Print Friendly, PDF & Email
inchiesta

La fortuna del socialismo nella Germania del novecento

Dibattito sulla storia dei rapporti tra capitale e lavoro

Peter Kammerer

rosa-luxemburg-karl-liebkne1. Cantare

La parola “socialismo” è diventata incomprensibile. Porta con sé e comunica altre cose; ha cambiato contenuto. Che significato può avere la parola “produttori” in un mondo che conosce solo consumatori? L’espressione “proletario” è oggi ridicolizzata, ma sono scomparsi i soggetti, le masse che un tempo venivano così definiti? È ormai senza nome la parte dell’umanità che vive solo grazie a un lavoro dipendente? Dipendente da cosa e da chi? Il concetto di “socialismo” si è svuotato o, meglio, nel suo spazio abbandonato sono vagamente riconoscibili relitti di ogni genere e ad essere esposti in primo piano sono i suoi orrori.

Una condizione che mi ricorda il mio amore giovanile per il canto popolare tedesco. Dopo la guerra in Germania non c’erano più canzoni innocenti: ogni testo, ogni melodia era compromessa dal nazismo e dai suoi orrori. Come potevo cantare Muss i denn, muss i denn zum Städtele hinaus (“devo dunque lasciare questa città e tu, tesoro mio, rimani”) sapendo che gli ebrei rastrellati dovevano intonare questa canzone nella loro marcia verso la morte? Ci voleva il ’68 per far cantare nuovamente i tedeschi, ma preferivano Bandiera rossa e Bella ciao in lingua italiana. La mia voce era stata liberata già anni prima da Marlene Dietrich. Sentivo su un vecchio disco il suo Muss i denn, muss i denn registrato negli USA nel 1951 come “old german folk song”. E sempre dagli USA nel 1960 Elvis Presley, appena concluso il suo servizio militare in una piccola città della Germania, lanciava verso un successo mondiale la stessa canzone trasformata in Wooden heart.

Sono le metamorfosi che raffigurano il movimento della storia? Sarebbe un idea poco progressista, poco “socialista”, lo so, ma forse ci vuole un punto di vista lontano da quello originario per poter raccontare oggi il progetto del socialismo con le sue analisi e le sue speranze, con le sue vittorie e le sue sconfitte, con i suoi sviluppi e le sue metamorfosi.

 

2. Fratricidi

Con la prima guerra mondiale in Germania i concetti di “socialismo” e di “comunismo”, fino ad allora piuttosto intrecciati, si divisero e si contrapposero sempre di più. La socialdemocrazia tedesca, il partito riconosciuto da Marx ed Engels, il vecchio partito di Lassalle, Bebel, Liebknecht (Wilhelm), Kautsky, nel 1914 accettò la guerra come dovere patriottico. Il concetto di socialismo ne fu danneggiato al punto che gli oppositori alla guerra (Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht), lanciarono la parola d’ordine del “comunismo”. La rivoluzione del novembre 1918 vide così non solo la guerra tra “bianchi” e “rossi”, ma anche il fratricidio tra “socialdemocratici” e “spartachisti” (comunisti). L’ assassinio di Rosa e Karl decapitò il nascente partito comunista tedesco. Da subito la socialdemocrazia tedesca si orientò decisamente contro la rivoluzione d’ottobre, mentre i comunisti (decapitati) entrarono nella sua orbita fino alla loro completa bolscevizzazione alla fine degli anni venti. Il rapporto tra i due partiti operai in Germania era dunque molto diverso da quello istituito in Italia, dove la maggior parte del Partito Socialista non fu antibolscevica, anche se non accettò i 21 articoli della nuova Internazionale, “elemento iniziale della scissione”, come scriveva Nenni nel 1926[1]. La stessa scissione di Livorno fu senza dubbio traumatica, ma non portò al fratricidio. Ancora Nenni:

A Livorno cominciò la tragedia del proletariato italiano. Nella scissione, che lasciava sussistere due partiti comunisti in lotta feroce e spietata fra di loro ed in uno dei quali erano come prigionieri i riformisti ed i centristi, deve ricercarsi la causa del disorientamento che colse le masse e che le offrì, inermi, agli assalti della reazione[2].

