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lavoro culturale

Il ghiaccio era sottile. Per una storia dell’autonomia*

di Marcello Tarì

Nelle tante peregrinazioni, incontri fortuiti, discussioni circostanziate e chiacchiere senza scopo fatte qui e là nel mondo, mi è spesso capitato di dibattere o di essere interrogato dai miei compagni di parola sulla breve vicenda storica narrata in questo libro il quale, in tutta evidenza, si è costruito dentro e insieme a questi incontri. Quello che io stesso e i miei amici abbiamo imparato al riguardo è molto semplice in fin dei conti e cioè che la storia dei movimenti autonomi italiani degli anni ’70, man mano che passavano i decenni, invece di fissarsi nel passato è divenuta un punto di riferimento importante nell’immaginario politico di tutti coloro che ovunque, nel presente, provano a organizzarsi in senso rivoluzionario.

Certamente si tratta di un immaginario frammentario, basato molto spesso sul “sentito dire” e su informazioni indirette, ma che porta con sé molto più di una semplice curiosità storiografica: contiene la ricerca e la scrittura collettiva di una sorta di romanzo di formazione che accompagni le lotte in corso. Nessun “professore” o “maestro” può, oggi come ieri, scrivere questo romanzo i cui capitoli prendono nome dai luoghi o dalle date delle rivolte, da episodi minori di resistenza, da esperienze di vita collettiva particolarmente felici, da titoli di libri che viaggiano come dei proiettili oppure da nomi propri divenuti dei «personaggi concettuali». Un racconto la cui cronologia non rispetta quella ordinata, «omogenea e vuota», dettata dalla storiografia imperiale ma risponde solo alla discontinua densità della temporalità rivoluzionaria.

Le motivazioni più profonde di questa attrazione fatale verso quel frammento di passato non sono facilmente deducibili e ciò credo valga in particolar modo per l’Italia, dove tra rimozione della storia e repressione dei movimenti e tra mistificazione del ricordo e postmodernismo estremista corre una distanza pari a zero. E tuttavia, ovunque vi sia un gruppo di giovani compagni dotati di una viva intelligenza e abbastanza decisi a sfidare il presente inevitabilmente il linguaggio delle lotte e la pratica di vita si ricostruiscono in un serrato confronto con la rielaborazione di una vicenda che si riapre in parole quali insurrezione, autonomia o comunismo.

Il legame che si instaura tra il presente e un passato facendo così apparire una nuova costellazione, lo sappiamo bene, deriva da un arresto del movimento e non dal suo continuare indefinito, catastrofico. Questo ci fa pensare che è proprio sul fallimento del movimentismo che ha saturato gli ultimi dieci anni, cioè sul suo arresto, particolarmente visibile in Italia in tante immagini che bruciano, ultima quella del 15 ottobre 2011 - ma anche altrove: da Londra a Il Cairo e da Oakland a Barcellona -, che l’autonomia degli anni ’70 incontra il presente in quanto possibilità. Non stupisce allora che anche chi proviene da altri percorsi, come è il caso di molti che continuano a professarsi anarchici, quando è impegnato a costruire insieme a tutti gli altri un piano di consistenza sovversivo all’altezza dei tempi si rivolga a quella costellazione teorico-pratica per trarne ispirazione. Infatti, almeno per come noi la leggiamo, la vicenda autonoma è anche una incitazione a farla finita con la cura maniacale che gli ambienti radicali fanno della propria pretesa «identità politica». Perciò non dobbiamo spaventarci di quella strana sensazione di estraneità - anche a noi stessi - che proviamo dopo aver vissuto, ad esempio, il momento di «arresto» che produce una rivolta come quella del 15 ottobre romano. È una sensazione di spaesamento che è salutare, una desoggettivazione che ci impedisce di continuare a vivere come prima e ci invita a esplorarne le potenzialità. Vivere fino in fondo questa crisi della presenza oppure ripercorrere la strada della rimozione: delle due l’una.

