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vulcano

Slow Food, Coop e Eataly: la sinistra di facciata

Due chiacchiere con Wolf Bukowski*

SlowFoodThera06676 1024x768Dopo la recente pubblicazione del suo ultimo libro, La danza delle mozzarelle (Consulenza editoriale Wu Ming 1, Edizioni Alegre), Wolf Bukowski è apparso sul Corriere, Il Manifesto, Il Fatto Quotidiano, è stato ospite di Radio popolare e a Milano del Festival Statale Antifascista e Antirazzista insieme a Genuino Clandestino. Scrittore e guest blogger del sito dei Wu Ming, Giap, nel suo libro non lascia spazio a sottintesi: quello di Slow Food e Eataly è un sogno “tramutato in un incubo turbocapitalista fatto di ipermercati, gestione privatistica dei centri cittadini, precarietà per i lavoratori”.

 

In passato hai scritto di memoria, territorio e Grandi Opere. Com’è nata l’idea di questo libro? Qual è il messaggio che volevi veicolare e a chi è indirizzato?

L’idea nasce da una parte per un mio interesse verso le questioni del cibo – soprattutto per i suoi aspetti politici, sociali ed economici – e dall’altra per delle ricerche che avevo fatto sulla politica italiana negli anni ’80. La vicenda di cui parlo nel libro si interseca con quelle della sinistra italiana nelle sue varie accezioni. E infatti racconto la storia del Manifesto, del Gambero Rosso e i rapporti che si costruiscono tra associazioni che nascono a sinistra come Slow Food, con aziende che hanno un rapporto con la sinistra istituzionale come le Coop e infine con Eataly che adesso è quasi identificata con la sinistra del governo. Vedevo che alcune loro scelte erano sempre più orientate verso il mercato e la mistificazione.

L’occasione più prossima è stata l’idea della Disneyland del cibo, a Bologna.

Mi sembrava ci fosse un contrasto molto stridente tra questo mega evento-opera, FICO, e i mercati contadini che facevano fatica a trovare degli spazi, fatica a stare dentro nei conti.

In mezzo a tutto questo contrasto c’era un’aria di incertezza politica e un pezzo di società che emotivamente si collocava a sinistra ma che in qualche modo non riusciva a vedere la contraddizione. Lo scopo del libro è far emergere questa contraddizione: tra qualcuno che ricicla e ripropone motivi, pensieri, parole di sinistra, come fanno Slow Food, Eataly e la Coop e una realtà che invece secondo me era molto più radicale e che continuava a portare avanti istanze di trasformazione sociale, che non riusciva ad emergere e che rischiava di rimanere schiacciata da questa cosa che sembrava molto buona e giusta.

Il libro nella mia testa è rivolto a chi vive ancora in questo limbo in cui si chiede: “perché Slow Food non potrebbe essere buono, pulito e giusto come dichiara? E qual è la differenza tra un mercato contadino e invece un’istituzione come Slow Food che si propone come rivoluzionaria ma che invece ha un rapporto organico con pezzi di imprese e pezzi di economia che non hanno nulla né di rivoluzionario, né di trasformazione sociale?”

 

Il sottotitolo del tuo libro è “Slow Food, Eataly, Coop e la loro narrazione”: quanta presa ha secondo te l’espediente della narrazione sul consumatore comune? Petrini, come scrivi, è riuscito a far passare per buoni i nuovi padroni che partecipano ad Expo, c’è qualcuno che se la beve?

Sì, la questione della narrazione ha fatto molta presa. La narrazione non è il male in sé, nel senso che noi narriamo sempre, viviamo immersi nella narrazione, dunque è interessante parlarne. Ma se questa accompagna il chiarimento di quelli che sono i rapporti economici mi va bene, se invece li occulta e quindi narrare un prodotto alimentare significa raccontarti una storiella in cui mancano i soggetti che veramente hanno messo il lavoro, la fatica reale, hanno costruito il prodotto e non solo il suo immaginario, allora è una narrazione che depotenzia e non chiarisce.

Per esempio nella valle dell’Hudson, cioè il luogo dei prodotti “buoni, puliti e giusti” a basso chilometraggio della città di New York, c’è questa enfasi sulla figura del contadino e c’è assolutamente occultamento di chi lavora, che sono spesso immigrati messicani non in regola, mentre la grande narrazione parla del contadino con la camicia a scacchi… La stessa narrazione sul contadino diventa un simulacro di contadino che però deve fornire il prodotto su cui la grande distribuzione organizzata specula. Questa è la differenza sostanziale con i movimenti come Genuino Clandestino che pone sempre l’accento sui rapporti di lavoro.

 

Al tema della narrazione si ricollega quello dell’immagine: oggi i prodotti alimentari vengono fotografati come fossero modelli, si è diffuso un certo feticismo, a tal punto che si parla di food porn. Pensi che questo abbia inciso sul successo di Eataly, Slow Food e altre realtà o è un processo contrario, cioè sono queste realtà ad aver contribuito a questi fenomeni?

