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Padri e padroni

Scritto da Salvatore Cavaleri

6394172Qualche settimana fa sono stato invitato a tenere un seminario in un liceo di Palermo, all’interno di un corso di storia contemporanea, su «Genova 2001 e il movimento altermondialista». Per la prima volta ho avuto l’occasione di parlare di quegli avvenimenti con un gruppo di ragazzi che all’epoca aveva appena tre anni. Qualcuno aveva già visto il film Diaz, i più informati avevano guardato dei video su Youtube, altri si erano documentati per l’occasione andando a recuperare vecchi articoli. In generale la percezione che avevano di quelle giornate era di «un gran casino»: Diaz, black bloc, Carlo Giuliani, defender, lacrimogeni, tute bianche, cariche, vetrine rotte, auto in fiamme, zona rossa, teste rotte, scudi, Bolzaneto. Quello che per loro non era affatto chiaro era cosa ci fossero andate a fare tutte quelle persone a Genova. Quale fosse il contesto storico in cui si collocavano quelle giornate e quale fosse il loro significato politico. Per questo, pur dando conto di ciò che è successo tra il 19 e il 21 luglio del 2001, ho provato a parlare con quei ragazzi delle ragioni che ci hanno portato a Genova, di quel camminare domandando che imparammo durante gli anni Novanta e dell’attualità di una ricerca quotidiana di altri mondi possibili. Soprattutto, ho voluto parlare dell’importanza di costruire forme di conflitto adeguate al presente, della ricerca di legami in cui essere al tempo stesso singolari e molteplici, orgogliosi delle proprie differenze e in lotta per l’uguaglianza.


È probabile che nel discutere con quei ragazzi, i miei discorsi abbiano risentito l’influenza della  recente lettura del libro di Paolo Godani Senza padri. Economia del desiderio e condizioni di libertà nel capitalismo contemporaneo (DeriveApprodi, 2014), libro che non parla affatto di Genova 2001, ma che di certo ci aiuta a ricercare nuove forme di lotta dentro la globalizzazione.

Se a prima vista il libro di Godani si presenta come una semplice invettiva, come un libro scritto per muovere una critica (sacrosanta) ad altri autori, andando in profondità si capisce che Senza padri è un libro affermativo, nel quale entrare a gamba tesa nel dibattito teorico attuale serve ad assorbire i colpi, per poi andare all’attacco. Il polo polemico da cui prende le mosse il testo è quello da lui chiamato dei «neopaternalisti», dentro cui annovera, pur riconoscendo le enormi differenze, Jean-Claude Milner, Alain Badiou, Slavoj Žižek e, soprattutto, la psicostar Massimo Recalcati. La tesi principale che in qualche modo accomuna questi autori è che la società contemporanea sia sempre più segnata dalla «sparizione del limite» e che, di conseguenza, sia avvenuta una «rottura dei legami» che caratterizzavano la società tradizionale. All’interno di questo scenario questi autori auspicano, ognuno a modo proprio, un «ritorno del Padre», un riaffermarsi della «Legge» che possa riportare ordine nel caos indistinto della contemporaneità.

Ciò che Godani rimprovera ai neopaternalisti è di non accorgersi di come il capitalismo contemporaneo rimuova sì i vincoli tradizionali, ma soltanto per rimpiazzarli, marxianamente, con limiti nuovi, adeguati alle nuove forme di produzione. Ad ogni de-territorializzazione, per dirla stavolta con Deleuze e Guattari, segue sempre una ri-territorializzazione. Il problema è, infatti, che, portato alle estreme conseguenze, il «nuovo ordine del discorso paternalista», conduce inevitabilmente ad un bivio, in cui da un lato c’è la rassegnazione di fronte al dilagare del disordine provocato dall’assenza della Legge, dall’altro la restaurazione dell’autorità, di un nuovo ordine ristabilito dal ritorno del Padre. In ogni caso non viene mai annoverato il conflitto. Viene esclusa ogni possibilità di soggettivazione che possa mettere in discussione l’ordine, o il disordine, costituito. «Non deve essere un caso», nota Godani, «se in Recalcati non si trova traccia di una critica ai meccanismi dello sfruttamento e ai dispositivi repressivi che governano la nostra società “del godimento”». [pag. 31]

Nel leggere Cosa resta del padre? di Recalcati avevo condiviso esattamente questa sensazione. Nel leggere la sua definizione della nostra epoca come caratterizzata dal «desiderio senza legge», mi risuonava nelle orecchie l’odiosa retorica che rimprovera di avere vissuto tutti «al di sopra delle nostre possibilità». Nel leggere quella definizione mi sembrava di sentire il ministro Padoa-Schioppa chiamare i giovani precari «bamboccioni». Recalcati, pensavo, lo dovrebbe spiegare al 44% di giovani disoccupati, alla miriade di lavoratori ipersfruttati, che questa è l’epoca del «puro desiderio» e che la loro condizione è generata dall’assenza di «Legge». Magari loro sono ancora convinti che dipenda dall’affermazione del neo-liberismo come Legge unica e totalizzante. Mi sembrava, per l’appunto, che Recalcati non facesse i conti con la «crisi», che parlasse di una realtà pacificata, da «fine della storia». Mi sembrava, cioè, che Recalcati non cogliesse i nuovi vincoli che nella contemporaneità hanno soppiantato i vincoli precedenti.

