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Mondo nomade, città aperte

G. Battiston intervista Richard Sennett

a809df73 d594 4a77 bc19 c2178eee6954Parigi. Pensare di arroccarci nella nostra identità, di «esimerci dal contatto e dalla contaminazione con gli altri è ridicolo, un’illusione». Respingere chi cerca aiuto, «una nuova forma di fascismo». Richard Sennett, tra i più autorevoli sociologi contemporanei, docente alla London School of Economics e alla New York University, guarda con preoccupazione al modo in cui in Europa si affronta la questione migratoria. Il «nuovo tribalismo», che combina la solidarietà con i propri simili e l’aggressività contro chi è diverso, è frutto di un’incompetenza sociale, sostiene l’autore de Lo Straniero. Due saggi sull’esilio (Feltrinelli 2014).

Un’incompetenza favorita dal modo in cui sono costruite le nostre città. Sistemi chiusi, sigillati, che dequalificano i cittadini e neutralizzano le differenze, eliminando quegli spazi ambigui in cui si può imparare a fare un uso produttivo della diversità. Perché la cooperazione con gli altri, specie con gli estranei, è una competenza, un’arte che va acquisita. E le città aperte, porose e dinamiche, possono aiutarci a esercitarla, «rendendoci cittadini migliori».

Abbiamo incontrato Richard Sennett a Parigi, dove con la moglie, la sociologa Saskia Sassen, alcune settimane fa ha inaugurato la cattedra “Global Cities”, presso il Collège d’études mondiales della Fondation Maison des Sciences de l’Homme. A l’Espresso, Sennett ha anticipato i temi del libro su cui sta lavorando: l’ultimo volume di una trilogia dedicata alle pratiche attraverso le quali vengono fabbricati gli oggetti materiali (L’uomo artigiano, Feltrinelli 2008), conformate le relazioni sociali (Insieme, Feltrinelli 2012) e, infine, costruiti i luoghi in cui viviamo, in particolare le città.

* * * *

Professor Sennett, in Europa il dibattito sulle migrazioni è polarizzato: a sinistra si invoca solidarietà, a destra il ritorno alle frontiere. Lei, che idea si è fatto?

Credo che il dibattito sia disonesto. Perché ci si concentra su “loro”, sulla presunta invasione, e non sulle ragioni per cui si viene in Europa. Nel caso dei migranti economici, il perché di cui omettiamo di parlare racconta molto di “noi”: degli imprenditori disposti a non rispettare le leggi sul lavoro, pur di avere manodopera a basso costo; del lavoro in nero, così diffuso in certi Paesi europei; di un sistema economico in cui flessibilità significa repressione per i lavoratori, e nessuna responsabilità sui datori di lavoro. Prima di guardare agli “altri”, faremmo meglio a ragionare sulle nostre complicità.

 

E quanto ai richiedenti asilo, ai profughi, a chi cerca rifugio dalla guerra?

Sono preoccupato che stia acquistando legittimità l’idea che, di fronte a gente che fugge, che cerca asilo e protezione, si possa derogare al principio dell’accoglienza, che si possa respingere, sparare sulle barche, o lasciare che affondino. É una nuova forma di fascismo. É come se in Italia fossero stati respinti i prigioni di guerra che, una volta finiti i combattimenti, tornavano a casa, spesso in condizioni disperate.

 

Lei comunque contesta l’idea che i migranti siano soltanto «mere vittime delle necessità». Ha scritto infatti che i «migranti cosmopoliti» possono diventare un «modello per abitare in modo appropriato le città», in un futuro prossimo. Ci spiega meglio?

Molti migranti oggi non sono più immigrati: gente che va in un posto, ci lavora per 10 anni, poi torna indietro, come hanno fatto nel diciannovesimo secolo gli italiani e i polacchi, per esempio. Oggi, al contrario, c’è un sistema di flussi migratori globali, che presuppone una differente nozione di identità. Migrando, non si perde più la propria identità, ma la si integra in qualcos’altro. É una costruzione sociologica diversa, che rimanda al movimento, alla capacità di muovere di città in città, di paese in paese, competenze e capacità professionali. E di acquisirne di nuove. Molti tra i più abili lavoratori degli Stati Uniti provengono dal Pakistan, da qualche paese africano.

