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Jean Baudrillard, il delitto perfetto?

di Davide Gatto

CharlieSUn esergo  adatto a presentare questo libro di Baudrillard – Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà? – cronologicamente un po’ datato (1995, Èditions Galilèe, Paris; 1996, Raffaello Cortina Editore, Milano), ma di fatto così attuale da apparire ora profetico – potrebbe essere rappresentato da alcuni celebri versi di Leopardi:

Ahi ahi, ma conosciuto il mondo
non cresce, anzi si scema (…).
(…) e figurato è il mondo in breve carta;
ecco tutto è simile, e discoprendo,
solo il nulla si accresce.

(Ad Angelo Mai, vv. 87-88; 98-100)

Il saggio del filosofo e sociologo francese (1929 – 2007) si compone di due distinte sezioni: la prima, che ripete il titolo dell’opera (Il delitto perfetto), occupa i due terzi del libro ed è di carattere speculativo, mentre la seconda (L’altro versante del delitto) ragiona sulle evidenze del ragionamento teoretico in alcuni aspetti emblematici – psicologici, sociologici, politici – del mondo contemporaneo.

 

Il delitto originale e lo spazio vitale dell’illusione

L’assunto di base che Baudrillard si preoccupa di motivare preventivamente è di chiara ascendenza nietzschiana: fin dalle sue origini l’uomo ha cercato di cogliere un senso definitivo, “vero” del mondo e delle cose, che però il mondo e le cose non hanno. La riflessione si colloca quindi nell’alveo di quel nichilismo “disincantato e creativo, capace di distruggere i valori tradizionali per portarli alla loro “transvalutazione”, accettando il “gioco” della verità sui sentieri infiniti dell’apparenza”[1] , che fu proprio di Nietzsche e della cosiddetta “Nietzsche-Renaissance francese, con G. Bataille”[2] (e altri), pensatori – i due nominati – direttamente o indirettamente citati nell’opera.

Dietro le apparenze che si dispiegano dinanzi ai nostri sensi – ragiona Baudrillard – non c’è alcun senso riposto, nonostante i perentori tentativi di rivelarlo o di definirlo messi in atto nel tempo dai promotori di istanze metafisiche, religiose, ideologiche, scadute tutte, una dopo l’altra, al rango di illusioni.

Questa esperienza fallimentare circa l’esistenza di un senso delle cose e del mondo basterebbe da sola a inibire nell’uomo qualsiasi ulteriore ricerca di senso, eppure – constata Baudrillard – antropologicamente noi “desideriamo volere – è questo il segreto – come desideriamo credere, come desideriamo potere, perché l’idea di un mondo senza volontà, senza fede e senza potere ci è insopportabile”.[3]

È innegabile infatti che la ricerca di un senso che dia conto, razionalmente conto (anche nel caso delle soluzioni metafisiche e religiose, in definitiva), delle evidenze del mondo è espressione del nostro desiderio innato di governare le cose, di controllare la loro imprevedibilità invece che subirla come un destino.

E tuttavia, che questa nostra pretesa di verità sia pienamente e definitivamente illusoria, tramontate le stagioni delle religioni e delle ideologie, è dimostrato anche dal percorso accidentato compiuto sulla medesima strada dalla fisica – la regina delle scienze degli ultimi centocinquanta anni -, che ha svelato con la meccanica quantistica un mondo dell’infinitamente piccolo “radicalmente strano e misterioso”[4] rispetto a verità fino ad allora ritenute assiomatiche.

Perché allora cercare delle verità che non esistono, perché inseguire questa illusione? Perché non possiamo farne a meno? È come se – ragiona Baudrillard nel modo metaforico che gli è più congeniale – noi (la storia, il caso, dio) avessimo ucciso ab origine (è “il delitto” originale del titolo) il senso delle apparenze che si affollano nella nostra coscienza, e percepissimo quelle stesse apparenze come tracce di questo assassinio primordiale: come cercare una persona scomparsa i cui effetti personali siano stati rinvenuti lungo le sponde di un fiume. Se ci sono degli effetti personali, quella persona deve essere esistita e deve essere cercata, così come se ci sono le apparenze del mondo e delle cose Qualcuno/Qualcosa che le ha lasciate deve essere esistito e deve essere quindi cercato.

Il fatto è che per Baudrillard mettersi sulle piste di questo Qualcosa che in realtà non esiste, illudersi di poterlo presto o tardi raggiungere e conoscere coincide con la pienezza vitale, con la passione e il desiderio che, loro sì, danno senso alla vita. Dopo aver osservato che le cose continuano a sfuggirci, banalmente per la distanza fisica che ci separa da esse, cosicché anche nei tempi infinitesimali della scienza l’oggetto percepito è sempre temporalmente dislocato rispetto all’oggetto in sé, Baudrillard benedice questo stato di inviolabile segretezza del mondo: “Fortunatamente, viviamo in base a un’illusione vitale, a un’assenza, a un’irrealtà, a una non immediatezza delle cose”.[5]

Questa distanza, che per un verso tanto più ci angoscia quanto più è grande, fino alla nevrosi, per l’altro è spazio vitale per l’intelligenza speculativa, alle prese con le infinite possibilità – irriducibili in fondo, dato il presupposto della inconoscibilità del mondo – che le apparenze hanno di trasformarsi in realtà, in una qualsiasi realtà solida come una verità. Anzi, è bene che il pensiero sia “radicale”, cioè diffidi sempre della perentorietà definitoria dell’altro pensiero suo concorrente, quello che “si crede fondato sulla garanzia di un mondo oggettivo e decifrabile”[6]: il pensiero radicale “È illusione, capacità d’illudere, ossia un gioco con la realtà, come la seduzione è un gioco con il desiderio, come la metafora è un gioco con la verità”.[7]