In Germania la tragedia si consumò in proporzioni ben più grandi. La polizia, spesso a guida socialdemocratica, sparò sugli operai comunisti (Brecht e Fritz Sternberg testimoni oculari del “1° maggio di sangue” del 1929) e i comunisti videro nella socialdemocrazia il primo passo verso il fascismo. Il partito nazionalsocialista riuscì infine a catturare una parte delle masse operaie deluse e demoralizzate dando il via a un’altra guerra, quella tra il movimento operaio e le masse riorganizzate dal nazismo.

 

3. Nessuna unità

Chi nel 1945 veniva fuori dai campi di concentramento o tornava in Germania dall’esilio a Mosca o dagli USA, dall’Inghilterra, dal Messico, sentiva l’imperativo dell’unità del movimento operaio. Già uno o due anni prima, comunisti e socialdemocratici si erano incontrati nei vari centri dell’emigrazione antifascista per tentare di costruirla. L’esito di questi tentativi è noto e Peter Weiss li riassume così:  “Il terrore li ha costretti all’unità. Ora da sopravvissuti la lotta per l’unità li dilaniava. Si erano ritrovati nella clandestinità, ora nell’aperto si aggiravano e si ingannavano”[3].

I tanti antifascisti senza nome, i sopravissuti, i reduci dalla guerra, i giovani bruciati dal nazismo, tutti coloro i quali cercavano di costruire un mondo nuovo a fianco del movimento operaio furono messi davanti a una scelta brutale: essere socialdemocratici e, più che filo occidentali, “antimoscoviti” oppure essere socialdemocratici aggregati più o meno per forza al partito comunista in un partito unico, la SED (1946). Tutte le posizioni intermedie e libertarie, sia socialdemocratiche sia comuniste, furono ben presto condannate al silenzio dalla guerra fredda. Posizioni che Peter Weiss ricorda nella figura di Max Hodann, ma la cui storia è ancora da scrivere[4]. Chi, in ambedue i blocchi, manteneva contatti con “l’altra parte” (anche solo perché non accettava la divisione della nazione), poteva anche finire accusato di alto tradimento. È il caso di Victor Agartz nella Bundesrepublik (1957), mentre almeno negli anni Cinquanta la DDR cercò di favorire alcuni contatti con le organizzazioni occidentali di sinistra o liberali[5]. Risale infatti a quel decennio il mito della DDR come la “Germania migliore”, quando nella Bundesrepublik il KPD veniva messo al bando (1956) e la persecuzione dei comunisti era spesso affidata a quelle stesse forze che li avevano perseguitati nei decenni precedenti. Di solito si sottovaluta il virulento sentimento anticomunista e la sua ininterrotta continuità nella società tedesca già dagli anni precedenti il 1933 fino ai giorni nostri. Piuttosto che una storia del pensiero e del movimento comunista sarebbe più illuminante scrivere una storia dell’anticomunismo come filo rosso che percorre la storia tedesca. Nella Bundesrepublik e nella DDR, in ambedue gli Stati.

 

