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lavoro culturale

Per una prassi cosmopolita del patrimonio culturale

Alcuni appunti sulla visita di Rouhani

di Enrico Gullo

a Stefania

Mimmo Jodice Demetra 768x755L’istituzione museale, nell’epoca della riproducibilità tecnica, non espone al suo interno nulla che non sia noto. È finalizzata alla conservazione e alla fruizione di una parte del patrimonio storico del territorio cui appartiene, ma quel patrimonio – almeno nei suoi elementi reputati fondamentali – è già riprodotto, divulgato, diffuso: le sue images percorrono lo spazio mediale e anticipano la fruizione materiale dell’opera. Gadget, merchandising, pubblicità: l’estetico diffuso – che trovi il suo punto di emissione nel Museo o in altri punti della rete di produzione estetica globalizzata – usa continuamente le immagini del passato (quante borse con la stampa della Gioconda abbiamo visto nella nostra vita? Quante volte abbiamo visto usata la Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer?); e se non è noto allo Straniero, all’Altro, è almeno noto – o gli è facilmente reperibile l’informazione – al cittadino occidentale, all’abitante del territorio; a maggior ragione se si tratta di una figura istituzionale o di rappresentanza.

Si spiega facilmente: il discorso mediale pubblico è completamente permeato dalle immagini del passato, cui in particolare l’Occidente dedica cure e sforzi nel tentativo di trovar loro una collocazione; in quella che si è pretesa essere l’era della fine delle grandi narrazioni (era che ormai volge al termine), l’Occidente continua a non poter fare a meno della Storia. Possiamo dire con serenità che era impossibile non essere a conoscenza della presenza di nudi che avrebbero potuto “offendere gli ospiti islamici”. I Musei Capitolini contengono la romanità antica per eccellenza. Si spiega però anche la goffa misura adottata come mediazione: era impensabile che figure di nudo – storicizzato e “artisticizzato” – potessero offendere qualcuno. In questa contraddizione si situa il punctum del nostro discorso. Si tratta, però, di un nodo più delicato di quanto immaginiamo. In un volume collettaneo uscito nel 2014, dal titolo Genealogie del presente. Lessico politico per tempi interessanti (Mimesis), i curatori invitavano, con Hannah Arendt, a «pensare senza ringhiera». Toccherà prendere sul serio questo ammonimento nell’affrontare la contraddizione: significherà, nello specifico, cercare una strada – al di là del bene e del male – che possa restituire uno sguardo trasformativo passando attraverso le differenti posizioni in campo – di governo e di opposizione.

La scelta dei Musei Capitolini è evidente: luogo simbolico del potere romano e, contemporaneamente, rievocazione spettrale dell’imperialità romano-antica. Luogo cardine, anche, di preservazione e fruizione della Bellezza, naturalmente. C’è un’ammissione implicita, però, che è sottesa in questa scelta: imperiale è universale, anche per via dell’uso che la storia dell’Occidente ha fatto dell’idea dell’Impero. Di lì la contraddizione: è impossibile immaginare che l’Altro non sia coinvolto nel nostro stesso rapimento estetico, nella nostra identità storica. È su questo generale atteggiamento, però, che il nostro approccio al patrimonio culturale rivela tutte le affinità con gli altri snodi della mediazione culturale che mettiamo in campo. Hollande ha rifiutato alla delegazione iraniana il menu halal e la rimozione del vino a tavola. Questo atteggiamento rivela molto più di una testardaggine individuale: ha un retroterra discorsivo nel rifiuto di mettere in discussione il sistema di accoglienza e organizzazione dei flussi migratori; non è diverso dal rifiuto del cambio di linea editoriale da parte di Charlie Hebdo dopo l’attentato di gennaio 2015, né dalla disputa sull’obbligo di non portare il velo. La Laicità è in Francia norma e imperativo: ha la “L” maiuscola di un principio universale e non la “l” minuscola di uno strumento di composizione, lingua pivot delle differenze culturali. Da questo punto di vista, la scelta italiana si colloca in una regione mediana. Tra il rifiuto del riconoscimento e la piena volontà interlocutoria, ha trovato un’alternativa goffa: coprire ciò che è noto essere nel luogo, non si sa se su richiesta dell’entourage iraniano o per eccesso di scrupolo. Tanto basti: i Musei Capitolini sono diventati per qualche ora un luogo di hide-and-seek in cui tutto è contemporaneamente visibile e nascosto. Un “segreto di Pulcinella” che agisce per sottrazione anziché per produzione.