Poche pagine più avanti il filosofo francese polemizza con “La critica ideologica e moralista, ossessionata dal senso e dal contenuto” e raffronta il pensiero radicale con “l’atto della scrittura”, con la “forza poetica, ironica, allusiva, del linguaggio”.[8] Ciò che davvero conta non è inseguire una realtà-verità che non esiste, ma il gioco del pensiero e della scrittura che ricamano sul Niente travestito da realtà, che smontano e destrutturano – anche ironicamente – il presunto reale, che generano allusioni e illusioni: “La regola assoluta del pensiero è quella di rendere il mondo quale ci è stato dato – inintelligibile – e, se possibile, un po’ più inintelligibile”.[9]

 

Il delitto (quasi) perfetto: la realtà totale della scienza e della tecnologia

Se per Baudrillard le apparenze per l’uomo sono destinate a restare apparenze dietro alle quali non c’è nulla, egli è pure consapevole – nonostante il suo elogio dell’illusione cui lega il fervore e la bellezza del pensiero e del linguaggio, la pienezza della vita – che la storia dell’uomo si è svolta paradossalmente all’insegna della ricerca inesausta di un senso del mondo e delle cose: date le premesse, la storia dell’uomo è a suo giudizio la storia della creazione graduale ma caparbia della realtà, della trasformazione delle apparenze in realtà certificata e indiscutibile.

Realtà peraltro ormai unica, totale, omologata, dotata com’è del crisma veritativo per eccellenza della nostra epoca: quello della scienza e della tecnologia, il vero bersaglio polemico di questo saggio di Baudrillard, che vede in esse e nel loro attuale trionfo la causa prima della morte dell’illusione radicale e vitale.

Se nell’uomo è insopprimibile il desiderio di svelare il segreto del mondo, di conoscerlo per governarlo – pena l’angoscia e la nevrosi di chi è esposto a un destino per definizione cieco -, oggi tecnica e scienza soddisfanno appieno questo suo impulso caratteristico semplicemente prendendo per reali le apparenze, dotandole cioè di un senso non riposto ma esplicito e univoco: questo mondo è reale, le cose sono reali perché rispondono alle teorie e agli esperimenti degli scienziati, la dimensione misteriosa dell’Altro (per Baudrillard naturalmente il Niente, ma poco importa ai fini degli effetti sulla vita dell’uomo), che induce alla ricerca e alla pienezza vitale, è scomparsa.

È una sorta di appiattimento quello che rappresenta il filosofo francese, che non soltanto imputa alla scienza lo sterminio dell’illusione e la sua sostituzione con una presunta realtà-verità assoluta, del tutto trasparente, ma anche il riempimento di ogni spazio della coscienza con la riproduzione virtuale di queste cose ormai senza mistero: “La tecnica è l’alternativa micidiale all’illusione del mondo”, per un verso, per l’altro “con la simulazione tecnica, e con la profusione di immagini in cui non c’è niente da vedere”[10] non siamo più capaci di rincorrere con il pensiero il Qualcosa (il Niente) che si nasconde dietro le apparenze.

È proprio questo il delitto “perfetto” cui allude il titolo del libro: viviamo in un mondo di apparenze che interpretiamo naturaliter come tracce di Qualcuno/Qualcosa che si nasconde – o che forse nichilisticamente non esiste affatto pur producendo con la sua stessa assenza il benefico effetto di farci pensare, di farci indagare, di spingerci alla ricerca e alla conoscenza dell’Altro/altro -, ma se gli oggetti che presumiamo gli siano appartenuti diventano reali in sé, perdono lo status subordinato di indizi dell’esistenza di Altro, allora l’Altro/altro scompare definitivamente dalla scena e il suo “cadavere” non può più neanche essere pensato.

Al di là della finezza simbolica del ragionamento filosofico, Baudrillard ha cura di soffermarsi sulle conseguenze di questo scenario unificato, dominante, verrebbe da dire totalitario del trionfo delle scienze, dei dispositivi tecnologici e tra essi, soprattutto, di quelli di riproduzione del supposto reale (per Baudrillard nient’altro che costruzione artificiale e simulazione), del Virtuale.

Intanto la sostituzione dell’illusione con la realtà-verità totale implica necessariamente la reductio ad unum di tutte le possibilità di significato che il mondo e le cose conservano in potenza a beneficio di una sola, di fatto decretando la scomparsa del mondo, che per Baudrillard esiste solo in quanto enigma.[11]

Scomparso il mondo come enigma, in cui ogni cosa aveva la sua ombra misteriosa, resta una realtà totale senza ombre e senza mistero, una realtà costruita a fil di ragione in cui gli incastri tra le cose – noi compresi – sono così stretti da non lasciare più alcuno spazio: il mondo del Virtuale è un mondo perfetto – ad Alta Definizione[12] dice Baudrillard -, la cui caratteristica principale è la soppressione della distanza “vitale”[13] tra le cose.

