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effimera

L’università fra nuova proletarizzazione e paradigma dello zombie

di Federico Chicchi

ar3Per chi abita l’Università da diverso tempo e, come me, secondo ruoli e prospettive differenti che sono progressivamente cambiate con il trascorrere degli anni, credo possa risultare piuttosto evidente che questa stessa istituzione, addirittura millenaria, ha subito negli anni recenti una severa e profonda trasformazione. In realtà non è il termine trasformazione quello più adatto a rendere conto di ciò che è accaduto e che sta ancora accadendo all’Università. Il concetto di trasformazione infatti richiama etimologicamente il superamento di una forma per lo più esteriore, qui si tratta invece di qualcosa che, pur implicando anche una nuova rappresentazione sociale dell’Università, mobilita e porta con sé un vero e proprio cambiamento di natura, qualcosa quindi che incide fino in fondo la sostanza, lo spirito del suo funzionamento. Per certi versi non sarebbe credo azzardato affermare che l’Università, almeno quella che eravamo abituati a frequentare, è morta ma non sepolta (per giocare un poco con la nostra lingua). Non è sepolta perché pur avendo completamente perso le funzioni educative e di produzione di un sapere teorico generale che prima (non senza problematicità, intendiamoci) la caratterizzavano, non solo mantiene e prolunga, stile tardo impero romano, le griglie gerarchiche e baronali di esercizio tradizionale, ma per certi versi esalta in modo nuovo il suo ruolo sociale ed economico. In che senso? Potremmo dire che si tratta di una nuova fenomenologia dell’istituzione che io definirei fenomenologia zombie.

Come argomenta in un suo recente ed efficace saggio Rocco Ronchi “Niente è più miserabile degli zombi, che nemmeno possono dirsi creature poiché vagano nella terra di nessuno che divide i morti dai vivi. Massa tumorale in illimitato accrescimento, annunciano al mondo che è venuto il tempo della sua fine”. L’Università neoliberale in Italia è uno spazio sociale popolato da zombie che camminano senza un indirizzo preciso, miopi e senza desiderio, privi di vocazioni particolari. Però, se sul piano soggettivo queste creature sono facilmente riconoscibili mentre attraversano claudicanti i corridoi dei grandi edifici pubblici che ospitano le Università (sono i vecchi e i nuovi baronetti, i loro allievi prediletti, ma anche una quota sempre più elevata di studenti disorientati e assimilati a quella logica mortifera del sapere che dilaga via quiz), sul piano “oggettivo” ma sarebbe forse meglio dire macchinico e materiale l’Università neoliberale svolge oggi, per lo più un’ultima, funzione (economica) importantissima. Quale? Quella di organizzare la rendita e la proprietarizzazione dei saperi (o meglio dei saperi diventati merci simboliche ed economiche), quella di funzionare da collettore e mediatore certificato (e che antica e autorevole certificazione!) di piccoli, medi e grandi interessi economici e speculativi, per lo più locali e territoriali ma anche nazionali e internazionali. Essa funziona in altri termini (non solo ovviamente, ma in un buona parte) come pulitore, normalizzatore simbolico e formale dei processi clientelari e delle egemonie economiche delle aree in cui l’Università stessa si distribuisce in modo reticolare. In altri termini ancora, l’Università assume le vesti attillate (se ne vede la pancia sporgere) del così tanto esaltato nei manuali di sviluppo locale, marketing territoriale. Tenta di diventare una sola cosa con esso. I concorsi di dottorato, ad esempio, che abbisognano di un numero minimo di “costose” borse di studio per poter essere bandite, vengono in parte “sponsorizzate” da aziende e attori economici locali che ovviamente (alla faccia delle norme di imparzialità che presiedono le valutazioni comparative) scelgono e blindano in accordo con i docenti procacciatori (nella maggior parte dei casi) chi sarà il vincitore.

