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palermograd

Gli anni trenta prossimi venturi

di Annibale C. Raineri

1438088836 dedoSu il manifesto di mercoledì 30 settembre 2015 è uscito un intervento di Franco Bifo Berardi che consiglio. Pur non condividendone le conclusioni, penso che l’articolo di Bifo eviti di alimentare la nebbia con cui gli “intellettuali ed i politici di ciò che ancora si chiama sinistra” coprono l’evidenza. Ne riprendo alcuni elementi, riscrivendoli nel mio universo concettuale, sapendo di operare delle forzature.
 
1. La morte della sinistra era già stata certificata da Luigi Pintor nel suo testamento politico (l’ultimo editoriale su il manifesto, Senza confini, del 17 maggio 2003, che consiglio di imparare a memoria). È la premessa per cominciare a ragionare. Non si tratta di rinnegare una storia ricchissima di grandiose tensioni etiche, né di cancellare una ricchezza enorme di riflessioni teoriche (concetti e analisi storiche). Si tratta semplicemente di prendere atto di una fine. Punto. (Altra cosa è la lucida, ma difficilissima, analisi sul perché questa fine si è prodotta).
 
2. La prima operazione (preliminare) che Bifo consiglia è quella di una radicale pulizia linguistica. Elementare atto di verità, senza il quale è impossibile vedere il mondo, ché il vedere passa sempre per l’insieme dei significanti con cui le immagini vengono strutturate. Prendere atto che a certe parole non corrisponde nulla è preliminare al parlare di qualcosa, anziché di nulla (o meglio «al parlare in modo nascosto della postazione che vogliamo continuare a garantirci nel nostro piccolo mondo»). Bifo si riferisce alla parola «democrazia», ma altre se ne potrebbero aggiungere.
 
3. La seconda operazione, altrettanto necessaria, è il riconoscimento della nostra impotenza. Anche questo è un atto elementare di verità. Essa non prelude all’accettazione dello status quo, al contrario, è la conditio sine qua non per identificare l’orizzonte temporale del nostro agire: solo riconoscendo questa evidenza possiamo comprendere nel profondo come si tratta di disporsi per i tempi lunghissimi di una trasformazione di civiltà. Chi vuole continuare a far finta di agire si accomodi pure, nel teatro immaginario della politica.
 
4. Il centro dell’intervento di Bifo mi sembra che sia una previsione di fase. Cito:

«Possiamo prevedere che nei prossimi anni l’Unione europea, ormai entrata in una situazione di scollamento politico, di odi incrociati, di predazione coloniale, finirà nel peggiore dei modi: a destra. Possiamo dirlo una buona volta che la sola forza capace di abbattere la dittatura finanziaria europea è la destra? Dovremmo dirlo perché è quello che sta già accadendo, e le conseguenze saranno violente, sanguinose, catastrofiche dal punto di vista sociale e dal punto di vista umano. Dobbiamo allora smettere i giochi già giocati cento volte per metterci in ascolto dell’onda che arriva.» Dopo la previsione di una recessione globale e della impossibilità di una ulteriore crescita, conclude questa parte centrale scrivendo: «La decrescita non è una strategia, un progetto: essa è ormai nei fatti (anche qui si tratterebbe anzitutto di una presa d’atto, A.R.), nelle cifre e negli umori. E si traduce in un’aggressione sistematica contro il salario, e contro le condizioni di vita delle popolazioni. E si traduce in una guerra civile planetaria che solo Francesco I ha avuto il coraggio di chiamare col suo nome: guerra mondiale» (sottolineature mie, A.R.)

Non entro nel merito dell’analisi economica presupposta da queste asserzioni. Ne sottolineo una possibile intelaiatura teorica: il clima che stiamo vivendo non può non riportarci alla mente l’Europa degli anni trenta, anticipati in Italia: la crisi del capitalismo liberale, combinata con la sconfitta dei tentativi rivoluzionari, determina l’avvento dei regimi totalitari e la tendenza alla guerra mondiale. Come non sentirsi in un clima analogo? Ma la natura di quei regimi, cioè la natura della risposta che le società hanno dato in quegli anni alla impossibilità del capitalismo di governare la società, non può essere iscritta in una variante del modo di produzione capitalistico[1], non è un caso che la sottomissione del mondo della finanza è stato ed è rimasto uno degli obbiettivi che i movimenti fascisti e nazisti si sono dati nella fase di ascesa al potere. Il dispotismo assoluto di quei regimi, cioè la totale sottomissione della società ad una direzione politico-statuale, seppure ottenuta con vari compromessi con gruppi sociali borghesi, è stata la risposta alla crisi, economica e di integrazione sociale, prodotta dal capitalismo ancor più sotto la «dittatura della finanza». Allora come oggi, venuta meno la speranza di un cambiamento radicale della società, l’unico modo in cui può ristabilirsi una forma di integrazione sociale che fronteggi l’anarchia del dispotismo del capitale finanziario è il riaffermarsi del dispotismo del potere politico-statuale. Ma, in presenza della totale distruzione delle organizzazioni sociali del movimento operaio e di una cultura solidaristica, tale dispotismo tendenzialmente assume nuovamente la forma di un potere assoluto delle destre razziste, neonaziste, fondamentaliste (anche nelle forme soft della democrazia autoritaria). Questa tendenza alla riaffermazione di sovranità statuali caratterizzate da culture fortemente reazionarie si connette, per sua logica immanente, alla tendenza alla guerra. Non ci torno.
 