Ora, è il pensiero innanzitutto che ha bisogno di distanza, per poter misurare quello che appare rispetto a qualcos’altro, rispetto a una delle infinite possibilità dell’Altro. Nel tempo questo Altro si è manifestato nelle forme delle religioni, delle ideologie, persino – tramontate queste – della riflessione critica. Ora invece, nel mondo perfetto, totale, immediato del Virtuale neppure il pensiero ha più lo spazio per pensare: da speculativo diventa “uno stato d’intelligenza operativa pura”, che incarna semmai “uno stato di disillusione radicale del pensiero”.[14]

Tanto radicale è questa resa del pensiero che oggi non è più la macchina a rispondere ai comandi dell’uomo, ma è l’uomo ad essere chiamato dalla macchina a scegliere un comando tra le opzioni determinate (miei entrambi i corsivi) che essa gli offre (anche a me che sto scrivendo – di fatto sotto tutela “macchinale” – questi righi al computer).[15]

Che dire poi del linguaggio – incalza il filosofo francese – in questa realtà totale, compatta e perfetta (ancorché artificiale) che, cancellando la distanza tra la parola e il suo significato, ha propriamente sancito la morte dell’interpretazione, il gioco infinito e “felice” della parola sulle piste di un senso sempre sfuggente e perciò stesso vitale?[16]

E se nella realtà pienamente dispiegata e compiutamente definita, immobile, della scienza e della tecnica l’intelligenza da un canto è diventata puramente ragionieristica e organizzativa, dall’altra il linguaggio ha perduto la pluralità delle sue forme (lingue e dialetti…) e la poliedricità dei suoi significati possibili per scadere in una sorta di “forma universale di trascrizione che annulla il testo originale”[17], anche la storia ci è stata strappata di mano dal Virtuale, che l’ha ingabbiata in un sistema di riproduzione infinita di cose già viste: “Storia senza desiderio, senza passione, senza veri eventi (…).[18]

Infine, in questa realtà totale, programmata e ormai anche autoprogrammata, data la capacità autonoma assunta dai dispositivi tecnologici di modellarla e di generarla, la scomparsa dell’Altro ha inevitabilmente promosso l’affermazione di un unico paradigma anche a livello antropologico, la definizione esatta, “perfetta” di un modello umano unico che si offre come termine di paragone, che rende comparabile l’incomparabile, che permette di marcare le differenze ma non più di avventurarsi pieni di curiosità nel mistero dell’alterità radicale: si è persa anche la nozione propria di “individuo”, di essere radicalmente e incomparabilmente altro rispetto a tutti gli altri esseri.[19]

 

Le spinte contraddittorie dell’animo umano

Lo scenario disegnato da Baudrillard, dal sapore dichiaratamente apocalittico[20], non può che essere frutto di una disposizione originaria dell’uomo, è figlio di una precisa antropologia.

Si diceva sopra che l’uomo è animato dal desiderio di volere, dal desiderio di credere, da quello di potere, dal desiderio – in definitiva – di conoscere a fondo il mondo e le cose per poterli governare a proprio piacimento. Siamo ab origine alla ricerca di un senso che per Baudrillard non esiste (dato che noi non siamo altro che apparenze tra apparenze che si accampano su un fondale vuoto, sul Niente), ma che tuttavia tiene vive quelle illusioni che sono tutt’uno con il desiderio, con la passione, con la pienezza vitale.

D’altra parte la percezione di una realtà che nasconde un senso, un senso che è rimasto impenetrabile alle religioni, alle ideologie, ai valori morali, coincide con un destino imperscrutabile che genera angoscia e ormai – per una sorta di stratificazione storica – una nevrosi individuale e globale dell’umanità.[21]

Ecco allora che il pensiero scientifico e tecnologico sarebbe intervenuto a creare, letteralmente creare secondo Baudrillard, un mondo virtuale da cui la componente misteriosa e ansiogena sarebbe stata eliminata, insieme però all’illusione vitale di cui a lungo si è detto.

Le parole del filosofo sono a questo proposito nette: “In un mondo virtuale (…) facciamo a meno della nascita e della morte, e al tempo stesso facciamo a meno di una responsabilità talmente diffusa e opprimente da non poter essere assunta. Probabilmente, siamo pronti a pagare questo prezzo per non dover più assolvere l’enorme compito di distinguere il vero dal falso, il bene dal male ecc. Forse la specie è collettivamente pronta a rifiutare l’angoscia morale e metafisica che ne deriva, che ha finito per accumularsi fino alla nevrosi, ed è al tempo stesso pronta a rifiutare il privilegio della coscienza critica, a beneficio di una liquidazione delle differenze, delle categorie e dei valori? (…) Non vi è più polarità, alterità, antagonismo.”[22]

È evidente che il mondo virtuale provoca la scomparsa di tutto il mondo reale, in esso compreso l’uomo, con il suo tratto tipicamente perturbante, appunto l’alterità.

 

Il delitto non è mai perfetto, ovvero “l’illusione indistruttibile”[23]

Il processo è irreversibile? Abbiamo perduto per sempre il desiderio, la passione, la curiosità per l’Altro/altro, per il misterioso mondo reale delle apparenze? Tanto è lontano Baudrillard dal credere questo – coerentemente con quel nichilismo “creativo” cui si faceva cenno all’inizio – che arriva a considerare il trionfo attuale della scienza e della tecnologia una sorta di inspiegabile strategia del mondo e delle cose per tenere in vita l’illusione, per trattenere l’uomo sulla soglia della sua scomparsa (come sempre metaforica: di lui resterebbe l’immagine o, futuribilmente, l’ologramma).

L’argomentazione è come sempre ricca e complessa, ma muove essenzialmente dalla considerazione che le cose continuano a sfuggire davanti alla scienza che le bracca, come l’elettrone che talvolta interagisce con i rivelatori come corpuscolo, talaltra come onda, o di cui secondo il principio di indeterminazione formulato da Heisenberg non è possibile stabilire contemporaneamente, per esempio, la velocità e la posizione. Se il mondo e le cose sanno sempre svincolarsi dall’abbraccio mortale – per noi uomini mortale – del pensiero produttore di senso e di perfezione, allora l’illusione è salva e la realtà continua ad apparirci misteriosa ed attraente.

