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“Il lavoro non è l’essenza dell’essere umano”

Marina Zenobio intervista Kathi Weeks

The Problem with Work, della politologa femminista Kathi Weeks. Chi ha detto che il lavoro debba essere al centro della nostra esistenza?

images2Erano gli anni ’30 del secolo scorso quando Keynes predisse che grazie all’incremento della produttività e all’ingresso della donna nella forza lavoro, la generazione dei suoi nipoti avrebbero lavorato non più di 15 ore a settimana. Sono passate tre generazioni, lavoriamo più di prima e la sinistra ha ormai abbandonato quasi del tutto la lotta per la riduzione della giornata lavorativa, una lotta che la politologa e femminista Kathi Weeks, ispirata da testi diversi tra cui Resistance In Practice The Philosophy of Antonio Negri, rivendica nel suo saggio The Problem with Work: Feminism, Marxism, Antiwork Politics, and Postwork Imaginaries (John Hope Franklin Center Book, 2011, pp.304). In una recente intervista rilasciata a CTXT.es-Contexto y Accion, Kathi Weeks espone il suo pensiero sul potere delle “rivendicazioni utopiche” e spiega perché, secondo l’autrice, dovremmo concentrarci sul lavorare meno ore e sul creare condizioni per immaginare un mondo fuori dal lavoro. Popoff vi propone uno stralcio dell’intervista.

* * *

Come definirebbe il concetto di lavoro?

Il lavoro è una attività produttiva basata sul modello del lavoro salariato. Se si chiede ad una qualsiasi persona che lavoro faccia, dedurrebbe che ci si riferisca esclusivamente al lavoro remunerato. Nel corso della storia sono state combattute molte lotte su cosa dovrebbe essere considerato lavoro, penso alla lotta femminista per il riconoscimento del lavoro domestico come lavoro reale anche se non pagato.

 

Il suo testo è in parte è una critica all’approccio “produttivista” tradizionale della sinistra. Ma di quale tradizione di tratta?

C’è stata una tendenza generale ad accettare l’idea che il lavoro sia una sorta di sacro sforzo umano. Così come ci sono anche discorsi femministi molto consolidati nel sostenere per le donne le pari opportunità nel lavoro salariato, argomentando che questo rappresenta il biglietto d’uscita dal lavoro domestico imposto culturalmente. A sinistra, in generale, c’è stata un’enfasi socialdemocratica sui programmi per il lavoro, su come introdurre le persone su un posto di lavoro e il loro empowerment come lavoratori.

 

Cosa suggerisce per contrarrestare questa tradizione “produttivista”?

Ciò di cui c’è bisogno è di un assalto frontale alla cultura e alle istituzioni del lavoro, alle sue ideologie e strutture. E non credo che i discorsi di cui sopra abbiano questa capacità perché condividono gli stessi valori, percezioni e supposizioni. In questi tempi in cui il lavoro è sempre meno e il sistema di distribuzione del reddito sta cadendo a pezzi, penso che sia il momento di scatenarsi contro questo concetto e le ideologie che lo sostengono, che cantano le lodi del lavoro come fosse l’attività più umana e importante di qualsiasi altra.

 

Scrive anche dell’ “effetto disciplinare” del lavoro. Quanto è importante nella nostra cultura?

E’ cruciale, è ciò in cui si è trasformato il lavoro. Il sistema economico sta funzionando molto bene come modo di produzione del capitale, ma non come forma di distribuzione del reddito. E’ tuttavia utile per disciplinare le persone e per caricare di responsabilità coloro che sono esclusi dal lavoro per la loro mancanza di sforzo o di iniziativa.

 

Che significa etica del lavoro?

Difficile separare strutture e ideologie. Ci sono molti elementi che ci obbligano a lavorare, la necessità di pagare l’affitto e il mangiare in primis, argomenti rafforzati dal un patrimonio culturale e ideologico che presentano il lavoro come principale obbligo dell’essere umano e come un’inappellabile esigenza morale. Operano in tandem.

