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manifesto

L'ossessione ricorrente: abbattere la previdenza pubblica

Felice Roberto Pizzuti

pensionati1Nelle «Considerazioni finali» si trovano preoccupanti riferimenti alla previdenza. L'idea di fondo è che «Un riequilibrio duraturo richiede un intervento sul sistema previdenziale».

L'intervento dovrebbe caratterizzarsi per l'aumento dell'età pensionabile e per l'aggiornamento dei coefficienti di calcolo delle pensioni; ma, più sostanzialmente, andrebbe molto più sostenuta la previdenza privata verso cui andrebbe dirottata anche una quota della contribuzione attualmente destinata alla previdenza pubblica.

Circa i collegamenti tra bilancio pubblico e pensioni vale la pena ricordare che il saldo tra i contributi incassati e le prestazioni previdenziali effettivamente erogate, cioè al netto delle trattenute fiscali, è positivo per un ammontare pari a circa mezzo punto di Pil. Dunque, attualmente, il bilancio pubblico è avvantaggiato, non peggiorato, dal sistema pensionistico previdenziale.

L'età di pensionamento effettiva dei lavoratori italiani è solo di 7 mesi più bassa della media europea, ma è superiore rispetto a quella d'importanti paesi come la Francia che, tra l'altro, ha una spesa pubblica complessiva più elevata della nostra e una crescita economica maggiore. In Italia, invece, il tasso d'occupazione è tra i più bassi in Europa, per motivi strutturali che evidentemente attengono alla scarsa capacità del nostro sistema produttivo di creare occupazione; in questo contesto, finché non verrà modificato, forzare l'aumento dell'età di pensionamento implicherà ridurre il turn over, aumentare la disoccupazione giovanile, peggiorare la composizione della forza lavoro e, dunque, ostacolare anche il rinnovamento produttivo.

 

Aggiornare i coefficienti di trasformazione sicuramente è funzionale all'equilibrio attuariale del sistema contributivo, ma tale equilibrio non è affatto neutrale rispetto al tipo di equilibrio economico e distributivo. Tutti sanno che i tassi di copertura pensionistici previsti con il sistema pubblico nell'assetto attuale sono largamente insufficienti; l'adeguamento dei coefficienti contribuisce significativamente a questo risultato. Da qui al prossimo mezzo secolo, mentre il rapporto tra gli ultrasessantacinquenni e la popolazione in età attiva raddoppierà, il rapporto tra la spesa pensionistica e il Pil rimarrà sostanzialmente costante. L'equilibrio distributivo che si sta perseguendo è dunque di impoverire significativamente la quota crescente degli anziani, mentre non è affatto certo che la crescita economica se ne gioverà.

La soluzione a tutti questi problemi dovrebbe arrivare dal forte sviluppo della previdenza privata, tanto forte da essere ben altro che «complementare»; infatti dovrebbe compensare non solo l'inadeguatezza della copertura prospettata dal sistema pubblico nel suo assetto attuale, ma anche una sua ulteriore riduzione da ottenersi con l'abbassamento delle aliquote contributive vigenti.

E' evidente cha dal punto di vista macroeconomico del trasferimento di reddito correntemente prodotto dagli attivi ai pensionati, operare con un sistema pensionistico pubblico a ripartizione o con uno privato a capitalizzazione non fa differenza: le minori risorse affidate al primo andrebbero dirottate al secondo e, nel lungo periodo, non c'è sicurezza che le prestazioni sarebbero maggiori (e se lo fossero, ci sarebbe il «temuto» aumento del rapporto tra spesa pensionistica e Pil!). Né la letteratura economica assicura che un maggior ruolo del sistema pensionistico privato rispetto a quello pubblico favorirebbe la crescita. E' più sicuro, invece, che la previdenza privata sarebbe caratterizzata da una maggiore instabilità dei rendimenti finanziari e, dunque, delle prestazioni; cosicché la «sicurezza sociale» cui le pensioni dovrebbero concorrere diminuirebbe, a scapito non solo degli equilibri sociali, ma anche di quelli economici. E' poi singolare che per sostenere la convenienza di un ruolo ampiamente sostitutivo della previdenza privata si ricordi che essa può beneficiare dei contributi aziendali e del favorevole trattamento fiscale. Forse che i primi non influenzano il costo del lavoro e il salario netto come i contributi al sistema pubblico? E gli sgravi fiscali non peggiorano il bilancio pubblico che pur si vorrebbe migliorare riducendo il sistema pensionistico pubblico?

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