Nel libro faccio un’ipotesi di cui ho trovato conferma nell’ultimo libro di Andrea Segrè. Mi ero sporto dicendo che forse questa insistenza sul cibo è legata al fatto che ci stanno preparando ad avere talmente pochi soldi che quei pochi che ci restano dovremo investirli in cibo, almeno ci danno questo di più narrativo o feticista. Forse nel feticcio c’è la narrazione e nella narrazione c’è il feticcio. Questa cosa me la rileggo più o meno pari pari nell’ultimo libro di Segrè: il cibo è l’unico consumo che non si può comprimere, per cui a quel punto noi dobbiamo stare contenti, sapere che una quota sempre maggiore del reddito andrà a coprire la spesa di una cosa che è essenziale; il cibo ha un valore d’uso assolutamente imprescindibile, e invece riescono a farlo diventare un valore di scambio.

Uno dei punti d’innesto del mio libro era il mio grande fastidio per quel discorso insistito sul fatto che gli italiani spendono poco in prodotti alimentari. Lavorando su questo ho fatto riferimento a Gramsci che in maniera del tutto preveggente, rispondendo a critiche e discorsi ottocenteschi, cioè Feuerbach, dice che non è il cibo che genera le trasformazioni sociali, è la trasformazione sociale che ti spinge a cibarti in modo diverso, e questo è veramente rivoluzionario detto oggi quando ci sono libri su libri di Petrini, Segrè, Farinetti & Company che ti dicono che mangiando qualcosa di diverso cambi la società. Non è vero. Non è vero perché noi siamo incastrati in meccanismi più grandi di noi che non possono essere cambiati dall’ultimo anello del processo economico, cioè dal consumo.

Se a monte non vi aderisce tutta la produzione io posso cambiare il mondo consumando diversamente? No.

 

Quindi secondo te la filiera equo-solidale non è un’alternativa valida?

La filiera equo-solidale è una cosa carina a cui mi rivolgo anche volentieri, però sapendo che in buona parte, forse totalmente, non è in grado di cambiare i rapporti di dominio economico.

 

Nel libro facevi anche riferimento al boicottaggio, dicendo che non serve a niente…

Quando mai un boicottaggio ha funzionato veramente? Le parole d’ordine cambiano, i soggetti economici riescono a riciclarsi con grandi capacità e quindi sì il boicottaggio è una pratica da operare, ma lascia un po’ il tempo che trova.

Ti faccio un esempio: io sono un No TAV della prima ora ma io in questo momento in cui sto girando per presentare il libro devo prendere la TAV, perché non ho alternative. Come opero il mio boicottaggio quando i poteri economici in cui io sono una formica mi cambiano le carte in tavola? Oppure un’altra cosa che ci tenevo a dire nel libro, puoi pretendere che chi fa due o tre lavori e non ha neanche il tempo di respirare rincorra il contadino per fare la spesa? Oppure se alle 10 arriva e c’è la Coop aperta ci va?

E poi mentre sui boicottaggi nessuno ha fatto una piega, quando invece (nel 2013, ndr) i facchini si son messi di mezzo e hanno bloccato gli accessi della Granarolo o i magazzini della Coop, perché venivano costretti a condizioni di lavoro terribili, lì la reazione è stata crudele, un attacco diretto, una chiamata alle armi di tutti i poteri della Repubblica, dal Parlamento alla Polizia di Stato. Questo vuole dire che la cosa che ancora oggi riesce a mettere il bastone tra le ruote ai poteri forti è il conflitto col lavoro, da un lato è rivelatore, dall’altro permette di scardinare una narrativa sul tuo ruolo come consumatore, che non c’è.

 

Expo vuole, cito, “dare una risposta concreta a un’esigenza vitale: riuscire a garantire cibo sano, sicuro e sufficiente per tutti i popoli, nel rispetto del Pianeta e dei suoi equilibri”. E’ possibile nutrire il pianeta con il contributo delle multinazionali dell’agrobusiness?

Io credo che alle multinazionali interessi quella quota molto grossa di Paesi che si nutrono ancora con l’agricoltura di prossimità. Il 70% del pianeta si nutre di prodotti coltivati da contadini e per le multinazionali questo 70% è un pascolo da conquistare. Mi sembra che sia un’idea folle. Peraltro il controllo da parte di enormi aziende sulla riproducibilità dei semi è una cosa talmente drammatica che penso che fino a pochi decenni fa neanche la fantascienza avrebbe potuto immaginare una roba di questo tipo.

 

E che cosa pensi di chi sostiene la necessità delle coltivazioni OGM per contribuire alla lotta alla fame? Credi che l’Italia aprirà presto le porte a questo tipo di coltivazioni?

Credo che uno degli scopi di Expo sia proprio questo. Come dico nel libro, la cosa buffa è che Slow Food, che è dentro ad Expo, se n’è accorto benissimo di questo giochino e s’illude di avere il potere di condizionare.

Slow Food o Segrè hanno queste posizioni un po’ sfuggenti, quando gli si chiede degli OGM rispondono: “Noi non siamo contro la scienza”. Ho capito, però ci sono dei settori di sviluppo scientifico che forse non sono interessanti, non abbiamo bisogno di più cibo.