La scelta di Hollande è chiara: contrappositiva e tutta d’un pezzo. Manifesta ancora la volontà di sottolineare il dominio occidentale sul “resto del mondo”, quando il “resto del mondo” si appresta a contendergli il dominio. Laico quanto garbato rifiuto della mediazione culturale: vale il principio di reciprocità. La scelta italiana è, se vogliamo, più arretrata e più avanzata allo stesso tempo, nel riflettere le dinamiche pudiche di un politicamente corretto che ha smesso di funzionare con l’Inizio-della-Fine-della-Fine-della-Storia, e al tempo stesso continuando a vedere la necessità – urgente più che mai, di un dialogo con l’ancora non abbastanza conosciuto Oriente. È interlocutoria esclusivamente nella misura in cui occulta il problema della mediazione culturale, è efficace soltanto nel condurre la trattativa economica parallelamente alla comunicazione interculturale. È interessante, invece, notare come Rouhani abbia evitato ogni polemica, dicendosi soddisfatto dell’accoglienza italiana. L’Italia, paese di bellezze e di ospitalità. Avrebbe potuto dirlo un ospite anglosassone. Nel frattempo, né Renzi né Franceschini si sono detti responsabili. Altro elemento caratterizzante: non c’è cultura “nazionale” integra, in Italia, le scelte si continuano a fare per via “tecnica” (dove in Francia, invece, la politica istituzionale continua a essere fondamentale cinghia di trasmissione, per quanto operi con strumenti “tecnici”).

Il principio di reciprocità fatto valere da Hollande e richiamato a gran voce in Italia si può sintetizzare così: loro impiccano gli omosessuali e lapidano le donne, hanno un problema enorme coi diritti umani; ci impongono i loro costumi quando andiamo in visita. Si adeguino e facciano altrettanto, rispettando le nostre tradizioni. Principio, in astratto, corretto e sensato, apparentemente paritario ed empowering. Dove la scelta italiana è invece contraddistinta da pietismo paternale, timido e spaurito. In nessuno dei due casi, però, si vince la battaglia. Andrà notato, dall’altro versante, che nella visita di Rouhani non sono messi in questione i costumi italiani in generale, ma soltanto nell’incontro di delegazioni; non ogni museo italiano è stato improvvisamente popolato da panelli-foglie-di-fico, ma soltanto il luogo dell’incontro – e presumibilmente per scelta italiana. Si può scegliere di interrompere i rapporti economici con paesi che ci sembrano tanto violenti e irrispettosi – nei nostri confronti quanto nei confronti della propria popolazione. Né può valere soltanto l’appello a ricordare il passato coloniale dell’Occidente: è il qui-e-ora che pretende risposte. Quel passato, però, ci può dare un’indicazione politicamente utile: dove la democrazia e l’illuminismo occidentali sono stati imposti con la forza, dall’alto e dall’esterno; dove si è voluto prendere parola al posto dei soggetti discriminati, violentati, uccisi; in questi casi, l’esito è stato opposto. Si sono prodotte storture, radicalizzazioni antidemocratiche, destabilizzazioni.