4. Bad Godesberg

Alle prime elezioni dell’appena nata Bundesrepublik (1949) il KPD raggiunse il 5,7 % dei voti e rimase emarginato e marginale nella vita politica del paese. La SPD raggiunse il 29,2% presentando un programma basato sulla socializzazione dell’industria di base e sulla pianificazione economica, riprendendo anche un concetto importante degli anni Venti: l’obiettivo di una “democrazia economica”.  La CDU/CSU  (31%) e i suoi alleati formarono il governo e fino alla seconda metà degli anni Sessanta la SPD perse tutte le grandi battaglie politiche, anzitutto quelle contro il riarmo e contro l’integrazione economica europea che avrebbe reso più profonda la divisione della Germania[6]. Il successo dell’“economia sociale di mercato” e della “scelta occidentale incondizionata” svuotò pian piano il programma socialdemocratico di tutti i suoi contenuti alternativi e socialisti. La svolta programmatica di Bad Godesberg (1959) ne traeva le conseguenze e lanciava la sfida di un “socialismo democratico” che accetta i valori di una democrazia rappresentativa e pluralista, un’economia caratterizzata dal primato del mercato, la mediazione dello Stato che mette fine alla lotta di classe e, infine, una Bundesrepublik armata per difendere la sua stessa esistenza dalla minaccia sovietica. Si tratta di vincoli che renderanno difficile, se non impossibile, ogni “profonda trasformazione sociale”. Il “Marx in soffitta” esprimeva una rottura ideologica già compiuta nei fatti. Herbert Wehner (1906-1990) è stato l’artefice più interessante della svolta e rimarrà fino agli anni Ottanta l’uomo forte del partito. Vale la pena dare uno sguardo alla sua biografia. Nel 1927 aderì al KPD, fu deputato nel parlamento della Sassonia, una delle prime regioni rosse della Germania, nel 1932 entrò nel Comitato centrale del partito e dopo il 1933 rimase due anni in Germania in clandestinità. Durante il suo esilio in URSS fece parte del gruppo dirigente nella cerchia di Walter Ulbricht e Wilhelm Pieck. Inviato in Svezia nel 1941 per organizzare una rete di agenti che operasse in Germania fu arrestato dalla polizia svedese “per spionaggio” e rimase in prigione dal 1942 al 1944. Rischiava l’estradizione in Germania e la consegna alla Gestapo, ma anche la possibile eliminazione nel caso di un suo ritorno a Mosca. In questo periodo ruppe con il comunismo e aderì nel 1946 alla SPD. Per anni fu costretto a subire sospetti e a superare esami per il suo passato.

È significativa la formula con la quale la maggior parte della storiografia tedesca rappresenta la svolta di Bad Godesberg: “il movimento operaio è stato integrato definitivamente nella politica e nella società della Bundesrepublik e poteva, da allora, contribuire attivamente al suo divenire”[7].   Come se si fosse finalmente conclusa la lunga strada verso la nazione di un “corpo estraneo”, cioè dalle leggi antisocialiste di Bismarck fino al programma di Bad Godesberg.

Nel suo romanzo Peter Weiss descrive le vicende politiche e il dibattito svoltosi nell’emigrazione a Stoccolma (dove si trovavano allora Hodann, Brandt, Wehner, Mewis, Rosner e altri) e delinea scoraggiato la prospettiva che si apriva dopo il fallimento dei tentativi unitari: “Il Partito socialdemocratico si accingerà – come dopo la prima guerra – ad una nuova carriera all’interno della società borghese”. E i comunisti? “I comunisti non ripeteranno gli errori del 1918 e rafforzeranno subito l’egemonia nella zona sotto il loro controllo”[8]. Così già prima che cominciasse la guerra fredda il movimento operaio tedesco era pronto a cadere nella sua trappola, e “noi saremo costretti”, conclude Weiss,  “a pensare con gli odiati concetti di un Ovest e di un Est”[9].

 

5.  “Socialismo integrato”

Con l‘espulsione della piccola ala “marxista“ intellettuale (Abendroth, Agartz, Flechtheim e nel 1961 dell’intera organizzazione giovanile universitaria, il SDS) la parola “socialismo” intesa come alternativa al sistema capitalistico praticamente scompariva dal vocabolario della SPD. Nella Bundesrepublik questa  parola indicava ormai soltanto l’azione infelice della SED di costruire con la DDR un nuovo Stato tedesco “dei lavoratori e dei contadini”[10]. Gli sforzi intrapresi e le vicende di questo “altro” Stato non hanno mai trovato in Germania un interesse adeguato, per non dire imparziale, tanto è che l’ unica “storia delle due Germanie” è stata scritta da uno storico italiano[11]. Il “non riconoscimento” della DDR condusse a ignorare tutti i fatti e tutte le idee che non rientravano nello schema anticomunista, mentre nella DDR si imponeva una storiografia ufficiale, direi statale-trionfalista, che censurava pesantemente ogni “eresia”.  L’ortodossia imperante nella DDR fingeva di avere a disposizione una road map scientifica per la transizione al socialismo e negli anni Settanta, in una fase di consolidamento economico-politico, coniava la formula “real existierender Sozialismus” come orgogliosa affermazione di tale pretesa.