In gran parte lo sforzo nel pensare questo testo, scritto pensando principalmente a degli interlocutori non italiani, è stato dedicato a cercare di leggere tra le righe del nostro passato la verità del tempo che viviamo: ogni genealogia riguarda inevitabilmente un presente. In questo senso non è in alcun modo un caso che oggi la parola insurrezione sia tornata a risuonare da un lato all’altro del mondo e che, nel momento in cui la democrazia è divenuta propriamente un significante vuoto e il regno della separazione comincia a mostrare delle grosse crepe, la questione comunista ricompaia sullo skyline della metropoli sospinta violentemente dal trionfo/crollo del neoliberalismo.

La temporalità rivoluzionaria, si è detto tante volte, procede per salti ed è vero, ma comincia sempre di nuovo dall’incompiuto di una possibilità. Questo incompiuto e questa possibilità, beninteso, non richiedono oggi di mettersi a recitare a soggetto - sarebbe del tutto ridicola, più di quella del passato, la scena in cui qualcuno esclami “io sono un autonomo!” (o “anarchico” o “indignato” o qualsiasi altro simile predicato). In realtà ne abbiamo fin troppi di «attributi» che ci appesantiscono definendoci in quanto soggetti. Quello che invece è importante sta nella maniera di abitare ciascuna delle determinazioni di cui siamo fatti e di farlo collettivamente. Essere capaci di legare il fatto di essere con le determinazioni che ci rendono singolari e perciò comuni. Potrebbe voler dire determinare un’indistinzione tra il come si pensa e il come si vive, ovvero darsi una forma-di-vita come uso e condivisione di un mondo che, allo stesso tempo, sia capace di slegare dall’esistenza tutte quegli attributi che ne diminuiscono la potenza, a cominciare da quelli “economici”. Ecco l’enjeu a cui qui si fa riferimento.

Il comunismo come questione etica e politica comincia proprio qui, da questa capacità delle forme-di-vita di costituirsi autonomamente come movimento che abolisce lo stato di cose presenti tenendo insieme ciascuno dei piani che lo fa esistere come una potenza collettiva: quello dei mezzi materiali (la facoltà comune di produrre, curarsi, coltivare, ecc), quello spirituale (la condivisione dell’uso dei saperi, della poesia, della musica, delle immagini, ecc) e quello che concerne la capacità di scontro (la potenza di resistere e di attaccare, l’intelligenza del sabotaggio, la comunicazione tra avanguardia e movimenti, ecc). Poiché il capitalismo come forma di governo non è altro che l’espropriazione di queste capacità: è l’autonomia del denaro e della merce, è l’impossibilità di fare uso del mondo e la distruzione di tutti quei legami che rendono possibile abitare una vita comune. È l’induzione all’impotenza. È la dittatura democratica. È la noia dell’«alternativa». È l’illusionismo dei diritti. È l’annientamento della facoltà di legare la nostra storia con quella che Walter Benjamin chiamava «tradizione degli oppressi», quella che va incessantemente ri/vendicata.

In quegli anni ’70, oggi più vicini che mai, il tentativo di fare secessione dalla società del capitale e di vendicare gli oppressi fu messo in opera da migliaia di esseri orientati offensivamente verso la possibilità di una felicità collettiva. L’insurrezione del ’77 fu la logica accelerazione di questa sperimentazione di massa, a cui rispose una controrivoluzione di proporzioni e durata giganteschi i cui frutti vediamo oggi in tutta la loro velenosa materialità. Per questo portare a compimento quel possibile è ciò a cui la costellazione del presente ci chiama.


Appunti per una discussione su autonomia e critica dell’attualità.

i) Una delle intuizioni del movimento autonomo italiano fu quella di riuscire a comprendere praticamente l’esaurirsi del Movimento Operaio e delle sue istituzioni rappresentative in quanto presunto motore del conflitto anticapitalistico e anzi di reinterpretare la sua storia come continuo scontro, interno ed esterno, tra una frazione del capitale collettivo – che identifichiamo facilmente con la “sinistra” - e un’altra parte, effettivamente rivoluzionaria, che fa continuamente secessione da quella. L’autonomia si diffonde fuori e contro qualsiasi ipotesi di aggiustamento interno alla governamentalità capitalistica. La sinistra, in definitiva, è uno degli ostacoli più ingombranti al dispiegamento della vera conflittualità storica.

