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Happy Diaz, una riflessione non convenzionale su Genova 2001

Adriano Ercolani intervista Massimo Palma

Trentasei anni fa, il 18 maggio 1980, moriva Ian Curtis, cantante dei Joy Division. Il secondo album della band, Closer, è una delle chiavi di un libro pubblicato di recente che muove da un lutto musicale per soffermarsi su un lutto politico. Di seguito un’intervista all’autore di questo libro

closer1 640x420Pochi libri mi hanno colpito negli ultimi anni come Happy Diaz (Arcana) di Massimo Palma, un racconto lucido e non convenzionale della pagina più tragicamente oscena nella storia italiana recente, ovvero le violenze perpetrate dalla polizia su manifestanti inermi durante il G8 di Genova 2001.

Un libro che si fonda su una catena apparentemente arbitraria di connessioni e riferimenti, ma che al termine svela una visione complessa e ragionata, senza dubbio originale, dei nodi politico-culturali collegati a quell’epocale manifestazione di violenza di Stato.

Uno dei pregi della narrazione è quello di non raccontare solo le ultime, infernali 48 ore di mattanza poliziesca, ma di recuperare nel dettaglio l’intero programma di rivendicazioni, incontri, proposte e proteste del movimento sbrigativamente etichettato “no global”, analizzato per ciascun giorno della settimana.

Questa chiave narrativa consente al libro di non incancrenirsi nel livore dei toni di denuncia (comunque forte e circostanziata), ma di aprire a due peculiari percorsi sotterranei: la settimana è raccontata da un lato attraverso le canzoni dei gruppi dei gruppi rock di Manchester dedicati ai diversi giorni della settimana (a completare il quadro, tredici illustrazioni di Tuono Pettinato che ritraggono i protagonisti di quella straordinaria stagione musicale); dall’altro attraverso i personaggi del romanzo L’Uomo che fu Giovedi di G.K. Chesterton, amato dal grande studioso hegeliano Kojève.

Una concatenazione di tasselli a un primo sguardo non conciliabili in alcuna combinazione, ma che una volta correttamente disposti rivelano un mosaico sorprendentemente illuminante.

Ne abbiamo parlato con l’autore.

* * *

Com’è nata l’ispirazione per questo libro?

Ho avuto la fortuna di lavorare su questo nodo personale e politico che è diventato Genova 2001 con Daniele Vicari, prima ancora, molto prima, che il progetto diventasse il film Diaz. All’inizio cercavamo persone. E in loro motivazioni, esperienze, fili conduttori per muoversi insieme, fili spezzati. Questo mi ha spinto a seguire molto da vicino sia i processi sia le testimonianze, pubbliche e private, che si sono succedute negli anni. Ma appunto, gli anni passavano e mi sono reso conto che il valore testimoniale non era ciò di cui quella mia ossessione chiamata Genova era alla ricerca, che ci voleva una chiave diversa. Genova è diventato un luogo comune generazionale. Condiviso, e divisivo – nel senso che costringe a schierarsi.

Chiunque abbia una minima attenzione politica, chiunque sia in stato di veglia e non di ipnosi, su Genova deve avere un’idea precisa. Nel senso di sapere a chi vanno attribuite delle responsabilità, a chi dei reati, dei crimini. Cercavo una chiave che mi permettesse di arrivare a qualcosa che ironicamente, ma non troppo, potrei chiamare il “tesoro perduto di Genova”. Ma all’inizio non capivo davvero ciò di cui ero alla ricerca, barcollando tra i video devastanti raccolti dai comitati, o caricati su You Tube, e le mille voci di testimonianza giudiziaria o privata. E qui mi è venuta in soccorso la musica, qualche lettura, qualche coincidenza che andava fatta parlare.

 

Manchester, Genova, Chesterton, Ian Curtis. Delle associazioni non proprio immediate, ma che a lettura conclusa assumono perfettamente senso. Puoi guidarci nel percorso mentale che hai seguito?