In Europa la situazione è ancora diversa, ma rimane vero, perlomeno nelle città dove ho più lavorato, come New York, Beirut o Londra, che i migranti possono “sopravvivere” soltanto acquisendo competenze, diventando cosmopoliti competenti, esercitando l’abilità di comunicare con gli estranei, di trascendere i confini materiali degli spazi urbani: di orientarsi e “navigare” in città. Le migrazioni contemporanee sono un fenomeno molto complesso. Pensare che i rifugiati siano dei parassiti e che rappresentino l’unico paradigma del modo in cui le persone migrano nel mondo è di una cecità fatale.

 

Eppure, a dispetto della complessità delle migrazioni, c’è chi si limita a invocare la chiusura delle frontiere …

L’idea che si possano chiudere i confini è pura illusione. Tra gli Stati Uniti e il Messico è stata eretta una barriera di circa 1.500 chilometri per impedire l’ingresso dei messicani. Ma non funziona. È ridicolo pensare che ci si possa ritirare, esimere dal contatto con gli “altri”, evitare la “contaminazione”. Per questo c’è bisogno di una politica dell’accoglienza, diversa da quella, immorale, usata in Australia, dove si lasciano morire i migranti in mare.

 

Al contrario di chi chiede nuovi muri, lei ragiona sugli strumenti con i quali trasformare le frontiere, chiuse, in confini aperti. Ci spiega l’orientamento del suo lavoro?

La distinzione è ricavata dalla biologia. Il biologo Stephen Gould, tra gli altri, ricorda la differenza nelle ecologie naturali tra la frontiera, un limite dove le cose finiscono, e il confine, un’area in cui gli organismi interagiscono di più. Simile è la distinzione tra una parete cellulare, che trattiene internamente, e una membrana, allo stesso tempo porosa e resistente, aperta, simile a un confine. Io cerco di capire come potremmo rendere i nostri confini più porosi, così da favorire i contatti tra la gente, anziché ostacolarli. Un esempio di frontiera è quella che separa Gaza da Israele, dove il margine è costruito in modo inaccettabile, attraverso l’espulsione dei palestinesi. Ecco, io ragiono in termini di segregazione e degli strumenti per evitarla. Studio il modo per evitare di adottare anche in Europa questa mentalità da apartheid, che qualcuno invece vorrebbe usare, per esempio nei confronti delle comunità islamiche. Si tratta ovviamente di un’illusione, di una fantasia da fanciulli, considerata la situazione sul terreno, ma è un’illusione pericolosa. Che va affrontata.

 

Lei è convinto che il modo in cui costruiamo le nostre città condizioni il modo in cui viviamo con gente diversa da noi, con gli estranei, che ci sia un rapporto tra urbanistica e comportamento sociale. E suggerisce un’idea di città incompleta, incoerente, «ambigua». Cosa intende?

Le nostre città – in Italia meno che nel Regno Unito – sono costruite in modo tale che ogni loro funzione sia separata dalle altre. Riflettono un isolamento funzionale. E la stessa logica insulare si applica alla gente che ci vive. Anche per questo stiamo assistendo a una crescente rigidità e burocratizzazione delle relazioni sociali, che diventano “povere”, fredde. Le nostre, sono città congelate, sovradeterminate, sia nelle forme visive che nelle funzioni sociali. Per esempio, la funzione commerciale è nettamente separata da quella pubblica, come se l’ambito commerciale non dovesse essere contaminato da altre attività pubbliche. Io invece mi interesso e studio le città con margini più ambigui, zone in cui si possa fare shopping e, allo stesso tempo, assistere o partecipare a un evento sociale o politico; aree in cui le scuole non siano isolate dal contesto, né recintate, ma incorporate nel vicinato. Avere a che fare con funzioni e spazi ambigui è complicato, me ne rendo conto. Ma è ciò che ci rende cittadini adulti.

 

In un saggio recente, ha scritto che una delle più grandi sfide dell’architettura del ventunesimo secolo sarà rendere gli edifici più porosi, «veramente urbani». Che significa?