Da parte della SPD l’abbandono di qualsiasi road map non implicava formalmente la rinuncia all’“obiettivo finale” di qualcosa che assomigliasse al socialismo e attraeva intorno al partito nuove energie democratiche soprattutto giovanili. Parlo della seconda metà degli anni Sessanta, del passaggio dal “regime democristiano” a un governo di grande coalizione (1966) e poi al primo governo Brandt (1969). Nel 1972 Brandt vinse una campagna elettorale in cui la SPD proponeva “più democrazia” e una nuova politica nei confronti dell’Est. La “Ostpolitik” non mise mai in dubbio l’occidentalismo incondizionato che aveva caratterizzato i governi precedenti[12], ma lo integrò stabilendo nuovi rapporti con i “paesi socialisti” (in particolare con la Polonia e la Cecoslovacchia, le prime vittime dell’aggressione hitleriana) e favorendo un processo di graduale riconoscimento della DDR. Questa politica di apertura non aveva nulla a che fare con le “velleità socialiste” di Brandt, come insinuava l’ opposizione democristiana, ma si inseriva perfettamente nel nuovo scenario della politica internazionale.  Invece il programma di “più democrazia” si era già arenato nel 1974 al momento delle dimissioni di Brandt[13]. Né Schmidt (1974-1982), né Schröder (1998-2005), gli altri due cancellieri socialdemocratici, ebbero una tensione ideale e una visione del futuro comparabile a quella di Brandt.[14] Il governo rosso-verde di Schröder-Fischer  ha voluto aprire un nuovo capitolo della storia tedesca esprimendosi a favore di una “normalizzazione” della politica e del superamento di tutte le “remore” indotte dal passato della Germania. La “disposizione” di questa normalizzazione condusse a un’accentuata politica di sostegno agli interessi economici dei grandi gruppi industriali e bancari tedeschi e a una crescente partecipazione alle missioni militari internazionali.

Parafrasando Remarque si potrebbe dunque dire: “Niente di nuovo sul fronte tedesco”. Ma non è così. È  vero che non c’è più traccia di un “socialismo democratico” nella politica della SPD e che il suo perno riformista, una vera redistribuzione dei redditi a favore dei ceti meno abbienti, sia rimasto un obiettivo utopico clamorosamente fallito negli ultimi cinquanta anni, come dimostra un semplice sguardo sulle statistiche. Ma è anche vero che l’integrazione della SPD nel sistema politico della Bundesrepublik, compiuta dopo Bad Godesberg, ha portato a una stabilizzazione delle istituzioni economiche-sociali e del benessere che si è tradotta in una stabilizzazione della democrazia rappresentativa come fatto del tutto nuovo nella storia tedesca: è ciò che ha reso possibile dopo il 1989 la gestione della riunificazione e continua tutt’ora a favorire un ruolo egemonico della Germania del quale l’Europa di oggi pare perfino sentire il bisogno.

L’ eutanasia non sempre dolce di ogni idea socialista o comunista di sfida al sistema economico vigente ha contribuito non poco a questa stabilità risparmiando alla Germania il compito, mai realizzato in Italia, di seppellire cristianamente un defunto partito comunista o socialista. E quando dalla rovina della DDR è sorto un nuovo partito socialista (o comunista), successore della SED, si è potuto avviare un altro processo di “integrazione addomesticata” che già aveva dato i suoi frutti negli anni Cinquanta con la SPD e negli anni Ottanta con i Verdi, allora partito ribelle “contro il sistema”.

 

6. Fermenti

Ma sarebbe del tutto superficiale non vedere sotto le spesse coperte della storia e della politica ufficiale in ambedue le Germanie e ancora in quella unita i fermenti interessanti e talvolta potenti di movimenti e pensieri socialisti. Sarebbero da analizzare due filoni storici che nella Bundesrepublik condussero al 1968 e poi, nel 1980, alla nascita del partito dei Verdi. Più complessa è invece la situazione nella DDR. Si sa poco dell’eresia comunista repressa nelle prigioni e molto di quel che si sa è passato attraverso i filtri deformanti dell’anticomunismo occidentale che costringeva spesso i “dissidenti” a una guerra su due fronti. I casi esemplari più noti, ciascuno diverso dall’altro, sono le vicende di Wolfgang Harich, Walter Janka, Wolf Biermann, Robert Havemann e Rudolf Bahro. La loro militanza e ricerca comuniste si muovevano nel solco di una tradizione politica ufficialmente esaltata nella DDR e interrotta nella Bundesrepublik. Qui sono state altre esperienze a spingere verso una nuova riflessione sul socialismo.