L’inizio del percorso è concentrato in un’immagine. Quella celeberrima che campeggia nella copertina di Closer, il secondo album dei Joy Division, un album notissimo e debordante, che rappresenta per chiunque l’ascolti, volente o nolente, un’elegia funebre, perché uscì postumo, nel luglio del 1980, quando Ian Curtis si era già tolto la vita, a 23 anni. Non tutti lo sanno, ma quella copertina in realtà rappresenta una stele funeraria del cimitero di Staglieno a Genova. Ovvero il cimitero dove è sepolto anche Carlo Giuliani.

Due immagini del lutto, uno musicale, uno politico, si sono sovrapposte – mi è parso di vedervi l’inizio di una sorta di “appuntamento segreto tra le generazioni” (che è una nota immagine di Benjamin). Solo che entrambe le generazioni, quella di Curtis, impiantata a Manchester, e quella nostra, genovese, erano rappresentate nel lutto. Peggio, si sentivano rappresentate nel lutto. Lo enfatizzavano. Direi quasi che sembravano empatizzare con l’atmosfera funebre. Eppure, nel caso della musica proveniente da Manchester,sapevo che questo non era vero.

 

Centrale nel libro è Blue Monday New Order. Puoi spiegarci perché?

Appunto, Blue Monday è stato il primo tronco, mezzo fradicio, cui aggrapparmi in un mare di lutto. Perché questa canzone è un primo faccia a faccia col fatto brutale di sopravvivere a qualcuno che andandosene si è portato via anche una parte di te. Blue Monday sono i reduci dei Joy Division, i tre ragazzi che hanno perso l’occasione di sfondare nella musica col moniker (NdC nome/soprannome in slang inglese) che aveva già un seguito di culto, quegli stessi ragazzi che decidono di cambiare nome (lasciamo perdere quanto sia ‘sfortunato’ questo nome), di cambiare veste, di cambiare ritmo. Blue Monday è una canzone che a 33 anni di distanza mantiene intatto il suo ritmo che non è travolgente, non è trascinante, ma è costrittivo, pervasivo, costruisce una sorta di coazione al movimento. Devi muoverti.

Anche se il testo che ascolti non è rassicurante, neanche un po’. Anche se probabilmente parla di lutto esso stesso (e forse proprio del lutto per Ian Curtis). Anche se il titolo rimanda alla malinconia che ti prende a tornare al lavoro dopo il weekend, alla voglia di non andarci, al rifiuto del lavoro. Ecco, Blue Monday gronda di significati contraddittori, tra cui è impossibile scegliere, ma con cui devi confrontarti: bisogna leggerla come un lavoro del lutto, ma in una versione electro-pop invasiva. Algida. È un nuovo inizio. È un durissimo, freddo, ma frenetico ‘Lunedì’ parlante, dopo la stasi.

 

Già nel tuo libro precedente (Berlino Zoo Station), creavi un percorso di riflessione incrociato tra storia, filosofia e cultura pop. Ora, Happy Diaz è molto serio, a tratti commovente, ma a un primo sguardo potrebbe sembrare un giochino intellettuale. Non temevi che in questo caso la reazione poteva essere feroce? 

Direi di no. Penso che chi ha letto, legge o leggerà il libro può rendersi conto non c’è alcun gioco, non c’è nessun tentativo di ridurre un episodio di sofferenza e di grande complessità a castello di carte intellettuale. Tantomeno ho voluto scrivere “Genova e la musica”, o peggio ancora “Genova e la filosofia”. Il sottotitolo non deve trarre in inganno – per questo e per altri motivi. La “formazione musicale” è un’espressione letterale – vuol dire indagare come certi suoni ci hanno plasmato. Anche chi ha ascoltato tutt’altro genere non può negare di riconoscere certi synth della new wave, per non parlare delle sonorità house e techno. Ne siamo imbevuti. Non è un gioco raccontare come certi quadri artistici, certi contesti stilistici ed etici – nel senso dei ‘costumi’ –, certi riferimenti anche solo sonori, ci abbiano messo in forma, ci abbiano condotto nella ricerca di un nostro modo di vita che poi ci portò a contestare quel modello di mondo proposto come unico e trionfante negli yacht genovesi.