C’è una magnifica mappa di Roma realizzata nel diciottesimo secolo dall’architetto Giambattista Nolli. Mostra con chiarezza quanto gli edifici di Roma fossero porosi, a quel tempo. Potevi entrarne, uscirne, usarli come passaggi, come transiti. Quella mappa restituisce un’immagine della città molto diversa da quella attuale. É triste osservarla (e la includerò nel mio libro), perché molti di quei margini porosi sono stati sigillati nel corso del diciannovesimo secolo. Oggi come allora la questione ha a che fare con questioni semplici: quante entrate ed uscite devono esserci in un edificio? Ma rimanda a veri e propri indirizzi ideologici, che condizionano l’urbanistica, l’architettura, le relazioni sociali: cosa è, cosa deve essere un edificio? Cosa può succedere al suo interno? Quanta differenza è ammessa? Se è ammessa molta differenza, come mantenere un principio di ordine e sicurezza?

Sono temi a cui mi sono interessato lavorando alla ricostruzione di Beirut, negli anni Novanta. Allora l’ideologia dominante suggeriva di sigillare ogni edificio, come risposta alla guerra civile. Ma gradualmente l’esigenza è diventata opposta: come fare in modo che persone che si erano combattute si abituassero alla condivisione degli spazi.

 

Alla base del suo lavoro sembra esserci la convinzione che, almeno a partire dalla metà del ventesimo secolo, l’urbanistica e l’architettura abbiano reso le nostre città dei sistemi chiusi, e che per migliorarle dovremmo trasformarle in sistemi aperti…

È così. Sto cercando di applicare alle città la teoria dei sistemi aperti, che ha reso possibile l’informatica contemporanea e a cui mi sono avvicinato trascorrendo dei periodi di studio al Mit, il Massachusetts Institute of Technology di Cambridge. In sintesi, il mio intento è trovare un’alternativa alle smart cities, che sono sistemi chiusi, con funzioni, forme e usi tecnologici definiti. In confronto a una smart city, assolutamente determinata, un sistema aperto vuol dire maggiore contingenza, maggiore ambiguità, maggiore differenza, e dunque minore determinazione, prevedibilità, omogeneità e coerenza. Richiede ogni giorno molta capacità di interpretazione, perché implica il cambiamento.

 

Cosa intende quando sostiene che la città e il suo design hanno il potenziale di renderci esseri umani più complessi, di insegnarci a vivere con chi è diverso da noi?

Il design, il modo in cui costruiamo le nostre città, può cambiare il comportamento della gente, nel corso del tempo. Le forme incomplete, le strutture che possano essere modificate internamente, in modo evolutivo, a seconda dei bisogni di chi le abita, le strutture dove forma e funzione siano in qualche modo “divorziate”, hanno un potere liberatorio nelle relazioni sociali. E fanno tutt’uno con le capacità dialogiche della gente, abilità che vanno imparate ed esercitate. Insisto molto su questo punto perché mi sono reso conto che non regge l’idea secondo la quale le città sono segregate soltanto perché “imposte” dal capitalismo e dal dominio politico. Non è vero che la gente vorrebbe vivere insieme agli altri, perfino agli “estranei”, ma non lo fa perché le viene impedito. Quando lavoravo a Boston, una città in cui la segregazione è molto forte, io e il mio team disponevano di tutte le competenze  tecniche e le conoscenze necessarie per evitare la segregazione.

Sapevamo ad esempio che le scuole andassero collocate al confine tra i quartieri bianchi e quelli neri. Ma ci siamo accorti che le nostre competenze non bastavano. Perché mancava il desiderio di vivere con gli altri. E le abilità per farlo. Per questo ho scritto così tanto sulla cooperazione, intesa come competenza, come un’arte che va imparata. La mera presenza della diversità non può scongiurare l’indifferenza, di per sé. Ma in una città l’ambiente giusto – la posizione degli edifici, ciò che gli edifici “dicono” a chi li guarda, i materiali con cui sono fatti – può favorire l’esercizio della cooperazione, rendendoci cittadini migliori.

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