5. L’ulteriore cosa da fare, scrive Berardi Bifo, è «immaginare. Immaginare una via d’uscita dall’inferno partendo dal punto centrale su cui l’inferno poggia: la superstizione che si chiama crescita, la superstizione che si chiama lavoro salariato». Sottolineo anzitutto l’importanza dell’immaginazione se, come credo anch’io, non sono praticabili (ormai?) le vie fin qui seguite (non lo sono sia per il livello globale imposto dalla vittoria conseguita dal capitale sia per il possibile intreccio fra la forma capitalistica delle relazioni sociali ed il dispotismo statuale tendenzialmente totalitario  a partire dal novecento). Immaginare, a partire dal liberarsi delle due “superstizioni”. Ma anzitutto provando a interrogarsi su queste “superstizioni”, ricostruendone la genealogia nella torsione che la civiltà borghese (cioè la impronta data ad essa dalla dinamica del soggetto-capitale) ha imposto alla modernità nata nel Rinascimento. Non mi soffermo sulla tendenza allo “sviluppo senza-misura” (privo-di-misura è la definizione che Marx dà del capitale nel cap.4 del suo Capitale), né sulla medesima origine del fatto che il lavoro si dia unicamente nella forma del lavoro salariato[2]. I limiti “fisici” dello sviluppo (ma c’è in questo discorso sulla crescita una sovrapposizione fra valore d’uso e valore) e l’aumento della produttività su base tecnologica, fanno pensare a Bifo che la sinistra, seguendo la prospettiva borghese, dico io, dei governi ha finito per cacciare i lavoratori in un vicolo cieco, invece che proporre l’unica cosa possibile: «la riduzione drastica e generalizzata del tempo di lavoro». Condivido la critica alla politica della sinistra del tutto subalterna all’universo culturale borghese, e condivido la tesi che lo sviluppo tecnologico così straordinario rende sempre meno sensato considerare il lavoro come fonte del valore, rendendo sempre meno sensato il mantenimento universale della forma salariata del lavoro (cioè il suo essere erogato solo all’interno del sistema di scambio mercantile), ma domando: questo fatto implica per ciò stesso la riduzione massiccia del lavoro come tale, o piuttosto non può implicare la necessità, per tutta una epoca, di una sua erogazione in altra forma (naturalmente combinata con quella capitalistica, e anche con quella statuale)? Il discorso di Bifo non guarda unicamente alle aree sviluppate delle ricche metropoli? che spazio vi occupa la Terra ed il lavoro ad essa connesso? Anzitutto per la maggior parte delle aree del pianeta e delle sue popolazioni, ma anche per tantissime aree del nostro “mondo ricco”.
 
6. E intanto cosa fare? Stare a guardare «visto che nulla possiamo fare. Guardare cosa? La catastrofe che è ormai in corso e che nessuno può fermare (…) Sono processi scritti nella materiale composizione del presente, e nel rapporto di forza tra le classi. Ma naturalmente non si può stare a guardare, perché si tratta anche di sopravvivere. Ecco un progetto straordinariamente importante: sopravvivere collettivamente, sobriamente, ai margini, in attesa» Tralascio l’idea che si possa fare del sapere la leva del cambiamento e sottolineo l’importanza della centralità del sopravvivere. Anzitutto sopravvivere. Anzitutto vivere. Ecco il punto: sopravvivere anche col lavoro (della terra) provando a riconnetterlo a forme di vita, e quindi separandolo dalla schiavitù della merce (separare lavoro e salario), ma pur sempre lavoro, e non ozio, contemplazione (cose necessarie anch’esse), integrare, dare un senso al vivere lavorando e al lavorare vivendo. Costruire cioè comunità come nuove forme di vita, che condividono possesso di beni e lavoro comune, tempi ordinari e tempi della festa. Ci sono tantissime esperienze nel mondo che crescono in questa direzione, piccole e grandi. Rinascono, qualcosa è in movimento. Non si tratta di modelli, né credo che la trasformazione sociale può avvenire per contagio (ci vorrà una rivoluzione per rompere certi poteri, credo, ma quando??). Sono però i segni di un altro modo di vivere, la testimonianza che oltre la catastrofe c’è dell’Altro nella vita e nel mondo. Solo questa testimonianza, la presenza di questi segni può far nascere la speranza e allentare il senso di impotenza che paralizza i cuori migliori. Generare una nuova cultura, un universo di senso. Poi si vedrà.

Solo per questa via può riformarsi una capacità di vivere il noi, il legame comune. Far crescere nella vita reale il sentimento di solidarietà, ecco cosa soltanto può sciogliere l’identificazione a massa su cui si regge ogni dispotismo totalitario (razzista, neo-fascista, genericamente di destra, demo-autoritario, fondamentalista, ma anche neo-stalinista, variamente populista di destra o di sinistra)[3].

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Note
[1] va presa estremamente sul serio l’origine socialista del fascismo italiano e il nome di «nazionalsocialismo». Il tema è quello del modo di produzione statuale, confrontandosi con le sue teorizzazioni in Henri Lefebvre, Mario Mineo, Luigi Cavallaro. Nell’analisi storica, inoltre, occorre saper distinguere il piano sociologico delle dinamiche delle classi dal piano strutturale.
[2] sulla natura borghese della ideologia lavorista rimando alla marxiana Critica al programma di Gotha e alla lettura che ne fa Walter Benjamin nella tesi n.11 delle sue Tesi di filosofia della storia
[3] Su solidarietà e massa dei regimi fascisti sono illuminanti le pagine di Walter Benjamin in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in particolare il cap. XII della seconda versione tedesca e la nota 17

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