Volevo raccontare una generazione mettendola allo specchio con un’altra. So, me lo sento dire anche da pulpiti inaspettati, che questo arriva a chi legge. Volevo questo confronto. E soprattutto volevo svolgerlo ribaltando un assunto che vuole che il lutto sia personale, recintato da barriere invalicabili, quando ci sono lutti che per forza di cose sono politici anche per la loro elaborazione. Volevo vedere se dietro a questo confronto tra due generazioni, due lutti, ci fosse spazio per riportare a galla le istanze più profonde, sia politiche, sia generazionali, di ragazze e ragazzi che a Genova hanno vissuto un battesimo della politica che per una serie di ragioni molto precise è coinciso esattamente con un funerale.

 

Molto interessante la riscoperta di un autore teoricamente distante ideologicamente come Chesterton, il cui romanzo L’Uomo che fu Giovedì diventa una sottotraccia fondamentale nel libro. 

Nonostante l’apparato ideologico cattolico di cui si è fatto promotore, anche prima della conversione ufficiale, a Chesterton nessuno può contestare una penna feroce, stilisticamente tagliente, trascinante, anche verso il basso. L’Uomo che fu Giovedì è stata un’illuminazione: in realtà sono partito da un aforisma di seconda mano su Alexandre Kojève, un hegeliano franco-russo del Novecento (di cui si è persino sospettato fosse una spia di Stalin), che a due suoi allievi disse che se volevano capire cos’è la politica, dovevano leggere L’Uomo che fu Giovedì. Mi sono buttato su questo libro assurdo, in cui un complotto anarchico viene svelato come una trama criminale interamente gestita da poliziotti sotto copertura. Nel nostro paese, questa – che ha anche ascendenze machiavelliche, a volerla nobilitare – è una trama nota, che sprofonda fino a Cossiga ministro degli Interni. Eppure, questa lettura – che ha anche avuto un’eco parziale a Genova – non credo sia sufficiente. Non può esser solo questo il messaggio politico di quel libro dinamitardo, mi dicevo.

Allora ho provato a pensare un’alternativa – forse la politica sono i giorni, è la scansione in giorni, ogni giorno con una sua personalità, un carattere, un tema che lo segna e che espone al lettore nelle sue peripezie. Ed è lì che mi sono accorto che di Genova tutti si ricordano sempre gli ultimi due giorni, quando invece in decine di migliaia a Genova ci sono stati una settimana. Da lì ho capito che bisognava raccontare tutta la settimana, di dibattiti, azioni, cortei, non fermarsi alla narrazione che proponeva scontri scontri e ancora scontri. Ma per farlo non serviva una cronaca, non a 15 anni di distanza. Né un’analisi politica. Di qui la chiave musicale, parlare dei temi del luglio genovese attraverso le parabole dei gruppi che da Manchester, una città che aveva visto la trasformazione da città operaia a città del terziario, demolizioni e ricostruzioni sulla pelle delle persone, avevano raccontato le loro esistenze, indicando qualche direzione d’uscita nel decennio di Thatcher.

 

Spesso si è notata la coincidenza inquietante tra l’inizio delle indagini su Genova e l’11 Settembre. Una data fatalmente disastrosa anche per questa storia in particolare