Nel presente è ancora più evidente di trenta anni fa che l’insurrezione non ha davanti a sé, in quanto nemico, un soggetto – la borghesia, lo Stato o altro - ma è la totalità organizzata del sociale a presentarsi immediatamente come campo delle ostilità. Il regime democratico-biopolitico, di per sé, è costituito da un insieme di relazioni sociali neutralizzanti che riproducono la “società”, un agglomerato informe che secerne i peggiori affetti. L’Impero, quindi, non consisterebbe in una serie più o meno omogenea di istituzioni sovranazionali ma può essere considerato molto più realisticamente come la codificazione strategica di quelle relazioni sociali, che oramai sono divenute le uniche istituzioni funzionanti e la cui coerenza è garantita universalmente dalla scienza di polizia. Il denaro e la polizia sono i soli medium che legano e separano allo stesso tempo gli esseri all’interno di queste relazioni e l’attuale impetuoso rivelarsi della «finanza» come dispositivo centrale del governo, insieme alle tecnologie di controinsurrezione, ne sono la conferma e l’esplicitazione a livello globale e di massa. Il dominio totalizzante dell’economia sul politico, nella sua celeste astrattezza e nella rarefazione angelica delle sue incarnazioni ministeriali, fa risaltare ancor più chiaramente il fatto che non c’è alcun “soggetto” dominante che ci fa fronte. Da qui ne deriva una considerazione, altrettanto strategica, che negli anni ’70 non si riuscì a svolgere fino in fondo esponendo i movimenti agli errori più ovvi: nel corso del combattimento non si tratta di annientare dei soggetti quanto di annientare l’ambiente costituito dai dispositivi di produzione-controllo che rendono possibile il governo. Inoltre essendo la società stessa a presentarsi, infine, come un gigantesco dispositivo di controllo governamentale, pare evidente che nessun appello alla “società civile” sortirà l’effetto di una rivolta contro lo stato di cose presenti. Rompere il rapporto di produzione allora significa anche sabotare tutte quelle forme di relazione sociale che producono incessantemente la fiera di soggettività tramite cui ci si valorizza e in cui viene imprigionata l’esistenza. In questo senso oggi il concetto di «autovalorizzazione», un tempo molto in auge in alcune frazioni dell’autonomia, non solo è inutilizzabile ma appare perfino tangente allo spirito della controrivoluzione. Dall’altro lato è bene precisare ancora una volta che nemmeno noi – il partito che si oppone a quello dell’ordine - costituiamo un «soggetto radicale» che fa fronte alla dominazione e che, anzi, ogni soggettivazione in questo senso rientra nel gioco di ciò che è governabile.

La sinistra è stata ed è il principale ostacolo alla rottura di quel rapporto e di quelle relazioni. Sarebbe oramai dovuto essere chiaro a chiunque che lo scontro dell’autonomia con la sinistra, consumatosi in Italia nel ’77 con l’assalto al palco di Luciano Lama, fosse qualcosa di definitivo. Tuttavia così non è e ancora oggi è necessario riaffermare con la forza l’esteriorità di ogni movimento rivoluzionario a qualsiasi ipotesi di gestione di sinistra della conflittualità storica. Una gestione che mira, senza troppi misteri, a diminuirne la potenzialità fino a renderla compatibile con i più vari livelli di devastazione e di alienazione passati, presenti e futuri. Diciamo meglio: essa mira a trasformare la conflittualità stessa in meccanismo di innovazione del governo e di sviluppo del capitale. L’unica autonoma produzione di soggettività della sinistra e degli attuali “alternativi” che le reggono la coda consiste d’altronde nella più squallida serialità di esistenze votate all’identificazione totale con la piccola borghesia – la non-classe per eccellenza -, quella folla che infatti è oggi preda dei peggiori istinti delatori. Se nel ’77 lo scontro era non solo tra movimenti e istituzioni statuali ma anche tra autonomia e burocrazia operaia, ciò che dava alla battaglia un tocco di tragica dignità, oggi esso si svolge contro delle “personalità” completamente immerse nel vacuo mondo dello spettacolo, dei difensori delle vuote rovine dello Stato, dei piccoli eroi del lavoro salariato, dei manager di movimento falliti, dei fans e delle groupies di istituzioni decadenti, degli accaniti persecutori di ogni atto di sovversione che accenni a trasformare il reale in maniera differente da come si condurrebbe un talk show.