 

Molti nella sinistra considerano che non è il lavoro ad alienare ma le condizioni in cui lo stesso si sviluppa, o la mancanza di democrazia al momento di prendere le decisioni che riguardano il lavoro. Che ne pensa?

Questa continua ad essere la tradizione che pretende di eliminare le categorie sfruttamento e alienazione del lavoro salariato all’interno del capitalismo. Io direi che sono d’accordo, ma c’è molto di più da fare. Dobbiamo cambiare lo spazio che occupa il lavoro salariato nelle nostre vite e nel nostro immaginario collettivo. Non vogliamo solo lavorare meglio, vogliamo lavorare meno. E questa posizioni è difficilmente compatibile con quella che dice “ma se il lavoro fosse meraviglioso vorremmo farlo ogni momento”. […] D’altra parte la promessa di un lavoro soddisfacente e non alienante a cui tutti vorremmo dedicarci ogni momento è ciò che alcune company, come Google, pretendono di offrire in modo ingannevole ai propri impiegati. Hanno avuto successo nel farlo proprio per l’ideologia del lavoro e la nostra mancanza di tempo e immaginazione per coltivare una vita ricca fuori dal lavoro e dal suo satellite, la famiglia. […] Il lavoro e la famiglia fanno parte dello stesso sistema. Non sono alternativi. Il primo organizza un certo tipo di lavoro e la seconda, normalmente per la divisione dei compiti basati sul genere, organizza un altro tipo di lavoro. Il lavoro può essere importante, la famiglia anche, ma sono parte dello stesso sistema e dovremmo pensare alla possibilità di generare alternative a questi due tipi di istituzioni.

 

Stiamo vivendo in un’epoca con alti livelli di disoccupazione. Molte persone sono alla ricerca disperata di lavoro. Contemporaneamente abbiamo un problema di saturazione del lavoro, lavoriamo di più e più ore anche quando la produttività sale. Come valuta queste tendenze apparentemente contraddittorie?

Per alcuni analisti marxisti i disoccupati e i sovrasfruttati non avrebbero nulla in comune. In molti abbiamo problemi con il lavoro, quelli che lavorano troppo e quelli che non riescono a trovare lavoro. E’ una opportunità per farsi più domande sul sistema di lavoro salariato come modello sociale di inclusione e di distribuzione del reddito. Perché non solo non funziona per i disoccupati ma anche per tante altre persone.

 

Nel suo saggio fa riferimento al movimento dell’Autonomia Operaia italiana degli anni ’70 e la sua critica al lavoro articolata come rifiuto del lavoro. In che consiste e perché sarebbe ancora oggi rilevante?

Il rifiuto di lavoro non era inteso come una prescrizione individuale – molti di noi non possono permettersi di rifiutare il lavoro, non c’è un’alternativa– ma come un progetto collettivo. Consiste nel riconoscere che rifiutiamo il lavoro ogni giorni, con piccoli gesti, come arrivare tardi al lavoro, mettersi in malattia… ma anche come un progetto politico che dice “no” a questo sistema di lavoro.

 

Sempre negli anni ’70 il movimento internazionale Wages for Housework rivendicava il salario per il lavoro domestico…

Fecero del rifiuto del lavoro qualcosa di ancor più rilevante, anche se più difficile, associato ad una richiesta concreta: “vogliamo salario per il lavoro domestico”. E’ stato molto istruttivo e pertinente, si cercava di demistificare e detronizzare l’idea di amore assoluto delle donne verso le proprie famiglie dicendo “guarda, questo è vero lavoro” e, allo stesso tempo, “è solo lavoro”. Rappresentava una critica all’istituzione della famiglia, della divisione del lavoro in base al genere. Era una provocazione, per dire che il processo di richiedere un salario per i lavori domestici era in sé un’attività politica di valore. All’epoca, negli anni ’70, la reazione alla richiesta “salario per il lavoro domestico” era “Che cosa?”. E’ stato inteso come ciò che io chiamo una rivendicazione utopica.

 

Rivendicazione utopica… se “rivendicazione” suona come qualcosa di concreto, “utopica” ha quasi una connotazione opposta. Dov’è la connessione?