Non è un caso che questo avvenga nel momento stesso in cui le diverse e recenti riforme dell’Università susseguitesi in questi ultimi decenni, di fine vecchio e inizio nuovo secolo, le tolgano praticamente e progressivamente le risorse pubbliche che le consentirebbero di funzionare e magari agire secondo gli spesso sbandierati criteri della sua autonomia. Tali riforme istruiscono il principio cardine dell’autonomia dell’Università come il capitalismo istituisce la libertà del lavoratore salariato. Tale autonomia che, in soldoni, non ha margini di attuazione se non attraverso la trasformazione dei modelli di governance delle stesse università (qui è il caso di scriverla in minuscolo) in veri e propri consigli di amministrazione è animata da criteri di operatività di tipo privatistico e aziendale (per non parlare delle nuove forme di dirigismo manageriale esasperato di cui i Rettori sono messi a capo).

Perché non è un caso che la perdita della sua funzione prevalentemente formativa coincida con la progressiva riduzione delle risorse pubbliche messe a disposizione delle Università? Perché per funzionare le Università ora devono necessariamente entrare in rapporti strutturali con il mercato e con le attività economiche di promozione dei territori. La loro legittimità passa inevitabilmente e intrinsecamente per criteri di veridizione imposti dal mercato e dal mercato delle università. Si è coniato per esaltare, e al contempo non far detonare, questa nuova funzione fondamentale dell’Università un termine suggestivo: la terza missione. Ecco cosa è possibile trovare sul sito delle Università (ne scegliamo una a caso senza fare nomi): “Spesso l’Università è pensata esclusivamente come il luogo deputato all’alta formazione e alla ricerca, trascurando un ulteriore obiettivo di vitale importanza: la cosiddetta terza missione. Scopo non secondario dell’Università è infatti quello di contribuire allo sviluppo sociale, culturale ed economico della Società che la ospita, mediante l’applicazione, la valorizzazione, la divulgazione e l’impiego della conoscenza attraverso una relazione diretta con il territorio e con tutti i suoi attori. Non a caso l’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) ha inserito la terza missione tra i fattori su cui si basa la sua attività di valutazione, pubblicando in proposito uno specifico manuale. Tra i vari elementi presi in considerazione, quelli applicabili ad un ateneo umanistico [sottolineiamo che si tratta di un ateneo a vocazione umanistica!] come quello xxx sono: le imprese spin-off, l’attività in conto terzi, il public engagement, le attività relative al patrimonio culturale (come scavi archeologici, poli museali ecc.), la formazione continua”.

Insomma c’è da mettersi le mani nei capelli! L’Università è oramai un servizio per l’impresa neoliberale e, a sua volta, funziona come una impresa che deve competere e produrre innovazione continua sul mercato del sapere a fini di competitività. Ma non finisce qui. Tutto questo ha un prezzo che pagano pesantemente gli studenti.

Nell’Università dove lavoro sono da poco ricominciati i corsi. Quest’anno sono rimasto colpito da un episodio occorsomi in aula, che vi racconto molto rapidamente. Mentre ragionavo assieme agli studenti su come impostare la verifica finale del mio insegnamento è emerso il fatto che sarebbe stata da loro gradita una valutazione in forma orale della preparazione. Una studentessa ha spiegato che nei tre anni di loro formazione universitaria non avevano ancora sostenuto un esame oralmente ma solo attraverso prove scritte “modularizzate” (cioè insegnamenti divisi in segmenti cui corrispondono le cosiddette prove intermedie) e prevalentemente basati su domande a risposta chiusa. Sono rimasto sconcertato, nella mia oramai lontana (sic!) carriera universitaria da studente, per accedere alla laurea, non ho sostenuto neanche un esame scritto! In questo tipo di esami scritti, dove la relazione educativa (il transfert educativo) viene del tutto assorbita dal “governo” di freddi e frustranti algoritmi di valutazione, rimane davvero ben poco spazio per la costruzione e la sedimentazione del sapere critico.

Insegnare dovrebbe, in primo luogo, (non solo, ovviamente) mettere in condizione i discenti di sentirsi parte di un processo comune di visione e costruzione del mondo. L’obiettivo deve essere quello di dotare gli studenti di un desiderio di sapere che ha come scopo principale quello di permettere loro di sentire come possibile e consistente la dimensione del cambiamento sociale. Insomma un insegnamento universitario dovrebbe creare le condizioni per rompere l’inerzia dentro cui la soggettività rischia di essere collocata per mere opportunità di mercato. Di sentire la condivisione del sapere come un principio fondamentale della ricerca e della propria maturazione personale. Quando ci si riesce, anche solo ad avvicinarsi a tale obiettivo, l’effetto sulle soggettività è davvero straordinario e l’Università ritrova la sua vocazione fondamentale. Il problema è che questo diviene ogni anno accademico che passa (e ogni riforma che si impone) sempre più difficile da costruire.