È vero, purtroppo. Nei primi giorni di settembre del 2001, dopo un’estate di polemiche e rivelazioni a singhiozzo, si stava discutendo la responsabilità politica dei fatti di Genova. Prima ancora che giudiziaria, politica. L’11 settembre, con la catastrofe che ha significato, ha spostato l’attenzione dell’opinione pubblica facendo sembrare Genova un episodio minore, “italiano”. Ma l’errore di prospettiva fu duplice. Da un lato l’accertamento della verità fu delegato, come spesso accade, alle aule giudiziarie, che hanno i loro tempi dilatati e i loro ritmi, anche a livello di ricaduta mediatica. Di responsabilità politiche non si è più parlato. E questo ha permesso una serie di misure legislative che hanno cancellato o reso privi di conseguenze reati, e ha reso possibili promozioni nel ceto di funzionari delle Forze dell’ordine che, alla luce dei fatti (prima ancora delle sentenze, che confermano soltanto quello che ogni testimone e ogni osservatore ha dovuto vedere), sono gravissime. Politicamente gravissime. E un secondo errore fu quello di considerare ‘italiano’ il vulnus di Genova.

Noi italiani ci distinguemmo, per dirla con cinismo, nell’insegnare come si fa in 48 ore a massacrare una generazione che era nata come internazionale, popolata di anime molteplici e che ebbe una maggioranza italiana solo perché quel vertice si teneva a Genova. Ma erano mesi che il movimento aveva una presenza e una capacità d’urto internazionale, massiccia. E invece noi, dopo aver massacrato ragazzi di ogni età e di ogni lingua, abbiamo relegato i fatti a beghe da buvette della Camera.

 

Nel libro evidenzi come i punti programmatici della settimana degli incontri di Genova (per quanto espressi in maniera confusa o ingenua) furono profetici e drammaticamente inascoltati. 

Erano tematiche forti (il precariato, i diritti sociali, quelli civili, il tema del nuovo ordine internazionale nell’era della guerra ‘umanitaria’, la libertà di migrazione, il conflitto, l’informazione dal basso…) – tematiche che oggi sono tutte ancora nell’agenda di qualsiasi governo, fosse anche, come spesso accade, solo per reprimerle. Quelli che sprezzantemente venivano definiti no-global avevano una lucidità che moltissimi che allora ironizzavano o eccepivano negli anni hanno dovuto ammettere. È quell’agenda politica che per superare lo stallo ideale, culturale, di lotte, va recuperata. Non tanto per dire “avevamo ragione” – una rivendicazione che di per sé ormai può interessare a pochi – ma per dire “partiamo da quei problemi e cambiamo le soluzioni”.

 

Durante le presentazioni del libro hai spesso notato come la generazione di Genova sia in realtà al potere in molti paesi d’Europa. Ed anche come il nostro premier “di sinistra” non ne abbia mai parlato. Una casualità illuminante, nevvero?

Anagraficamente, ci siamo. Ed è vero che Spagna e Grecia hanno, tra mille contraddizioni, presentato una proposta politica di personaggi che a Genova c’erano (o ci volevano arrivare, come Tsipras, bloccato ad Ancona). Renzi non si è mai sognato di dire qualcosa di serio su Genova, né di ascriversi alcuna delle tematiche di cui abbiamo parlato. Ha difeso fondamentalmente la teoria delle ‘mele marce’ nelle forze dell’ordine. Teoria che ha assunto aspetti grotteschi, ormai, ma che alla luce di quel che è successo a Genova non sta in piedi. E poi sì, ha fatto un tweet sul reato di tortura, un secolo fa, promettendone l’introduzione. Stiamo ancora aspettando. E infine ha proposto il risarcimento in denaro alle vittime di Bolzaneto. Vi diamo soldi per rinunciare al processo (perché tanto l’Europa ci condannerebbe comunque). Quindi sì, il silenzio o le parole a vuoto dicono purtroppo di un’attitudine politica che non è stata sfiorata dall’impatto di quei giorni sulla sua generazione, né tantomeno dai temi politici sollevati in quei giorni. Negli stessi giorni in cui è uscito il libro, per ironia della sorte, Renzi ha ritirato fuori il suo mantra di Happy Days come punto di riferimento generazionale. Ecco, il titolo del mio libro credo parli da sé, almeno in questa chiave…

 

Nelle diverse presentazioni mi sembra che il libro stia ricevendo molta partecipazione ed apprezzamento, il dato interessante è che attrae persone di diverse generazioni, non sono quelle della nostra, che è stata vittima e testimone degli eventi. Un dato confortante, non trovi?