Il ragionamento più interessante però è quello per cui secondo Baudrillard l’impiego della nostra intelligenza per costruire un mondo virtuale e ipertecnologico in sé perfetto, dotato del senso che ab origine cerchiamo, deve essere interpretato come un “acting out”, locuzione con cui la psicanalisi indica la proiezione all’esterno in comportamenti e atteggiamenti del materiale inconscio responsabile della nevrosi, a scopo terapeutico.

Insomma la nostra realtà virtuale sarebbe il tentativo terapeutico definitivo per guarire dal disagio esistenziale che ci è connaturato: l’Altro che tanto ci angoscia con la sua indecifrabilità scomparirebbe, il mondo trasformato in un congegno compatto e automatico ci esimerebbe dal prendere decisioni e dall’assumerci responsabilità, la marginalità così ottenuta – la “scomparsa”, usando le parole di Baudrillard – risolverebbe anche le incertezze tutte novecentesche circa la nostra effettiva esistenza, dato che “in nessun luogo possiamo dar prova della nostra esistenza e della sua autenticità”[24] se non nel mondo virtuale che ha “ucciso” la nostra presenza, perché solo ciò che esiste può essere ucciso.[25]

Se questo però è il progetto inconscio di un uomo fiaccato dalla nevrosi, è certo che la sua realizzazione risulta ancora una volta fallimentare. Paradossalmente e misteriosamente, infatti, la tecnica riproporrebbe inalterato il mistero del mondo, nel contempo però affrancandosi completamente dal controllo dell’uomo e divenendo strumento delle cose che continuano a restare sfuggenti: “Attraverso le finissime procedure che dispieghiamo per captarlo (scil. “l’oggetto della scienza”), non è forse esso a prendersi gioco di noi e a ridersela della nostra pretesa oggettiva di analizzarlo? Gli stessi scienziati non sarebbero lungi dall’ammetterlo.”[26]

Abbiamo affidato alla tecnica il compito di rendere del tutto trasparente il mondo, di cancellare la sua ombra segreta, ma tutto quello che abbiamo ottenuto è la nostra marginalità, la nostra scomparsa (non alienazione, che ancora presupponeva una presa di posizione dialettica, critica rispetto al reale non ancora assoluto come il nostro virtuale), mentre le cose stesse, la tecnica stessa ci ripresentano intatto lo stesso mistero di sempre: “Alla funzione critica del soggetto è succeduta la funzione ironica dell’oggetto”[27], quasi come se l’oggetto stesso se la ridesse della nostra ingenua pretesa di cancellare “la parte maledetta”, l’imprevedibilità, il destino e con essi l’insopprimibile “gioco” dell’illusione.

 

Lo spazio residuo di intervento dell’uomo

L’avvento del Virtuale, la nuova realtà artificiale a cui la scienza e la tecnica lavorano indefessamente, ha segnato un vero spartiacque nella storia del pensiero: se prima le ipotesi di spiegazione del mondo ingaggiavano scontri quotidiani con il pensiero critico in un agone propriamente dialettico, oggi la realtà, compiuta e dispiegata, non ammette alcun pensiero critico semplicemente perché la certificazione tecnico-scientifica l’ha resa totale, indiscutibile, senza ombre.[28]

Sembrerebbe quindi raggiunto l’obiettivo a cui l’umanità ha mirato fin dalle sue origini, quello di un mondo trasparente, pienamente comprensibile e governabile; eppure – osserva Baudrillard – “siamo arrivati a un tale grado di realtà e di oggettività da poter addirittura parlare di un eccesso di realtà che ci lascia molto più ansiosi e sconcertati della mancanza di realtà, la quale poteva per lo meno essere compensata con l’utopia e con l’immaginario.”[29]

Venuto meno quindi il pensiero critico, e con esso la stessa esistenza del tipico procedimento con cui l’intelligenza si confrontava con il mistero del mondo, ovvero la dialettica, all’uomo secondo il filosofo francese non resta che portare all’eccesso con il pensiero questa presunta positività compiuta, “moltiplicare il positivo con il positivo”, perché “Niente ha lo stesso senso appena è confrontato non con la sua forma incompiuta, ma con la sua forma compiuta, o addirittura eccessiva.”[30]

Il ragionamento filosofico trova la sua chiara e piena esplicazione in un capitolo[31],dedicato all’arte e alla figura di Andy Warhol, che potrebbe essere a pieno titolo considerato un piccolo saggio storico-artistico nella più ampia cornice del saggio filosofico.

A differenza di “Duchamp, Dada, i surrealisti”, intenti a isolare e a destrutturare criticamente l’oggetto della loro rappresentazione “per esaltare la soggettività creatrice dell’artista”[32], il suo punto di vista altro rispetto al reale ritratto, Warhol sceglie di sopprimere la sua interpretazione e di riprodurre come una vera e propria macchina solo l’immagine di un oggetto, senza alcun collegamento con il suo referente naturale: l’immagine pura, tecnica ed eventualmente seriale.