Ciò che Godani rimprovera a Recalcati è di confondere la «funzione del limite», che per Lacan agisce su un piano trascendentale, trasferendola «surrettiziamente» su un piano etico. Un conto è il «limite interno» necessario al desiderio per funzionare, ben altra cosa è il «limite esterno», funzionale soltanto alla sopravvivenza dell’Ordine sociale. Il cortocircuito avviene, quindi, proprio quando Recalcati prova ad estendere su un piano politico-sociologico, intuizioni di carattere psicopedagogico. 

La questione è che i neopaternalisti sembrano voler arrivare alla resa dei conti con tutto un filone teorico-politico, ma sbagliando decisamente bersaglio. Si scagliano contro il «postmoderno», ma lo fanno attaccando i teorici critici della postmodernità e non gli apologeti. Il bersaglio principale, tanto di Recalcati quanto di Žižek, sono infatti Deleuze e Guattari, con un risultato paradossalmente uguale ed opposto a quello di chi rintraccia, da destra, in Foucault una fascinazione per il neoliberismo (http://www.uninomade.org/foucault-per-tutti/ ). I teorici che per primi hanno descritto i nuovi dispositivi di potere, ed inevitabilmente i piani di resistenza possibili, vengono adesso additati come i responsabili teorici della catastrofe contemporanea.

Conseguentemente Recalcati e Žižek, ma anche Mario Perniola, Valerio Magrelli e (sic) Nicolas Sarkozy additano il «sessantotto» come l’origine di ogni male. Nel sessantotto, a dir loro, non si andava instaurando un nuovo piano del conflitto a partire dalle trasformazioni linguistico-tecnologiche e dalle conseguenti mutazioni della composizione di classe, ma quel «movimentismo» stava contribuendo ad instaurare il nuovo ordine del discorso dominante. È da lì, da quella spinta di liberazione antiautoritaria, che deriverebbe il Berlusconismo. Anche qui la deriva della nostra società originerebbe dalle istanze liberatrici che per prime l’hanno descritta. Come se la crisi della razionalità, dell’idea di progresso, della linearità della storia, dei concetti di verità e dell’autorità del nome del padre fossero il prodotto di speculazioni teoriche e non di trasformazioni storiche, politiche ed epistemologiche.

L’aspirazione ultima di questo atteggiamento «paternalistico» non può avere, allora, che un sapore «tecnocratico». Il «popolo» viene visto, con una certa dose di apprensione, come una massa informe ed irrazionale, spinto da pulsioni istintive, incontrollate, che necessitano l’avvento di un élite, fatta di Tecnici o di Padri (di destra o di sinistra), in possesso dell’Autorità necessaria a ripristinare l’Ordine. 

Un conto è dire, come David Foster Wallace, che, per rompere con un certo «postmodernismo distaccato», è arrivato il momento in cui «noi dobbiamo essere i genitori» (http://cronacheletterarie.com/2012/09/24/prova/), ben altra cosa è continuare a sperare che i genitori ritornino: i genitori non torneranno più e alimentare ancora questa speranza vuol dire continuare a pensarsi, comodamente, come delle nullità. Vuol dire continuare a replicare quell’atteggiamento deresponsabilizzante da cui si vorrebbe prendere le distanze.

Quello che è in questione nel libro di Godani è, invece, proprio la ricerca di forme politiche che non si affidino alla potenza salvifica dell’Uomo forte. Se tutto lo scenario mediatico è inzuppato di mezze figure spacciate per leader autorevoli, quello che qui è in gioco è la ricerca permanente di un terreno di soggettivazione composto non da «individui», ma da singolarità che accedono a «molteplicità variabili di tratti comuni».

Se sono partito da Genova 2001 per parlare di questo libro, forse, è proprio perché quel movimento ruppe radicalmente con la mitizzazione dei propri padri, anche quelli nobili, anche quelli del sessantotto. Ai ragazzi di quel liceo ho voluto raccontare di come l’eredità dei nostri padri ce la portassimo sempre dietro, ma senza nostalgia. E che, oggi come allora, la questione sia come armarci del presente, come vivere la nostra epoca con la consapevolezza conflittuale dei legami e dei vincoli di cui siamo partecipi, facendoci forza con chi ci sta accanto, reggendoci su ciò che abbiamo in comune, perché comune è la strada da fare. Insomma, per dirla con Godani: «se questo non è più il tempo dei re, non è neppure il tempo dei padri. È il tempo in cui l’alleanza, una società della fratellanza e della sorellanza, sostituisce la filiazione, il tempo di una comunità di celibi». [Pag. 150]

 

Il prossimo 27 maggio Paolo Godani presenterà il libro Senza padri ai Cantieri della Zisa di Palermo e ne discuterà con Salvatore Cavaleri (autore di questo articolo), Marcello Faletra e Calogero Lo Piccolo.

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