Credo che sia un aspetto dovuto a quella struttura a specchio del libro cui alludevo prima. In realtà si parla di due generazioni, di due lutti superati o da superare. Di come l’una ha plasmato l’altra, di come la nostra abbia cercato conforto ed evasione nei suoni e negli stili della generazione che aveva vent’anni quando esplose il punk e che si reinventò alla sua morte. Alla base c’è il tentativo di presentare, sul piano musicale, quella che è stata, con molte sfaccettature, un’alternativa autentica al riflusso, sociale, politico, culturale, rappresentato dalle politiche neoliberiste di Thatcher e Reagan e di proporla a chi oggi è soggetto a politiche che traggono ispirazione precisamente da quelle formule dei primi anni Ottanta. C’è una rete di affinità, in cui la musica, con la sua struttura modulare, i suoi corsi e ricorsi, può suggerire luoghi d’incontro intergenerazionale.

 

D’altro canto, è sconvolgente come dopo 15 anni di debba ancora discutere, dibattere, chiarire quello che è stata “la più grande sospensione dei diritti democratici, in un paese occidentale, dalla fine della II guerra mondiale”, come sancisce la celebre definizione di Amnesty International. Hai incontrato resistenze da parte dei media a parlare del libro?

La grande riluttanza che ho riscontrato credo sia nell’assumere il peso specifico sul piano politico dell’episodio genovese. Come se Genova riguardasse una parte minoritaria, legata a quei pochi (se trecentomila vi sembran pochi…) che c’erano. Eppure, la verità giudiziaria in gran parte restituisce il quadro offerto dalla definizione di Amnesty. È stato un procedimento in aula a riconoscere come legittima la resistenza messa in atto in quel terribile 20 luglio dai manifestanti aggrediti su Via Tolemaide dai rappresentanti dello Stato, ovvero del detentore del monopolio della violenza legittima. La verità emersa per via giudiziaria ha mostrato come a quel monopolio della violenza in quei giorni sia stata sottratta proprio la legittimità dall’uso folle che di quella violenza è stato fatto, folle perché tendente, anziché alla tutela della libertà di manifestazione – un diritto politico fondamentale –, al disordine (l’anarchia di Chesterton!), alla repressione, e alla tortura.

Eppure, politicamente sapiente nel suo indirizzo anti-costituzionale, nel ribaltare la legittimità e nell’affidarla alla violenza stroncando le velleità di una proposta politica e generazionale alternativa. Ma è la consapevolezza politica della gravità di quel passaggio che manca: Genova è stata una pietra tombale posta su quella che è la prima generazione dei diritti, secondo una definizione celebre – ovvero i diritti civili e politici. Negarli per così tanto tempo a così tante persone, in quel contesto, sotto gli occhi di tutto il mondo, fu cosa enorme. Aver derubricato la cosa a vicenda giudiziaria è stato purtroppo un altro passo verso la mancata assunzione di responsabilità. E su questo punto i media, che affogano nella necessità di proporre notizie, non amano proporre letture complessive, problematizzanti. In questo senso il mio interrogativo di fondo – cos’era la politica per la mia generazione e come le è stata trasformata in confronto bellico, in dismisura – può esser risultato ostico.

Comments

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Francesco zucconi
Tuesday, 24 May 2016 22:10
Riflessioni nteressanti, ma che non chiariscono ne' lo strano ruolo di agenti stranieri ben riconoscibili nello scatenare la violenza, tutti rientrati a casa loro senza il minimo danno, ne' il fatto che i vertici hanno pagato, come era giusto, i loro pesanti errori. Sinceramente credo che la violenza di Stato stavolta sia stata duramente sanzionata...il che, a pensarci bene è ovvio visto che a pagare era lo Stato italiano!
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