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A proposito di mandanti morali

di Militant

galli della loggiaErnesto Galli della Loggia, insieme a Dario Di Vico, Angelo Panebianco, Paolo Mieli e Sergio Romano, fa parte di quella cerchia di intellettuali di riferimento che stabiliscono la linea politico-ideologica del Corriere della Sera, il principale organo d’informazione del paese. Da questo punto di vista, è sempre interessante leggere le analisi proposte da questi particolari maître a penseer della borghesia italiana, perché dicono esplicitamente ciò che il resto del giornalismo lascia solo intendere ambiguamente. Si fanno carico di sintetizzare una visione del mondo, dunque riassumono la weltanschauung dominante. Paradossalmente, proprio perché tendono a dire “le cose come stanno” senza freni inibitori tipici di chi non può ambire a quel ruolo, a volte affermano effettivamente “pezzi di verità” celati dalle varie narrazioni artificiose attraverso cui viene celata la realtà dei fatti. Sono, in altri termini, il volto “sincero” di un realismo politico con cui fare i conti. Altre volte, invece, hanno il ruolo di nobili giustificatori dello status quo. Non a caso capita molte volte, non solo da queste parti, di commentare le loro prese di posizione. Perché se bisogna confrontarsi con il pensiero dominante, è attraverso questi personaggi che bisogna passare, per leggere la realtà senza veli deformanti.

L’analisi proposta dal nostro sul Corriere di lunedì scorso (Le parole che l’Islam non dice) riassume degnamente il pensiero dominante, quello effettivamente veicolato dai centri del potere politico-culturale, ma che viene mascherato dalle ragioni del politicamente corretto. La tesi di Galli della Loggia è conosciuta: siamo in piena guerra di civiltà contro il mondo musulmano, una guerra che loro ci hanno dichiarato e che fatichiamo per ignavia a riconoscere. Solo riconoscendo questa guerra, e comportandoci di conseguenza – armandoci e intervenendo militarmente e culturalmente – si potrà ristabilire la barra delle relazioni internazionali a nostro vantaggio, cioè – secondo l’autore – a vantaggio della civiltà occidentale contro la barbarie orientale. Non è un’interpretazione tendenziosa delle sue parole: è esattamente quello che scrive, “provandolo” storicamente e filosoficamente attraverso ricostruzioni apparentemente puntuali ma in realtà completamente ideologiche. Non è un caso che questa presa di posizione avvenga pochissimi giorni dopo l’uccisione di Emmanuel Chidi Nnamdi e nel giorno del suo funerale. Il rimando implicito è evidente, e anche in questo caso il Galli Della Loggia non tenta neanche di nasconderlo: ci infervoriamo per la morte di un migrante, ma questa è una guerra e come tale prevede danni collaterali e, al tempo stesso, non può prevedere cedimenti culturali dettati dal buonismo religioso. Questo non significa che l’autore sia “contento” e “impassibile” di fronte alla morte del migrante. Piuttosto, sta a significare che “sta nelle cose”, condannando questo “sentire comune” che ci fa piangere per la morte di un migrante ma che ci lascia tutto sommato indifferenti alla morte dei nostri connazionali in Bangladesh. E’ questa debolezza che manda in bestia l’intellettuale con l’elmetto, questa presunta “doppia moralità” di cui saremmo vittime, condizionati – com’è ovvio – dalle mollezze determinate dal combinato cristianesimo + relativismo culturale che attanaglia l’occidente declinante. Ernesto Galli della Loggia si presenta allora come “mandante morale” di un razzismo realpolitico che produce, come abbiamo visto in questi giorni, mostri difficilmente etichettabili come “mele marce” o “schegge impazzite”.

Cosa dice però di rilevante questo editoriale pensoso e preoccupato per le sorti dell’occidente? Leggiamolo attentamente.

“Chissà se in quella tragica sera di Dacca qualcuno dei nove italiani, mentre veniva torturato e si preparava ad essere sgozzato per non aver saputo rispondere a dovere alle domande di catechismo islamico, avrà pensato che i suoi compatrioti avrebbero preso l’impegno di vendicarlo”.