La potenza di divisione dell’autonomia, oggi come allora, va dunque riproposta non solo come fattore di disgregazione della società governamentale ma anche all’interno dei movimenti sociali in quanto forza che libera la conflittualità dalle maglie della mediazione, cioè da qual dispositivo che separa continuamente il pensiero dall’azione e la forma dalla vita sciogliendo tutto nell’impotenza barcollante dell’opinione pubblica. «Dividere la divisione», liquidare le false differenze per far spazio a quelle vere, rientra così a pieno titolo in una visione del politico che si vuole strategica.


ii) Autonomia vuol dire che il comunismo non viene “dopo” né “prima”, bensì che esso consiste in una processualità che si svolge dentro la nostra stessa attualità. Lottare per il comunismo e vivere il comunismo sono in questo senso i due lati, negativo e positivo, di una stesso gesto.

I movimenti autonomi ci hanno mostrato che il dispiegamento della negatività non è la “prefazione” del futuro. Questo significa che la furia della rivolta non è separata dall’intelligenza che costruisce la possibilità di vivere altrimenti. La cooperazione che vive nel sabotaggio della metropoli è la stessa che è capace di costruire una comune. Saper innalzare una barricata non vuol dire molto se allo stesso tempo non si sa come vivere dietro di lei. Abbiamo tanto da imparare, in un senso come nell’altro.

Gli affetti che circolano tra dei compagni e delle compagne non sono suddivisi tra un dentro e un fuori: si dispiegano e si inclinano a seconda delle situazioni che sono in grado di vivere. Una situazione rivoluzionaria è quella situazione in cui disarticolazione dell’ambiente nemico e frammenti di comunismo circolano anarchicamente, in cui vibra un’intensità capace di concentrarsi su di un azione offensiva alla stessa maniera in cui fa avanzare l’abitabilità di un mondo. La situazione rivoluzionaria allora non è solamente ciò attraverso cui si contorna meglio l’oggetto delle ostilità, ma è ciò che fa sì che l’amicizia ridiventi finalmente un concetto politico.

La retorica antagonista sul «ritorno nei territori» è insopportabile: non esiste nessun territorio a prescindere dalla capacità di lotta, così come non esiste capacità di offensiva senza la presenza di basi materiali. Altrimenti l’unico vero ritorno sarà quello verso il nulla. Solamente l’incrociarsi di un conflitto diffuso con la sperimentazione locale di una forma-di-vita può “fare il territorio”. Difatti il lamentoso ritornello del «ritorniamo ai territori» riappare ogni qualvolta, magari dopo un momento di rivolta molto intenso, non si sa che fare poiché non solo non c’è il coraggio di approfondire quel momento di sospensione ma non si ha nessun vero legame con delle situazioni viventi e nessuna amicizia politica con cui condividere uno spazio qualsiasi. Se, ad esempio, un «quartiere liberato» è un quartiere in cui i rapporti mercantili hanno poca o nessuna presa, un luogo dentro il quale l’economia dei dispositivi smette di funzionare, ovvero la fine del deserto sociale, autonomia significherà innanzitutto darsi i mezzi materiali ed elaborare le relazioni affettive che permettono a questa indipendenza di durare e diffondersi. In questo senso non si tratta tanto di “occupare” luoghi, territori o altro ancora, bensì di liberare questi dall’occupazione della polizia e delle relazioni mercificate che, tramite i dispositivi, ne sanciscono l’inabitabilità poiché funzionano separando volta a volta l’oggetto dal suo uso, la parola dal suo potere, il pensiero dall’azione, l’immagine dalla sua passione, e così via. Ogni passo in avanti nel rovesciamento di questi ostacoli all’abitare il mondo è una possibilità di intensificazione del comunismo. «Autonomia diffusa», ieri come oggi, vuol dire la diffusione ovunque di pratiche che mentre sperimentano la condivisione siano in grado di rompere l’accerchiamento dei dispositivi che si oppongono alla sua realizzazione.