Al di là delle polemiche e delle incomprensioni che alcune sue opere suscitarono per la loro apparente celebrazione di alcuni miti della società capitalista e consumista, basta guardare la serie dei barattoli della “Campbell’s tomato soup”, o la riproduzione del manifesto pubblicitario della Coca Cola, o ancora la moltiplicazione di volti e pose di Marilyn Monroe – modulate secondo variazioni cromatiche che fanno pensare più alle prove di un laboratorio di grafica che non alla raffigurazione realistica della persona – per comprendere che centro dell’opera di Warhol non sono le cose reali e sempre problematiche che ci circondano, ma i loro “simulacri” semplificati, artificiali, piatti e insignificanti che la tecnica ha reso possibili e che ha presto diffuso e globalizzato: il mondo vero ed enigmatico è scomparso, soppiantato da vuote immagini senza senso, riproducibili all’infinito.[33]

Ecco dunque che Warhol, in questo mondo totalmente “positivo” a cui non è più possibile opporre una critica, data la scomparsa di ogni polarità dialettica, non fa che potenziare “macchinalmente” questo nostro nuovo mondo virtuale, in cui persone e cose si moltiplicano senza anima nella forma dei cartelloni pubblicitari, delle icone alla moda o delle elaborazioni grafiche di foto di riconoscimento.

E se da una parte – e coerentemente – questa operazione ha comportato la scomparsa dell’artista come soggetto interpretante del mondo, e con esso dell’arte stessa come suo strumento privilegiato[34], dall’altra essa rivela con la massima intensità possibile il vuoto e l’assenza di significato della nostra realtà fatta di immagini e di rappresentazioni, non più di cose e di persone.

A ben vedere questo modo di combattere il positivo con il positivo, questo disvelamento del vuoto che traspare dietro il pieno delle immagini riaprirebbe lo spazio perduto dell’illusione, che anzi diverrebbe finalmente radicale, perché il simulacro del mondo (nichilisticamente il mondo non può che essere simulacro, dato che non esiste se non in quanto apparenza) sarebbe nuovamente “incondizionato” come ai tempi delle “fantasmagorie inumane di tutte le culture precedenti la nostra”[35]: ognuno può vedere nel vuoto delle cose ciò che vuole, anche oltre la dialettica condizionante della religione, della ideologia o della morale, può “prendere il mondo per il mondo, e non per il suo modello”[36].

Paradossalmente – e significativamente – questo straordinario risultato di “rendere il mondo ancora più illusorio di prima” sarebbe decretato proprio dal trionfo delle tecniche, come Baudrillard afferma esplicitamente: “È proprio questo (…) il destino di tutte le nostre tecniche: rendere il mondo ancora più illusorio”.[37]

 

“L’altro versante”, ovvero gli effetti della scomparsa dell’Altro nel nostro quotidiano

L’affermazione di questo nostro mondo totale e indiscutibile costruito a tavolino dalla scienza e dalla tecnica ha determinato – come Baudrillard si è speso a spiegare nella prima parte del libro – l’annullamento degli spazi vuoti della distanza, e quindi della pre-condizione necessaria per l’esercizio dell’intelligenza speculativa, della critica, da ultimo dell’arte intesa come estetica dell’interpretazione: in una parola è scomparso l’Altro/altro, in tutte le sue forme.[38]

La prima forma fattuale di alterità annullata su cui il filosofo francese si sofferma è quella a suo giudizio incomparabile tra il maschile e il femminile.[39] Se caratteristica fondamentale del Virtuale è la costruzione razionale, misurabile, totale di un mondo senza mistero e senza imprevisti (senza destino), è inevitabile che tutte le cose – anche quelle che appartengono a categorie tra loro incomparabili come, appunto, il Femminile e il Maschile – debbano essere ricondotte ad un unico paradigma, a una matrice comune che permetta di metterle a confronto e di rivelarne semmai le differenze. Quale che sia la ragione dello sterminio dell’alterità – semplicemente la temiamo, o la nostra individualità è diventata così preponderante da pretendere di vedersi specchiata nelle cose? -, “Fatto sta che l’alterità viene a mancare, e che bisogna assolutamente produrre l’Altro come differenza, al posto di vivere l’alterità come destino.”[40]

Mentre però la percezione del sesso opposto come incomparabilmente Altro suscita il desiderio, la passione, l’ebbrezza vitale e un po’ spericolata della seduzione, la riduzione di uomo e donna a un catalogo di differenze anatomiche, biologiche, psicologiche etc. finisce per rendere i due sessi sostanzialmente uguali e quindi indifferenti l’uno all’altro. Anzi, spiega Baudrillard, i connotati superficialmente distintivi di uomo e donna, una volta cancellato il fondo oscuro e inafferrabile dell’alterità, possono facilmente passare dall’uno all’altro, facendo dei giorni nostri “l’era del Transessuale”.[41]

“L’utopia della differenza sessuale” – ragiona ancora il filosofo francese –, subentrata allo sterminio dell’Altro, opera attraverso un meccanismo di proiezione, per cui l’uomo non desidera più la donna reale, ma quella ideale modellata a immagine e somiglianza della sua propria parte femminile, e così, viceversa, la donna: di fatto non si desidera più l’Altro, che al contrario si teme, ma in un certo senso il Medesimo, in un corto circuito che porta inesorabilmente ad una società asessuata.