Quando il discorso capitalistico si salda con il discorso universitario (e della scienza) accade infatti quello che Lacan definiva come il comandamento del Continua a sapere! Lo studente si sente astudato “è astudato perché come ogni lavoratore – vi orienterete da soli per gli altri casi – deve produrre qualcosa” (Lacan, seminario, libro XVII, 1969). Deve dimostrare, in altre parole di essere performante e per produrre qualcosa, per dimostrare la propria efficienza, occorre essere inserito in un chiaro sistema di misurazione, che permetta di valutare il peso dell’accumulazione continua (che non potrà più interrompersi) del sapere. Ecco allora che tutta l’Università è attraversata dal fremito della valutazione. La retorica meritocratica ne è, potremmo dire, l’esito e la copertura ideologica.

Ecco allora che ancora una volta fa capolino il paradigma dello zombie. Occorre infatti divorare sapere, accumularlo senza limiti, e misurarlo in crediti (altrimenti non conta nulla) perché solo così avremo illusoriamente placato l’imperativo a divorare sapere. Le pratiche di valutazione che attraversano l’attività universitaria, sia quella degli studenti che quella di chi nella ricerca ci lavora, sono inserite in una macchina astratta che con Felix Guattari potremmo definire come macchina capace di produrre semiologie a-significanti. Se infatti da una parte il governo neoliberale non disdegna di realizzare pratiche significanti per addomesticare e orientare le masse (sono le pratiche ideologiche del mercato come regime di verità), dall’altra per funzionare efficacemente generalizza delle semiotiche a-significanti. Queste ultime non sono posizionabili solamente in una o in più istituzioni particolari che rispondono esplicitamente all’esigenza del controllo sociale, esse sono più astratte e trasversali; non sono analizzabili secondo un modello dialettico e oppositivo, esse influenzano e orientano in modo differente e a più livelli la produzione sociale della soggettività e del desiderio sociale. Sono fondamentali perché creano le condizioni diagrammatiche[1] affinché si dia la possibilità, in punti e spazi diversi del contesto sociale (una stessa macchina astratta per prigione, scuola, caserma, ospedale, fabbrica) di una più vasta e inglobante produzione di controllo sociale come effetto, alla luce della progressiva de-codificazione, della definizione di un campo, da intendersi come un insieme maggiormente plastico ma al contempo circoscritto, delle possibili combinatorie della pragmatica sociale[2]. Sono le pratiche originate da queste semiotiche a rendere il sapere universitario sempre meno capace di sviluppare e sollecitare capacità critica e autonomia sociale.

Credo sia allora importante, come ci invita a fare Bernard Stiegler nel suo De lamisèresymbolique, tornare ad osservare, per poi riuscire a trovare i modi per contrastarlo, il prodursi di un nuovo processo di proletarizzazione che investe la società capitalistica contemporanea e in particolare la scuola e l’Università[3]. In altre parole oggi il divenire proletario non indica più solamente la perdita della proprietà del proprio lavoro, l’alienazione del lavoro, ma da un lato la perdita del proprio desiderare e dall’altro lo sfruttamento sempre più pervasivo della capacità di cooperazione e messa a valore comune del cervello sociale.


NOTE
[1] Il concetto di diagramma è ben precisato da Deleuze e Guattari in Mille piani. (Deleuze G., Guattari F., Mille plateaux, Capitalisme et schizophrenie. Tome 2, (1980) tr. It., Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Lit Edizioni/Castelvecchi, 2015.
[2] Tali questioni sono affrontate da Deleuze e Guattari soprattutto nel terzo “piano” di Mille piani. Su questo tema si veda anche il volume di Berardi F. e Sarti A., Run. Forma, vita e ricombinazione, Mimesis, Milano-Udine, 2011.
[3] Si veda a riguardo anche il bellissimo saggio di Paolo Vignola e Sara Baranzoni, Biforcare alla radice. Su alcuni disagi dell’accelerazione. http://effimera.org/biforcare-alla-radice-disagi-dellaccelerazione-sara-baranzoni-paolo-vignola-2/.

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