Non vi è nessun «bene comune» separato dall’uso comune che si può fare dei mondi che abitano i corpi e dei corpi che li attraversano. Per questo vivere il comunismo è anche mettere in discussione ogni genere di diritto proprietario: non alla proprietà comune ma a un uso fuori dal diritto va commisurato il suo essere in atto. Del socialismo ne abbiamo avuto davvero abbastanza e finché ci si aggirerà nei dintorni della metafisica della proprietà e del diritto non si riuscirà a intravedere la fine della civiltà del capitale. Ogni qualvolta siamo in grado di deporre il diritto e di liberare l’uso quella fine è più prossima. Uscire dal paradigma dell’economia va necessariamente di pari passo con la sovversione di quello del governo.

Dovrebbe essere evidente che ogni volta che si dice comunismo non si tratta affatto solo di oggetti da produrre o di macchine per produrre ma di una relazione alle cose, alle macchine, alle piante, al mondo, in cui circolano degli affetti e dei corpi i quali accedono a una forma-di-vita che si determina materialisticamente come comune. È l’uso solamente che permette di liberare in ogni oggetto e in ogni corpo, in ogni parola e in ogni immagine la forma-di-vita attraverso cui un comune si singolarizza e viceversa, cioè di lasciar essere la sua stessa libertà. La questione del comunismo consiste nell’elaborazione dell’uso tra quelli che abitano e condividono uno stesso mondo. Infine, non si può possedere o volere il comunismo: esso avviene gratis.


iii) L’autonomia non ha mai liquidato il problema del partito, tutt’altro, mentre lo ha fatto con quello dell’Organizzazione. Autonomia ha significato cercare di rielaborare incessantemente la questione del partito rivoluzionario in quanto problema del come ci si organizza a partire da quello che c’è, quello che si vive e si sente collettivamente, cioè a partire dalla molteplicità per tornare alla molteplicità procedendo in un senso né verticale né orizzontale bensì trasversale. Il partito dell’autonomia è un labirinto senza centro che si espande anarchicamente: inizia a vivere nel sé disgregato, a/traversa il piccolo gruppo, la casa collettiva, gli affetti, le manifestazioni, le armi, la produzione, per investire, con la sua violenta capacità di comunicazione, la totalità dell’organizzazione sociale al fine di rompere gli automatismi del suo funzionamento. Per far questo non c’è alcuna necessità di un’Organizzazione che controlli tutto o che esprima una “volontà generale”, ma di un piano di consistenza tanto raggiungibile quanto potente. Al termine degli anni ’70 il movimento autonomo fu sconfitto anche a causa della riterritorializzazione su formule di organizzazione che guardavano più alla gestione del conflitto che non alla circolazione dei suoi mezzi, dei suoi saperi e dei suoi affetti, cioè in quanto trasmissibilità della sua esperienza. Per questo oggi la riappropriazione di quella esperienza non è affatto una questione storico-testamentaria ma, anch’essa, esclusivamente di uso.