Nel frattempo, però, questa sessualità proiettiva e ideale sarebbe la causa dei fenomeni attualmente sempre più diffusi della pornografia, approdo della sessualità maschile malata di differenza e di idealizzazione proiettiva, e della “molestia sessuale: caricatura fobica di ogni approccio sessuale, rifiuto incondizionato di sedurre e di essere sedotti.”[42]

Baudrillard non offre proposte concretamente operative per uscire da questa situazione. La soluzione, generale, è però un filo rosso che continuamente si immerge e riemerge tra le righe del libro: “Occorre tenere aperte l’alterità delle forme e la disparità dei termini, occorre tenere vive le forme dell’irriducibile.”[43]

La perlustrazione ragionata del nostro mondo attuale prosegue serrata nelle pagine successive. Se l’eliminazione dell’Altro come mistero e come destino si è compiuta negli ultimi decenni sotto i colpi della scienza e della tecnica e per l’avvento decisivo del Virtuale – di un reale cioè razionale e perfetto a coprire il Reale sempre sfuggente sottotraccia -, è un fatto però che noi senza l’Altro non sappiamo vivere. Ecco dunque che esso viene resuscitato nelle forme della differenza: la donna non è più altra, ma solo differente, lo straniero non è più altro, ma differente, in fondo anche l’individuo per me non è più altro, ma differente. Mentre però la dimensione dell’alterità, con la sua stranezza, genera passione e pienezza vitale[44], la differenziazione superficiale surrogata ci rende “indifferenti” “E segretamente disperati per questa indifferenza, e gelosi di ogni forma di passione, di originalità, di destino.”[45]

È a questo punto che il filosofo inserisce una sua riflessione – pertinente e assai convincente – sulla drammatica situazione balcanica di quegli anni (il 1994 è l’anno dell’assedio serbo di Sarajevo).[46]

L’annullamento dell’Altro e il conseguente paradigma assoluto della differenziazione sono forieri di “Tutte le forme di discriminazione maschilistica, razzistica, etnica o culturale”[47], così come di una fondamentale indifferenza. Questa indifferenza però può sfociare tanto nel razzismo (cerco l’Altro scomparso come diverso da odiare), quanto nella solidarietà umanitaria (cerco l’Altro scomparso come vittima di un destino che temo ma di cui ho una insopprimibile nostalgia).

Ribalta così Baudrillard la logica umanitaria che correva in quegli anni su tutti gli organi di informazione e in tutte le sedi della politica: non gli abitanti di Sarajevo, o i bosniaci in generale sarebbero state le vittime bisognose dell’intervento dell’Occidente, ma noi occidentali le vittime di un ordine ormai antropologico che avrebbe reso asettiche le nostre vite: sottratti all’imprevedibilità della “parte maledetta”, senza un destino, noi uomini della realtà patinata e assoluta del Virtuale avremmo la necessità assoluta di immergerci – davvero per interposta persona – nella realtà vera, drammatica, fatale di chi un destino ancora lo vive quotidianamente.[48]

Ma il passo dalla riflessione filosofica all’analisi storico-politica è breve. In fin dei conti se è logicamente fondato affermare che il nostro bisogno dell’Altro che abbiamo sterminato si traduce nello sforzo – conscio o inconscio – di determinare o cristallizzare situazioni in cui la parte maledetta imperversi senza che noi ne siamo direttamente toccati[49], è d’altra parte indubbio che chi è politicamente deputato a deliberare in conformità a questo assunto ne è anche pienamente responsabile: è “l’Europa reale, l’Europa bianca, imbiancata, integrata e pulita, moralmente come economicamente ed etnicamente.”[50]

Tirate le somme, la società del suo tempo (e profeticamente del nostro) che Baudrillard ritrae è caratterizzata da “passioni senza oggetto, passioni negative, nate tutte dall’indifferenza (…) e dunque destinate a cristallizzare preferibilmente su qualsiasi cosa.”[51]

Questa indifferenza, “che risponde all’indifferenza tecnica delle immagini” dell’informazione globale, d’altra parte, sfocia inevitabilmente nel “nervosismo”, che il filosofo francese definisce efficacemente come “una forma allergica senza un oggetto definito”, a sua volta destinato a trasformarsi in un odio senza oggetto definito, estremamente volubile: “All’odio nato dalla rivalità e dal conflitto si oppone quello nato dall’indifferenza accumulata, che può cristallizzare bruscamente, in un passaggio all’estremo.”[52]

Eppure – conclude Baudrillard – forse quest’odio è paradossalmente il segno auspicato di una reazione a un ordine (mentale, culturale, politico etc.) universale che pretende di “estirpare il male” – inteso al solito come la parte maledetta, misteriosa, irriducibile – dall’uomo “per farne un essere razionale”: “In questo senso l’odio, passione virale, è anche una passione vitale.”[53]

Sotto la patina di una realtà che ci sforziamo di costruire come un congegno integrale, razionale e interamente governabile, dunque, Qualcosa/qualcosa ancora si muove. Abbiamo fatto e facciamo di tutto per fare dell’Altro l’immagine specchiata di noi stessi, per spingere il mondo e le cose dentro lo specchio che ci riflette, che rimanda sempre l’immagine del Medesimo, ma – preconizza Baudrillard – “Questa schiavitù del medesimo e della somiglianza sarà un giorno spezzata dal riapparire violento dell’alterità”[54], senza peraltro che sia dato sapere con quali esiti concreti.