La mancata predisposizione alla vendetta è la tara originaria che impedisce alle società occidentali di “prendere il toro per le corna”. E’ questo che implicitamente chiede Galli della Loggia, assumersi il carico di sofferenza che una guerra comporta, e predisporsi per infliggerla, a monito di futuri attentati. La guerra di Galli della Loggia non è figurata o metaforica: è guerra vera, da combattere boots on the ground, ma attenzione: non solo nei territori arabi “da liberare”, ma anche – e forse soprattutto – all’interno delle nostre società. Non c’è soluzione all’islamismo senza militarizzazione della società, una militarizzazione che non può essere evasa da qualche camionetta dell’esercito davanti alle metro, ma che comporta una militarizzazione dei rapporti politici. Se fino ad oggi il mantra liberista affermava che “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità economiche”, l’autore afferma che abbiamo anche vissuto “al di sopra delle nostre possibilità democratiche”. Oggi i margini di trattativa consentiti dalla democrazia liberale non sono più sostenibili, pena l’islamizzazione crescente delle nostre civiltà.

Ancora:

“<I Jihadisti – ha scritto Tahar Ben Jelloun, conosciutissimo teorizzatore dell’Islam tollerante all’interno di un’auspicata tolleranza universale – prendono a riferimento dei versetti che erano validi all’epoca della loro rivelazione ma oggi non hanno più senso>. Già. Ma mi chiedo: e chi è che lo decide quali versetti del Corano continuano ad <avere senso> e quali invece sono per così dire passati di moda? Chi? E in ogni caso non vuole forse dire quanto scrive Ben Jelloun che comunque in quel testo ci sono parole e precetti che si prestano e magari incitano ad un certo uso della violenza?[…]Ma fa qualche differenza o no – mi chiedo ancora sperando di non incorrere per questo nell’accusa di islamofobia – fa qualche differenza o no se nel testo fondativo di un monoteismo i riferimenti alla violenza ci sono, espliciti e ripetuti, e in un altro invece sono del tutto assenti? Fa una differenza o no, ad esempio, se i Vangeli non registrano nella predicazione di Gesù di Nazareth alcuna azione o proposito violento contro coloro che non credono?”

Proprio così scrive l’intellettuale determinato a sviscerare le ragioni culturali di questa guerra: a differenza degli altri “monoteismi”, l’Islam è ontologicamente una religione violenta, espressione di una cultura violenta sancita nei suoi scritti fondativi. Poco o nulla possiamo fare davvero per invertire la rotta. Solo la guerra e la sottomissione islamica ai valori dell’occidente liberale può redimere l’orizzonte prevaricatore insito nella cultura islamica. Eppure, a ben guardare, e senza scomodare venti secoli di storia del cristianesimo e dell’ebraismo marchiati da ogni tipo di violenza e d’infamia genocida – bazzecole queste su cui non occorre neppure soffermarsi, sembra dirci l’autore – i libri sacri delle altre due religioni monoteiste sono intrisi di violenza tanto e più del Corano. Vediamone una rapida carrellata.

Stupri: Genesi, 19:26 – “Dio, impassibile davanti alla proposta di stupro delle figlie vergini di Lot, trasformò sua moglie in una statua di sale per aver commesso il nefando crimine di essersi guardata le spalle”.

 

Vendette violente e assassini: Esodo, 2:12 – “Mosè scorse un egiziano che picchiava un ebreo. Si guardò intorno e, non trovandovi testimoni, “uccise l’Egiziano e lo nascose nella sabbia”.

 

Schiavitù e d’altre facezie: Esodo, 21:20-21 – “Per la legge di Dio “se uno bastona il suo schiavo o la sua schiava fino a farli morire sotto i colpi, il padrone deve essere punito” – “ma se sopravvivono un giorno o due, non sarà punito, perché sono denaro suo”.

 

Fratricidi: Esodo, 32:27 – “Alla vista del vitello d’oro, Dio comandò ai figli di Levi: “Ognuno di voi si metta la spada al fianco; percorrete l’accampamento da una porta all’altra di esso, e ciascuno uccida il fratello, ciascuno l’amico, ciascuno il vicino.” – “In quel giorno caddero circa tremila uomini” e Dio ne fu compiaciuto”.

 

Pene di morte: Numeri, 15:32-26 – “Un uomo raccolse della legna di sabato. Per ordine divino dato a Mosè, “tutta la comunità lo condusse fuori dal campo e lo lapidò, e quello morì”.