L’altra indicazione di metodo ci viene dal presente. A Calais, nei giorni scorsi, diverse attiviste e attivisti – europei ed extraeuropei – sono stati caricate e arrestate nel corso di una manifestazione per l’abbattimento di ogni frontiera; negli Stati Uniti persiste la pressione biopolitica sulla popolazione nera americana, cui #BlackLivesMatter continua a rispondere. Da prassi europea, la violenza viene il più possibile trattenuta prima del limite della morte, i margini di trattativa sono più ampi; negli Stati Uniti, tanto il dispositivo è governamentale da essersi reso indipendente da responsabilità di Stato. Nessuno si sognerebbe per questo di interrompere rapporti diplomatici con questi paesi. Né si tratta di paragonare la violenza di Stato iraniana con quella dei paesi occidentali. D’altro canto, “la tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di emergenza” in cui viviamo è la regola” (Walter Benjamin, Tesi di Filosofia della Storia, 8). Si tratta solo di ribadire il principio per il quale sono i soggetti in lotta sul territorio a ridefinire i termini delle politiche interne. Passato e presente si saldano in questa riaffermazione. Nel corso della scrittura di questo articolo, peraltro, alcuni eventi su cui sarebbe opportuno riflettere si sono verificati: le Femen hanno inscenato un’impiccagione pubblica in occasione del nuovo passaggio di Rouhani; un gruppo inglese chiamato Lesbians and Gays Support the Migrants ha compiuto un’azione contestando la decisione del governo danese di dare disposizione alla polizia di perquisire i migranti e sequestrarne gli averi; infine, una polemica si è scatenata nei social media iraniani, manifestando un’opposizione alla scelta del governo italiano. Sarebbe opportuno riflettere perché rispondono materialmente e manifestano esattamente il nodo problematico di “chi prende parola” a proposito di una questione politica.

Ho citato, en passant, le Tesi di Filosofia della Storia di Walter Benjamin. Vale la pena tornare rievocare alcuni passaggi fondamentali, che possono esserci utili oggi a ridefinire una prassi del patrimonio culturale dinamica e a non cadere in tentazioni identitarie. Penso a questo passo della tesi numero 6, per esempio:

Articolare storicamente il passato […] significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo. […] Il pericolo sovrasta tanto il patrimonio della tradizione quanto coloro che lo ricevono. Esso è lo stesso per entrambi: di ridursi a strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla.

Nella tesi 7:

Chiunque ha riportato fino ad oggi la vittoria, partecipa al corteo trionfale in cui i dominatori di oggi passano sopra quelli che oggi giacciono a terra. La preda, come si è sempre usato, è trascinata nel trionfo. Essa è designata con l’espressione “patrimonio culturale”. Esso dovrà avere, nel materialista storico, un osservatore distaccato. Poiché tutto il patrimonio culturale che egli abbraccia con lo sguardo ha immancabilmente un’origine a cui non può pensare senza orrore.

Il tema, in questi passi, è la non neutralità e la non universalità del patrimonio culturale. Bisogna costruire una storia dell’arte all’altezza di questo problema, e una prassi del patrimonio culturale conseguente. Probabilmente, è sempre nella Tesi 7 di Benjamin che si trova una chiave per accedere a soluzioni possibili: «Fustel de Coulanges raccomanda allo storico che voglia rivivere un’epoca di cacciarsi di mente tutto ciò che sa del corso successivo della storia. Non si potrebbe definire meglio il procedimento con cui il materialismo storico ha rotto i ponti. È un procedimento di immedesimazione». Immedesimazione nel vincitore, ovviamente. Nel caso specifico, nell’Impero Romano.