 Note
[1] Vd. AA.VV., L’enciclopedia della filosofia e delle scienze umane, De Agostini Editore, Novara, 1996, s.v. “nichilismo” (curata da Guido Boffi)
[2] Ibidem
[3] J. Baudrillard, Il delitto perfetto, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996, p. 17.
[4] Ivi, pag. 19. Baudrillard cita il fisico Bruno Jarrosson, che conclude significativamente il suo ragionamento ribaltando la prospettiva consueta: “Il mondo microscopico dev’essere (…) considerato così com’è. (…) Dobbiamo quindi pensare che la cosa più strana non è la stranezza del mondo microscopico, ma la non stranezza del mondo macroscopico. Perché i concetti d’identità, di terzo escluso, di tempo e di spazio sono operativi nel mondo macroscopico? Ecco quanto dobbiamo spiegare” (Dal micro al macro – il mistero delle evidenze).
[5] Ivi, pag. 11; cfr. anche pag. 58: “A causa della dispersione e della velocità relativa della luce, tutte le cose non esistono che in differita, in un disordine inesprimibile delle temporalità, a una distanza ineluttabile l’una dall’altra. Esse quindi non sono mai veramente presenti le une alle altre, né “reali” l’una per l’altra. (…) tutto ciò è il fondamento insuperabile, la definizione per così dire materiale dell’illusione”.
[6] J. Baudrillard, op. cit., pag. 103
[7] Ivi, pag. 101
[8] Ivi, pag. 108
[9] Ivi, pag. 110. Che il “gioco” con la vita e con le apparenze sia alla fine più importante del preteso raggiungimento di un obiettivo definito, di un punto d’arrivo che tanto sa di morte, lo scrive d’altronde anche Italo Calvino (di cui è nota la prossimità con gli intellettuali francesi) negli stessi anni, quando ragiona del destino prefissato di Rinaldo: “(…) ci resta il dubbio se ciò che veramente conta sia il lontano punto di arrivo, il traguardo finale fissato dalle stelle, oppure siano il labirinto interminabile, gli ostacoli, gli errori, le peripezie che danno forma all’esistenza” (Italo Calvino, Italo Calvino racconta l’Orlando Furioso, Einaudi, Torino, 1995, p. 20)
[10] J. Baudrillard, op. cit., pagg. 8-9, passim
[11] Ivi, pp. 62-64. In fin dei conti – ragiona Baudrillard – noi preferiamo pensare a una nascita del mondo improvvisa, quasi magica, capace di scatenare “l’immaginazione poetica” e quindi l’illusione: “l’illusione è costituita da questa parte magica, da questa parte maledetta (corsivo mio)”. Impossibile non cogliere qui un riferimento diretto a Georges Bataille e al suo La parte maledetta (Parigi, 1967): la parte maledetta è quella che viene sottratta al consumo utilitaristico e quindi, secondo Bataille, servile (come le vittime, anche umane, dei sacrifici), e restituita pertanto all’ordine del sacro, dell’”intimità perduta”, della “libertà interiore” (Bollati Boringhieri, Torino, 2015, p. 106), un mondo del tutto precluso al pensiero raziocinante e definitorio della scienza e della tecnica.
[12] Ivi, p. 35: “Il concetto chiave di questa Virtualità è l’Alta Definizione. Quella dell’immagine, ma certamente anche quella del tempo (il Tempo Reale), della musica (l’Alta Fedeltà), del sesso (la pornografia), del pensiero (l’Intelligenza Artificiale), del linguaggio (i linguaggi numerici), del corpo (il codice genetico e il genoma”.
[13] Ivi, pp. 58-59: “Questa distanza è vitale, poiché senza di essa non percepiremmo proprio niente. (…) Questa distanza, questa assenza sono oggi minacciate. (…) La minaccia teleinformatica è quella di una soppressione del buio, della preziosa differenza tra notte e giorno, mediante un’illuminazione totale di tutti gli istanti.”
[14] J. Baudrillard, op. cit., pag. 23
[15] Ivi, p. 38: “il sistema del pensiero si allineerebbe rapidamente a quello della macchina. Esso finirebbe per captare e trattare soltanto quello che la macchina può captare e trattare, o comunque su sollecitazione della macchina. È già così con i computer e con l’informatica.”
[16] È sempre Baudrillard che qualche pagina più avanti (p. 108), riguadagnato un ottimismo filosoficamente fondato, afferma risolutamente che “la lingua e la scrittura invece illudono sempre – esse sono l’illusione vivente del senso, la risoluzione dell’infelicità del senso mediante la felicità della lingua.” È del tutto evidente che il senso è (paradossalmente) infelice perché inafferrabile, mentre la lingua è felice perché vive intensamente, appassionatamente l’esperienza vitale dell’indagine e della ricerca del senso (che esso ci sia o – meglio – non ci sia affatto).
[17] J. Baudrillard, op. cit., p. 95. Si pensi solamente alla diffusione dei traduttori automatici di Google etc.
[18] Ivi, pag. 53.
[19] Ivi, pag. 130: L’individuazione apparteneva all’epoca d’oro di una dinamica del soggetto e dell’oggetto. (…) non si può più parlare di individuo, ma solamente del Medesimo e dell’ipostasi del Medesimo”.
[20] Il filosofo non esita a intravedere nei contenuti della sua analisi “la soluzione finale, la risoluzione anticipata del mondo tramite la clonazione della realtà e lo sterminio del reale col suo doppio.” (J. Baudrillard, op. cit., p. 31). Si intende che i termini “realtà” e “reale” sono in questo senso le apparenze misteriose di cui si nutre la “sacra illusione”.
