria d’antan, bensì la “liberazione” della scuola da funzioni considerate improprie di socializzazione, di costruzione delle identità degli adolescenti, di sviluppo delle competenze relazionali e affettive, che si erano venute sedimentando a partire dalle riforme “inclusive” ed espansive degli anni ‘60. La tesi era, in pratica, che per rendere la scuola più “accogliente” ad un pubblico più vasto, si era finito per annacquarne la funzione culturale. La scuola avrebbe dovuto tornare alla sua funzione principe, la formazione culturale dell’individuo.

Ma l’aspetto essenziale di “A Nation at Risk”, e anche la ragione per cui può essere considerato il punto di riferimento di un “nuovo discorso” che lega tra loro scuola ed economia sociale di mercato, è un altro. Esso si presenta sin dal titolo, e sta nel fatto che la motivazione fondamentale del documento era costituita dall’allarme per la crescente fragilità dimostrata dall’economia americana di fronte alla concorrenza giapponese. La novità politica introdotta da “A Nation at Risk”, consisteva nell’imputazione della causa fondamentale del rischio del “sorpasso” giapponese nei confronti dell’economia Usa alla scarsa qualità dell’istruzione ricevuta dai giovani americani. In realtà, l’America possedeva un precedente, in materia: il lancio dello Sputnik sovietico, nel 1957, aveva già determinato la mobilitazione degli esperti dell’istruzione per l’individuazione di riforme scolastiche che rilanciassero gli Stati Uniti nella difesa del proprio primato tecnologico e scientifico, essenziale ai fini della Guerra fredda.

 

La retorica del capitale umano

Possiamo individuare, quindi, alcuni assi portanti del “nuovo discorso” governativo sulla scuola, che dagli anni ’80 di Reagan passa per Tony Blair, quindi all’impostazione data da Renzi alla sua “buona scuola”:

a) innanzitutto, la premessa soggettivista connessa alla teoria del “capitale umano”. L’istruzione costituisce il fattore determinante, la “variabile indipendente”, della crescita economica. La competitività di una nazione dipende dalla qualità del suo “capitale umano”. Al di là delle implicazioni individualistiche che la nozione di “capitale umano” denota nei suoi stessi fondamenti (l’individuo-impresa che amministra strategicamente il capitale costituito dalle sue competenze e dai suoi talenti, come ha messo in luce Foucault in “Nascita della biopolitica”), l’uso politico di tali affermazioni da parte dei governi occidentali ha assunto anche un’altra valenza: l’obiettivo della crescita di qualità dell’istruzione (vera o presunta che sia) consente di eliminare dall’inventario delle soluzioni possibili riforme di tipo redistributivo o interventi politici finalizzati alla creazione di nuova occupazione. La teoria del capitale umano, in fondo, altro non è se non una reinterpretazione della massima dell’economia neoclassica (Senior) secondo cui “l’offerta crea sempre la propria domanda”;

b) la costruzione, al di sopra del primo elemento, di una retorica, o, se vogliamo, di un “appello morale” che assume come posta in gioco l’educazione. Altri hanno già compreso politicamente il valore simbolico della scuola, e lo hanno sfruttato politicamente. Il precedente, rispetto alla retorica renziana, è il Tony Blair dello slogan: “Education, education, education”. L’impegno per la scuola diviene fattore di costruzione del consenso e della “visione” dei governanti poiché chiama idealmente tutti a stringersi nello sforzo di investimento sul futuro. L’appello si rinforza grazie all’identificazione emotiva tra l’investimento della famiglia sul futuro dei propri componenti e l’investimento politico e sociale su scala sistemica. Riagganciandosi ad una tradizione di lunga durata, che riguarda la storia della scuola statale ma risale probabilmente ai suoi precedenti ecclesiastici, a S. Filippo Neri o alle “piccole scuole” primo-settecentesche di Giovanni Battista La Salle, la retorica governativa, nel mentre ribadisce la connotazione morale dell’educazione come “missione”, la utilizza anche per donare una qualificazione morale a se stessa ed al proprio indirizzo politico generale. Ma, come si diceva all’inizio, nel nostro tempo si tratta precisamente di infondere, o inventare, un’anima, al progetto di un’economia sociale di mercato, ovvero ad una società individualistica e competitiva fondata sull’autoimprenditorialità e sulla concorrenza di mercato.