Alcune delle rivendicazioni che mi interessano non sono solo riforme che possono migliorare la vita delle persone e che si potrebbero raggiungere, sono anche riforme che possono, nel processo di lotta e dibattito, aprire nuovi orizzonti per pensare, desiderare e immaginare il mondo in cui vorremmo vivere. Per esempio, la rivendicazione di giornate lavorative più corte sono una forma per creare più posti di lavoro, una forma per dare alle persone il tempo di realizzare altre attività produttive fuori dallo spazio del lavoro salariato. Contemporaneamente questo processo rivendicativo stimola le persone a chiedersi “che farei se avessi più tempo?”. Non è difficile capire perché qualcuno chieda un aumento di denaro. Per capire invece perché è ragionevole chiedere il reddito di base garantito o una giornata di sei ore bisogna fare uno sforzo più grande: determinare ciò che non funziona nel sistema attuale implica una critica ancora più profonda. Pertanto, quanto più è utopica la rivendicazione tanto più è basata su una critica sostanziale, e più ci obbliga a pensare con immaginazione sulle forme differenti di organizzarla. Il rivendicare ha molto a che vedere con l’arte. […] Ho scelto queste due rivendicazioni – reddito di cittadinanza e riduzione della giornata lavorativa – perché ci obbligano ad immaginare una vita fuori dal lavoro. Suppone una grande sfida all’idea che il lavoro debba essere al centro della nostra esistenza. La rivendicazione di un reddito di base aiuta a comprendere che il sistema del lavoro salariato non funziona. Avere salari più alti aiuterebbe la gente che può avere un lavoro, ma c’è molta gente che non ha questa possibilità e molte delle nostre attività, che sono senza dubbio utili e produttive, non sono remunerate. Siamo in una situazione di crescita senza lavoro (jobless recovery). E’ chiaro che il sistema non sta funzionando.

 

Uno degli argomenti contro il reddito di base universale è che possa portare portare la società a progredire meno. Dissociare il lavoro dal reddito può portare ad una stagnazione della produttività e ad una società che non progredisce?

E’ interessante che ci sono due linee di critica dominante al reddito garantito: una è “La gente ha bisogno di lavorare, siamo lavoratori”, se gli togli il lavoro la si priverebbe di qualcosa di essenzialmente umano. D’altro lato c’è la paura che “Nessuno lavorerà mai più”, che suppone il riconoscere che l’unica ragione per cui uno lavora è perché c’è un incentivo monetario, che la necessità è l’unica cosa che spinge la gente a lavorare. E’ divertente che queste due critiche, completamente divergenti e nessuna delle due sufficientemente convincente, convivano. Non credo che il lavoro sia né il tutto né l’essenza di ciò che significa essere umano. Possiamo capire altri modi di stare al mondo e relazionarci con altri e con l’ambiente al di là di quello lavorativo. Ma sicuramente, anche godendo di un reddito di base garantito e sufficiente la gente vorrà anche un lavoro remunerato. Si tratta di un complemento al lavoro salariato, quindi non è una rivendicazione rivoluzionaria, ma riformista e utopica.

 

Quando e se si arriverà al reddito di base universale e alla riduzione della giornata lavorativa, cosa pensa accadrà?

Non gioco a questo gioco. Quello che provo a fare è stimolare le persone a pensare a ciò che farebbero e perché si resiste a ciò. Posso pensare che io starei meglio creando arte e facendo politica, ma non tutti la pensano come me. Credo ci sia paura a perdere ciò che significa essere umano – ciò che offre la percezione di come la cultura ci ha costruiti come umani – o di un collasso sociale massivo tradotto in forme di scontri, per esempio. Ci immaginiamo una sorta di masse indisciplinate perché pensiamo al lavoro come l’unico strumento che ci può controllare, o ci immaginiamo persone completamente passive, incapaci di alzarsi dal letto. Penso ci sia una vera paura verso queste due situazioni, una paura profonda ed è illuminante a proposito della posizione che il lavoro occupa nella nostra immaginazione e su ciò che significa essere umano ed entrare in relazione con gli altri.

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