[21] Cfr. J. Baudrillard, op. cit., p. 43: “Infatti, il concetto di realtà, se rinforza l’esistenza e la felicità, rende ancora più sicuramente reali il male e la sventura. In un mondo reale anche la morte diventa reale, e secerne un terrore che ha la sua stessa forza.” Naturalmente la “realtà” a cui qui il filosofo si riferisce non ha nulla a che vedere con quella piatta e artificiale del Virtuale, che ha sterminato l’Altro: la “parte maledetta” che Baudrillard ha mutuato verosimilmente da Bataille.
[22] Ibidem.
[23] J. Baudrillard, op. cit., pag. 67
[24] Ivi, pag. 44
[25] Cfr. ibidem: “Il delitto è all’origine di tutte le culture, come l’acting out per eccellenza. E in questo senso la stessa impresa tecnologica può passare per una proiezione criminale, per un acting out sacrificale, per un esorcismo, una di quelle forme eccentriche che eludono la gravità dell’esistenza.”
[26] J. Baudrillard, op. cit., pag. 78
[27] J. Baudrillard, op. cit., pag. 79
[28] Cfr. ivi, pag. 70: “Finora abbiamo pensato una realtà incompiuta, travagliata dal negativo; abbiamo pensato quel che mancava alla realtà. Oggi si tratta di pensare una realtà alla quale non manca niente, degli individui ai quali non manca potenzialmente niente, e che dunque non possono più sognare un’elevazione dialettica.”
[29] ivi, pag. 69
[30] ivi, p. 71, passim
[31] Il capitolo, intitolato Lo snobismo macchinale, è compreso nella prima sezione dell’opera (pp. 81-90).
[32] J. Baudrillard, op. cit., pp. 82-83, passim
[33]J. Baudrillard, op. cit., pag. 82: “Questo è Warhol e la sua ipostasi seriale dell’immagine, della forma pura e vuota dell’immagine, la sua serie di icone estatica e insignificante”
[34] Cfr. ivi, p. 86: “L’estetica restituisce un dominio del soggetto sull’ordine del mondo (…)”
[35] Ivi, p. 86
[36] Ivi, p. 94
[37] Ivi, pag. 89
[38] Cfr. J. Baudrillard, op. cit., p. 117 per una rapida sintesi di queste forme dell’altro: “(…) l’altro in tutte le sue forme (malattia, morte, negatività, violenza, stranezza), senza contare le differenze di razza e di lingua, (…) tutte le singolarità (…)”. Un elenco ancora più esaustivo, corredato di una bruciante spiegazione della sua scomparsa ad opera del Virtuale, è nella pagina introduttiva di questa seconda sezione (p. 113). Cito ad esempio l’alterità “della morte, che si scongiura con l’accanimento terapeutico”, o “Quella del volto e del corpo, che si perseguita con la chirurgia estetica”. La serie si conclude significativamente con l’attestazione che “Non vi è più destino”.
[39] Cfr. ivi, p. 126: “Il Femminile e il Maschile sono (…) due termini incomparabili.”
[40] Ivi, pag. 119
[41] Ivi, p. 121. Cfr. anche più sotto (pp. 121-122): “L’utopia della differenza sessuale termina nella commutazione dei poli sessuali e nello scambio interattivo. Al posto di una relazione duale, il sesso diventa una funzione reversibile.”
[42] J. Baudrillard, op. cit., p. 125
[43] Ivi, pag. 127. Cfr. anche p. 134:” Possiamo soltanto ricordarci che la seduzione consiste nella salvaguardia della stranezza, nella non riconciliazione. Non bisogna riconciliarsi con il proprio corpo, né con sé stessi, non bisogna riconciliarsi con l’altro, non bisogna riconciliarsi con la natura, non bisogna riconciliare il maschile e il femminile, né il bene e il male. In ciò risiede il segreto di una strana attrazione.”
[44] Anche nelle forme opposte della attrazione o della repulsione, precisa Baudrillard chiamando in causa i “resoconti antropologici fino al XVIII secolo, e persino (…) la fase del colonialismo” (p. 136)
[45] J. Baudrillard, op. cit., pag. 135
[46] Si tratta di una autocitazione, dato che viene riprodotto l’articolo originale apparso sulle pagine di Libération il 6 gennaio 1994, come spiega l’Autore in una nota (p. 136, nota 1)  
[47] Ibidem
[48] Cfr. J. Baudrillard, op. cit., p. 138: “Noi però sappiamo meglio di loro cos’è la realtà, poiché li abbiamo designati a incarnarla. O semplicemente perché si tratta di ciò di cui noi, e tutto l’Occidente, manchiamo maggiormente. Bisogna andare a rifarsi una realtà là dove c’è sangue”
[49] Alla pag 141 Baudrillard definisce la nostra una “società vittimale”, intesa “come la forma più facile e più banale di alterità. Resurrezione dell’Altro come sventura, come vittima, come alibi – e di noi stessi come coscienze infelici che ricavano da questo specchio necrologico un’identità a sua volta miserabile.”
[50] J. Baudrillard, op. cit., pag. 140. Pochi righi sotto, ad allargare il quadro di questa ghettizzazione dell’Altro, il filosofo spiega l’immobilismo europeo del tempo come “una fase logica e ascendente del Nuovo Ordine Europeo, filiale del Nuovo Ordine Mondiale, che è ovunque caratterizzato dall’integralismo bianco, dal protezionismo, dalla discriminazione e dal controllo.”
[51] Ivi, pag. 148
[52] Ivi, pagg. 150-151, passim
[53] Ivi, pag. 152. Acuta e lungimirante, poco sotto, l’estensione dell’analisi al campo della geopolitica: “È lo stesso sentimento che nutre, in tutti i popoli non occidentali, questa denegazione viscerale, profonda, di ciò che rappresentiamo e di ciò che siamo. Come se anche questi popoli avessero l’odio. Per quanto si prodighi loro tutta la carità universale di cui siamo capaci, vi è in essi una specie di alterità che non vuole essere compresa (…).”
[54] J. Baudrillard, op. cit., pag. 154

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