Le ricette per rallentare la sovrappopolazione mondiale sappiamo quali sono: prima di tutto la scolarizzazione femminile, si è visto ovunque. Dopodiché riducendo gli spazi per gli allevamenti e l’uso forsennato per il biofuel potremmo comunque nutrirci  a sufficienza.

 

Per non parlare degli sprechi…

Quello degli sprechi è un discorso che non ho affrontato ma che in realtà sta diventando anche quello un modo per giustificare le grosse aziende della distribuzione e colpevolizzare il consumatore. Segrè in tutti i suoi libri dice “lo spreco avviene nel frigorifero di casa”. È vero, lo spreco avviene a valle, ma perché i supermercati generano l’acquisto di formati e di prodotti in eccesso e quindi scaricano sull’ultimo anello questo aspetto qui. Per non dimenticare che spesso la gente spreca perché ha una vita impossibile: non riescono a ritagliarsi lo spazio per amministrare correttamente il cibo che comprano.

 

Il cibo sano, sostenibile e biologico sembra essere diventato il nuovo “caviale e champagne”, il cibo dei ricchi, il nuovo status symbol. E i poveri?

Sempre nel discorso che ci stanno preparando a spendere molto di più per il cibo, ma allo stesso tempo ci colpevolizzano perché spenderemmo troppo poco, che non è vero, c’è un grosso problema in vista perché con l’ingresso degli OGM in pieno nelle colture europee, si creerà un doppio binario: quello di chi potrà mangiare gli OGM-free e quello di chi mangerà tutto. Quindi, ben lungi dal combattere il problema della fame nel mondo, può creare un problema serio di nutrizione, di qualità, oltre a impoverire, com’è accaduto in India, i contadini che coltivano OGM. Questo è un problema grosso: dopo quella di apparente democraticità si va verso una fase in cui il cibo cambia nettamente rispetto alle possibilità economiche di chi lo mangia.

 

Hai detto più volte che a differenza di quello che dice Michele Serra in un suo famoso articolo non stiamo spendendo troppo poco per il cibo. Perché?

Perché come dice Gramsci le trasformazioni sociali generano l’abitudine. Non possiamo rimpiangere il momento in cui la gente non aveva nulla, aveva una vita ridotta al minimo e spendeva tutto per il cibo, perché non è che loro fossero più sostenibili, semplicemente avevano poco reddito e lo spendevano quasi tutto per quello. Adesso riavvolgere il nastro e dire che devi spendere di più per il cibo quando io sto spendendo molto di più per altre cose: i trasporti che prima non servivano o le telecomunicazioni… Non è che Michele Serra può dire che si può vivere senza smartphone, è lui che può vivere senza smartphone, una persona normale no. Se mi dai più reddito ragioniamo su come spenderlo, ma se invece me lo riduci, mentre ho il mutuo da pagare e le altre spese crescenti, tu non puoi chiedermi questo e soprattutto non puoi spacciarla come roba di sinistra.

 

eBay ha recentemente messo a punto una strategia per il commercio dell’agroalimentare made in Italy, che cosa pensi del e-commerce in campo alimentare?

L’e-commerce crea questa enorme filiera ricattabilissima di lavoratori della logistica che sono un po’ la classe operaia ipersfruttata di oggi, con nessuna garanzia. Se non cambiano i rapporti sociali non posso immaginare un e-commerce equo. Immaginerò un e-commerce equo il giorno in cui saprò che saranno retribuiti adeguatamente tutti i lavoratori della filiera.

 

E il piccolo produttore? Riuscirebbe a trarne vantaggio?

No. Con questo contesto di distribuzione del reddito questi soldi vanno tutti alla grande distribuzione organizzata.

 

A questo si ricollega il discorso sul caporalato, sulla necessità che esista lo sfruttamento dei braccianti per poter mantenere i prezzi bassi e fare in modo che il profitto sia tutto della grande distribuzione.

I caporali sono un po’ come gli scafisti, sono persone sicuramente con una quota loro di crudeltà personale, di voglia di approfittarsene, ma sono strumenti di un modello. Questo tipo di agricoltura in cui la grande distribuzione si mangia tutta la quota dei profitti non sarebbe possibile se non avesse in maniera reticolare qualcuno che comprime così tanto i braccianti da costringerli a lavorare per cifre di questo tipo.

 

Nell’ultimo capitolo parli dei volontari in Expo: critichi questa scelta o credi che il loro sia un ruolo necessario, un po’ come quello dei braccianti ipersfruttati dai caporali?

Al di là di qualcuno che è entusiasta di suo, non voglio fare lo speculare di Michele Serra e colpevolizzare qualcuno. Sono situazioni più grandi di noi in cui le persone si trovano, assolutamente. Non ritengo che sia una responsabilità loro, ritengo che chi ha più quote di potere avrebbe dovuto tenersi ben fuori da questi meccanismi. Poi ognuno di noi fa tutti i tentativi che può, per campare purtroppo un sacco di gente tenta solo di far curriculum, ormai ha rinunciato addirittura alle prospettive di un reddito e spera che questa roba faccia curriculum.

 
* A cura di Maria C. Mancuso
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