 

Il dispositivo di legge

Possiamo, adesso, scendere nei particolari. Il “lavoro”, in senso sia simbolico che pratico, costituisce un elemento portante nel Ddl presentato pochi giorni or sono. Un elemento dal contenuto fortemente simbolico è, senza dubbio, l’inedito allargamento dell’alternanza scuola-lavoro anche ai licei (per un monte-ore non inferiore a 200 ore nell’arco del triennio). Non si tratta, leggendo il testo di legge, di una sorta di “servizio del lavoro” obbligatorio per i liceali, ma solamente di un’opzione offerta alle scuole, previa individuazione delle aziende disponibili sul territorio, nell’ambito dell’elaborazione del loro “Piano triennale dell’offerta formativa”.

Se, chiaramente, la conoscenza diretta della realtà del mondo del lavoro, per gli adolescenti, non è certo un male, l’articolato della legge è segnato tuttavia certamente da un tratto ideologico: dal momento in cui un’alternanza scuola-lavoro non è finalizzata, al liceo, scuola istituzionalmente indirizzata allo sbocco negli studi universitari, ad “imparare un mestiere”, allora l’alternanza scuola-lavoro si presenta come una sorta di iniziazione alle dinamiche del mercato e dell’azienda. Si tratta, insomma, di una risposta politica alla tesi per cui le difficoltà occupazionali dei giovani dipenderebbero da fattori psicologici, dall’essere troppo “bamboccioni” o “choosy” nella scelta delle occupazioni. Tra l’altro, le ultime esternazioni del ministro del lavoro Poletti, secondo cui “tre mesi di vacanza sono troppi”, perciò tutti i giovani dovrebbero svolgere ogni anno un periodo estivo di formazione-lavoro (non si capisce in che modo, magari con un “servizio di leva” del lavoro), sembra dichiarare in modo esplicito qual è l’ispirazione programmatica (e “morale”) di questo aspetto del disegno di legge.

L’impatto più rilevante sul lavoro, il ddl “La Buona scuola” lo esercita, indubbiamente – come emerge da tutti, o quasi, i commenti a caldo – sul lavoro docente. Se la riconsiderazione della “carriera” mediante l’attribuzione “meritocratica” degli scatti di anzianità al solo 66% dei docenti di ogni istituto, presente nelle linee guida del settembre 2014, è stata eliminata, e il premio discrezionale alle “eccellenze” (massimo il 5% del corpo docente) rasenta il ridicolo, tuttavia viene inserito un articolo che prefigura una vera e propria ridefinizione dello statuto del lavoro docente: tutti i nuovi assunti verrebbero inseriti in “Albi provinciali” (già presenti nella Legge Aprea, non approvata nella scorsa legislatura per le forti opposizioni del mondo della scuola) dai quali i presidi sceglierebbero i docenti più adatti all’”offerta formativa” del proprio istituto. Questi docenti non avrebbero una cattedra definitiva, ma un incarico triennale, rinnovabile dal preside stesso. Così come avvenuto nella legislazione sul lavoro degli ultimi decenni, compiutasi con il Jobs Act, i nuovi assunti godono di minori tutele e minori diritti, determinando un dualismo che indebolisce la posizione complessiva e il potere contrattuale dei lavoratori tutti.

 

L’insegnante: deriso ma resiliente

Per comprendere pienamente il senso di tale provvedimento, credo occorra sprovincializzare lo sguardo, contestualizzarlo in un quadro internazionale, inserendolo dentro un processo oramai ventennale: all’interno dell’attacco allo statuto ed al potere contrattuale del lavoro, l’attacco al lavoro degli insegnanti. La riforma italiana viene dopo le riforme inglesi, statunitensi, neozelandesi, australiane, greche e, più recentemente, messicane, che hanno come loro tratto comune la crescita della subordinazione degli insegnanti rispetto al controllo centrale del governo e del “management” scolastico. Tutte si sono venute realizzando all’interno di un programma di trasformazione dell’assetto dell’educazione che la sociologa britannica Sharon Gewirtz ha definito con la felice espressione di “managerial school”, una scuola orientata alla concorrenza di mercato e non più all’attuazione del welfare.