È nello spazio angusto della contemporaneità, l’istante che “ammette una sola azione mentre il resto delle possibilità giace irrealizzato” (George Kubler, La forma del tempo), che si articola il problema della persistenza del passato, ed è in quella contemporaneità che si può trovare una soluzione e un terreno di comunicazione, nella speranza e nel tentativo che questa apra a processi di trasformazione che modifichino la condizione presente – in Europa come in Medio Oriente. Permettere la circolazione delle idee in una lingua comune che non può essere decisa unilateralmente, col preteso universalismo del passato “occidentale” o con l’imposizione teologica del passato “orientale”. Partendo da questo punto si possono offrire degli spunti di soluzione che coinvolgano una storia dell’arte e una prassi del patrimonio all’altezza dei problemi posti. Una storia dell’arte cosmopolita deve porsi il problema della rimozione del proprio universalismo. Ciò che è accaduto nella storia le prescrive di smettere di pensarsi come universale. Così come ci è incomprensibile l’aniconismo tendenziale dell’arte musulmana, bisogna pensare l’iconismo tendenziale della tradizione occidentale come un lessico opaco, una lingua incomprensibile (anche al netto del fatto che non bisogna dimenticare come sia l’Oriente, sia l’Occidente non sono compatti monoliti, e secoli di stratificazione storica hanno prodotto manifestazioni artistiche diverse in tempi diversi – anche all’interno di territori apparentabili). Probabilmente, bisogna riservare al terreno della storicizzazione l’arte dei vincitori del passato: è una delle misure che si possono adottare per arginare i tentativi di immedesimazione. Allo stesso tempo, una storia dell’arte a quest’altezza dev’essere presente e vigile nei processi di mediazione culturale. Perché questo accada, servono professionisti e non dilettantismo. Questi professionisti vanno pagati. La precarietà e lo sfruttamento non aiutano la ricerca di soluzioni adeguate. Questi problemi sono d’interesse degli sfruttati come dei governanti: mettono in luce il carattere progressivo delle rivendicazioni degli sfruttati, la centralità delle lotte nelle trasformazioni storiche complessive.

La prassi del patrimonio che ne consegue, dunque, vede il protagonismo dei professionisti dei beni culturali e la partecipazione pubblica a questa revisione collettiva del ruolo della storia dell’arte – perché il ruolo dei professionisti non può essere quello di riprodurre una dinamica elitaria e di casta, ma quello di mettere le proprie competenze a disposizione di un discorso pubblico al quale contribuisce anche il resto della popolazione (non necessariamente europea o occidentale). Allo stesso tempo, questa prassi cosmopolita deve individuare spazi d’incontro e mediazione. Qual è il luogo in cui si incontrano “Oriente” e “Occidente”, ponendosi un set di problemi comuni (il che non vuol dire che questo set escluda la conflittualità reciproca)? Kubler: «l’attualità è l’occhio della bufera». È in quella bufera che deve collocarsi un’altra prassi del patrimonio culturale – prassi non storicistica ma genealogica, non necessaria ma strategica. A questo proposito, una provocazione può essere utile – e trasformarsi forse in proposta. È davvero l’Impero Romano a rappresentare compiutamente il carattere dell’italianità contemporanea? Dobbiamo avere davvero una stima particolarmente bassa dell’arte contemporanea per reputare che non sia questa, ma l’arte del passato, a determinare un possibile punto d’incontro. La contemporaneità ha potuto confrontarsi coi problemi in campo: possa essere lei – se davvero dev’essere un museo ad accogliere un incontro diplomatico – a creare il luogo linguistico in cui ci si comprende – e si confligge anche, comprendendosi. Di lì può partire un eventuale processo di comprensione delle tradizioni reciproche. Di lì, per i subalterni, si riaprono le possibilità di riappropriarsi di tradizioni da sottrarre al gioco delle classi dominanti. Che questo succeda è anche per il bene dei dominanti – per sgominare il pericolo dell’emergenza di specie cui ci stiamo esponendo.

«Fare critica militante significa, almeno in parte, scrivere nei giornali e nei settimanali politici, e proprio perché sono tali e perché facendo critica si fa politica anche senza volerlo (ma Venturi voleva ed io pure)». (Giulio Carlo Argan, dalla Prefazione a Occasioni di critica, Editori Riuniti, Roma 1981).

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