Il partito ricompone trasversalmente ciò che appare come scisso. Un mondo in cui si vorrebbe che la «politica» sia qualcosa di differente da tutto il resto è un mondo in cui l’esistenza è suddivisa in“settori produttivi” quali la cura di sé, la cultura, il lavoro, l’amore o l’arte, ognuno privato della sua potenza. La politica così non appare essere altro che un dispositivo di separazione e di infelicità, per questo è ovunque disprezzata. Il partito invece è una macchina da guerra, guarda non alla politica ma al politico, non parte dalla separazione ma dal comune che è vi è già. In questo mondo la riconquista di un punto di vista partigiano mette a giorno la semplice verità comune che non esiste nessun luogo, collettivo o individuale, che sia esterno al politico. L’odio diffuso per la politica va tradotto nella riappropriazione di questa verità.

Il biopotere infatti consiste principalmente nel fatto che la politica entra fin dentro il funzionamento biologico dell’esistenza umana per depoliticizzarla, separandola così dalla sua potenza, per questo il concetto di partito di cui abbiamo bisogno riguarda il fatto che l’esistenza è di per sé politica in ogni suo aspetto e che quindi esso non consiste nell’organizzazione esterna che debba o possa politicizzare le masse, la classe o la moltitudine – quella che sarebbe effettivamente una “biopolitica” - ma solamente il mezzo della riappropriazione e condivisione di questa irriducibile potenza della vita. Questa è infatti l’oggetto principale delle attività del governo al fine di respingerla e trattenerla in una sorta di passiva clandestinità. Il partito dell’insurrezione assume positivamente questa forma di esistenza, tramutandola da passiva in attiva, cioè volgendo l’invisibilità del politico nell’esistenza qualunque in arma a disposizione di chi si organizza per lottare e vivere altrimenti. Parafrasando qualcuno che se ne intendeva: invisibile al potere, non a chi gli sfugge. Quando l’autonomia diceva «illegalità di massa» forse bisogna intenderla allora non solo come l’esercizio di un’attività politica particolare – autoriduzione, esproprio, ecc - ma come la qualità stessa che attraversa un’esistenza autonoma. La «vera vita» in questo mondo può essere solo illegale, ingovernabile proprio perché vivente contro e al di fuori del diritto. Il partito è l’organizzazione cosciente di questa esteriorità, o meglio, il processo che trasforma l’estraneità in intimità tra eguali, ciò che vuol dire effettivamente che il partito rivoluzionario è un organizzazione delle sensibilità tramite cui sviluppare delle forme sempre più intense di offensiva e di amicizia politica. La linea del fronte che disegna mentre lo percorre è irregolare, non procede linearmente: il conflitto non avanza per linee di classe o di soggetti affinatari, bensì si diffonde per risonanza, per cerchi di intensità, attraverso la polarizzazione dei vissuti comuni. Il partito dell’insurrezione significa la messa in comunicazione delle sperimentazioni più ardite tra questi vissuti, ovvero l’organizzarsi tra quelli che riconoscono nel loro stesso svolgersi una forma di ostilità assoluta nei confronti del regno dell’equivalente generale. In questo senso l’unico soggetto rivoluzionario, se vogliamo usare questo antico termine, è la vita comune stessa, le esistenze che abitano una comune coscienza della loro politicità e dunque della loro forza. Eppure: proprio perché questa vita potente è qualcosa che circola senza mai fissarsi in una identità, una politica insurrezionale è quella che si può dire una politica del non-soggetto che abita offensivamente le determinazioni del suo essere qualunque.

La «crisi» che tanto preoccupa l’opinione pubblica odierna, attraversata com’è da rivolte e linee di fuga insurrezionali, può infatti essere compresa politicamente come l’emersione dalla clandestinità di tutte quelle esistenze non più disposte ad assistere passivamente alla spettacolare implosione nichilista dell’Impero. Il partito rivoluzionario è ovunque tale inclinazione si fa prassi insorgente, linguaggio armato, festa dell’uso.

Long Live Communism!

Italia, dopo il 15 ottobre 2011


*Postfazione dell'autore all’edizione italiana di: Marcello Tarì, Il ghiaccio era sottile. Per una storia dell’autonomia, Deriveapprodi 2011

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