Sin dall’Education Act della Thatcher, dell’88, che rappresenta il prototipo delle riforme neoliberiste dell’educazione, gli insegnanti sono divenuto oggetto di un “messaggio derisorio” – secondo l’espressione del sociologo Stephen Ball – teso a imputare loro le responsabilità maggiori della crisi della scuola di massa. Bersaglio principale delle riforme le organizzazioni sindacali, accusate di trasformare la scuola, da servizio pubblico, in servizio ad uso e consumo di chi ci lavora (era questo, il senso, ad esempio, della nota frase della Gelmini, sulla scuola come “ammortizzatore sociale”).

È senza dubbio lecito considerare l’indebolimento dello status degli insegnanti come l’effetto di un più generale, e innegabile, attacco su scala globale al lavoro. Ma nell’attacco agli insegnanti, e ai loro diritti, sembra prefigurarsi anche un processo che riguarda lo status e la posizione dell’insegnante nel processo di trasmissione e riproduzione dei saperi. Là dove le scienze sociali hanno riflettuto, negli ultimi decenni, sulla figura degli insegnanti e, più in generale, sulle riforme neoliberiste dell’istruzione, in Inghilterra e Francia (molto poco in Italia), sono emerse delle linee interpretative che cercano di dare una visuale d’insieme all’intero processo. Ad esempio, Gill Helsby (in uno dei rarissimi testi tradotti in italiano della letteratura sociologica sul tema), afferma che gli insegnanti, nella “managerial school” inglese, “da professionisti in grado di operare scelte curricolari” vengono trasformati “in tecnici bisognosi di direttive precise ed esecutori di ordini stabiliti altrove”. Altri hanno affermato che la linea di tendenza generale fosse quella della forte propensione degli apparati politico-amministrativi non solo a far arretrare gli insegnanti nella scala dei redditi, ma a ridimensionare il loro status, declassandoli da professionisti, dotati di una relativa autonomia di scelta e di giudizio, in impiegati, dediti al lavoro esecutivo di somministrazione di programmi e moduli didattici preparati, fin nel dettaglio, da altri (insegnanti cosiddetti “esperti”, agenzie specializzate, ma anche aziende di software didattico).

L’impressione è di trovarsi ad un crocevia. Nel senso di stare all’interno di uno scenario molto confuso e imprevedibile. Infatti, da un lato rimane molto forte la pressione a favore di un’istruzione “eterodiretta” e, possibilmente, privatizzata (tanto nella modalità della “proprietà” e dell’”indirizzo” quanto della forma di finanziamento o della trasformazione in senso “manageriale” di scuole che restano, tuttavia, formalmente pubbliche) poiché in questo senso congiurano sia le forze politiche di orientamento neoliberale quanto le organizzazioni e le corporation transnazionali (l’apertura al mercato dell’istruzione è stata uno dei temi nell’agenda del WTO e adesso del TTIP euro-americano).

Dall’altro, le stesse contraddizioni dell’operare dei governi, primo fra tutti quello italiano che, pur consegnandoci oggi un pessimo Ddl, lo ha rinviato e modificato nei contenuti innumerevoli volte, fanno pensare che l’opzione fondata sulla privatizzazione, l’aziendalizzazione, la performance, la retorica del capitale umano, stia urtando contro un “fondo” viscoso e duro, la cui resilienza è piuttosto difficile da scalfire.

Resilienza sociale, perché il concetto che la scuola pubblica è l’unico modo per garantire standard e spesa pro capite per allievo il più possibile uniformi fa parte della coscienza collettiva perlomeno quanto l’idea che l’acqua costituisca un bene primario sul quale speculare è odioso. Ma anche culturale, e, direi antropologica. Le problematiche della “bildung”, della formazione della persona, hanno una storia di lunga, lunghissima durata. I problemi inerenti il rapporto maestro-allievo su cui ragionavano Socrate, Quintiliano, Erasmo, Vittorino da Feltre, Pestalozzi, non sono poi così dissimili dai discorsi sull’educazione odierni, e neppure dal senso comune di insegnanti, allievi, genitori del presente. Cose che, una volta “aziendalizzate”, sono già distrutte, e il danno provocato resta molto difficile da nascondere. In questa contraddizione, c’è un varco (qui in Italia credo lo stia tenendo aperto la LIP, ma anche dell’altro che si tiene celato, poco visibile, ed altro ancora che va collettivamente costruito).

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