 

Vendette religiose e punizioni esemplari: Numeri, 25:4 – “Il Signore disse a Mosè: Prendi tutti i capi del popolo e falli impiccare davanti al Signore, alla luce del sole, affinché l’ardente ira del Signore sia allontanata da Israele”.

Pochissimi, fra gli innumerevoli passi della Bibbia, che confermano la seriosa analisi del Della Loggia: nel testo sacro del cristianesimo non è presente alcuna forma di violenza, al contrario del Corano. Si dirà che però, a leggere attentamente le parole dell’autore, questo faccia riferimento “ai Vangeli” piuttosto che alla Bibbia nel suo complesso. Giusta osservazione. Leggiamo:

La misericordia divina: Matteo, 10:35-36 – “Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada. Perché sono venuto a dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora dalla suocera; e i nemici dell’uomo saranno quelli stessi di casa sua”.

 

Porgi l’altra guancia: Luca, 12:47 – “Gesù avvertì che un servo di Dio che non avesse rispettato la volontà del suo Padrone avrebbe ricevuto “molte percosse”.

 

Tolleranza religiosa: Luca, 19:26 – “Nella parabola delle dieci mine il padrone – Dio – disse di quelli che avessero deciso di non seguirlo: “conduceteli qui e uccideteli in mia presenza”.

 

GLBT: Romani, 1:26-27 – “Paolo dice che lesbiche ed omosessuali meritano la dannazione eterna”.

 

Go vegan: Ebrei, 12:20 – “Dio predispose che ogni animale accampato sul monte Sion venisse lapidato”.

 

Per chi non avesse capito l’antifona: Apocalisse, 6:8 – “Alla fine dei tempi, Dio autorizzerà la Morte a falciare il 25% della popolazione terrestre “con la spada, con la fame, con la mortalità e con le belve della terra”.

E via continuando. Per una panoramica completa, consigliamo “Le atrocità della Bibbia”.

L’autore a questo punto, forse conscio di averla sparata troppo grossa, cerca appigli antropologici per giustificare la costruzione storica per cui violenza e mondo islamico sono un tutt’uno.

In realtà è assai difficile pensare che l’Islam non abbia un problema specifico tutto suo con la violenza. Ne è prova non piccola, a me pare, come esso continui a praticarla nei suoi riti[…]Chiunque ad esempio si è trovato in una località islamica il giorno della Festa del Sacrificio ha potuto assistere allo spettacolo di ogni capofamiglia che, armato di coltello, sgozza sulla pubblica via un agnello procuratosi in precedenza. Certo, la pratica non è più universale…”

Ora, a parte l’italiano incerto da terza media – che pure, per un nome di rilievo culturale come Galli Della Loggia, significa molto – attaccarsi alle tradizioni culturali sedimentate storicamente di una popolazione per dedurne il suo rapporto intimo con la violenza è, prima ancora che scientificamente, completamente sballato metodologicamente. In Italia in ogni paese a gennaio si sgozza il maiale con un coltellaccio da macellaio, lasciando scorrere lentamente il sangue fino al completo dissanguamento, e sovente cucinandosi lo stesso sangue appena rappreso per farci il sanguinaccio. Come minimo, seguendo il ragionamento del giornalista del Corriere, gli italiani dovrebbero essere un popolo di vampiri assassini. Per non parlare della Spagna della corrida, tradizione culturale che in confronto il sacrificio dell’agnello arabo sembra organizzato dal WWF. Lo stesso agnello che nei giorni di Pasqua e dintorni andiamo però a sceglierci con cura dal contadino di fiducia, che provvederà ad ammazzare ma chiedendogli forse il permesso, non come quei cattivoni islamici che lo accoppano senza neanche preavvisarlo. Civiltà contro barbarie. E potremmo continuare per giorni, citare intere biblioteche sul rapporto catartico tra violenza rituale e rapporti sociali, modelli di civiltà sedimentati nei secoli, tradizioni, eccetera. Ma a che pro? La tesi è ormai costituita: la violenza è un fatto interno al mondo islamico, prova ne sia lo sgozzamento rituale degli agnelli durante una festa religiosa.

Questo il brodo culturale che forma a ripetizione nuovi Amedeo Mancini. Un fascista, né più né meno, inserito però in un flusso informativo che giustifica, contestualizza, minimizza il razzismo occidentale come prodotto della violenza islamica. I mandanti morali, che coprono i mandanti materiali, sempre gli stessi, più o meno da un secolo a questa parte.

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