La preistoria del ‘68 tedesco è ben nota e documentata. Mi sia concesso di ricordare alcune tappe di politicizzazione comuni a tutta la mia generazione: l`interesse per Israele e i suoi Kibbutz socialisti mediato dall’Aktion Sühnezeichen (“azione di espiazione”, fondata nel 1958 da ambienti della chiesa protestante); i dubbi laceranti sulla guerra in Algeria; le proteste contro lo stazionamento di armi atomiche e la dotazione della Bundeswehr di queste armi; gli impulsi di una democrazia radicale provenienti dalle lotte civili negli USA; il processo di Auschwitz svoltosi a Francoforte e documentato nel teatro di Peter Weiss (L`istruttoria, 1965); le proteste contro le “leggi di emergenza” che perseguivano un progetto autoritario nel caso di una “crisi della democrazia”; le lotte anticoloniali nel terzo mondo e poi, enorme, la guerra del Vietnam. Era finita l’era di Adenauer che voleva seppellire il passato sotto il benessere economico. Ci scoprivamo “non conciliati” come recita il titolo di un famoso film di Straub-Huillet. Sarebbe da domandarsi perché questi temi e questi movimenti suscitassero un nuovo interesse per il socialismo. Certamente ci colpiva l’imperativo categorico marxiano: “rovesciare tutti i rapporti in cui l’ uomo è un essere umiliato, asservito, abbandonato e disprezzato”. Il giovane Marx ci spronava alla ricerca delle radici dei fenomeni criticati, magari di una loro radice comune. Per noi la differenza tra la gravità dei problemi e le spiegazioni date dalla cultura politica ufficiale è stata insopportabile e semplicemente umiliante.

In Germania una parte di questa eredità si trasforma negli anni Settanta in una miriade di movimenti locali, sfugge alla doppia morsa del terrorismo e dell’antiterrorismo, si arricchisce di un nuovo senso di responsabilità verso il pianeta e confluisce nel gennaio 1980 in un nuovo partito inteso come “progetto aperto” che stabilisce un diverso rapporto tra partito e movimenti e nel quale possono collaborare gli uomini di buona volontà sia di destra (Gruhl, Haußleiter), sia di sinistra (Bahro, Dutschke, Willi Hoss)[15]. Il fallimento di questo progetto dopo appena un decennio è ancora materia di discussione. Ma, pur emarginati, nei primi anni e perfino nei lavori parlamentari i Verdi hanno contribuito in modo straordinario al rinnovamento della classe politica tedesca e delle sue tematiche. Con l’unificazione delle due Germanie si è assistito a una seconda e finora ultima ondata di rinnovamento, che negli altri paesi europei invece è stata promossa da forze populiste o di destra. Una differenza non da poco.

 

7. Eracle

In Germania non a caso il discorso più avanzato sui “problemi del socialismo” si faceva nella letteratura e soprattutto nel teatro della DDR.[16] “L’elaborazione” della rivoluzione d’ottobre, della mancata rivoluzione tedesca, del fascismo e della costruzione del socialismo è stato il grande tema di Brecht, Braun[17], Hacks, Müller, Seghers, Strittmatter, Christa Wolf e altri ancora. Non solo la costruzione dell’utopia, ma anche il suo fallimento forniscono temi e materiali straordinari. “Shakespeare ha usato come miniera la storia dell’Inghilterra del suo tempo. Noi utilizziamo quella della Germania. Con la DDR come punto di osservazione privilegiato”, sosteneva Heiner Müller (1929-1995)[18]. La funzione del suo teatro è quella di rompere i tabù, rimuovere le rimozioni, dialogare con i morti. I morti ricordano la storia e la devono raccontare. Questo vale sopratutto per i grandi sogni dell’umanità rimasti sepolti sotto le macerie insieme ai loro protagonisti. Così gli spettri di Thälmann e Ulbricht continueranno a fare le sentinelle sul muro di Berlino, anche se è sparito questo “mausoleo del socialismo tedesco” con “le sue corone di filo spinato”[19].  Rosa Luxemburg, l’ebrea polacca assassinata, compare ancora nella maschera di Kriemhild sui campi di battaglia di Stalingrado. I fratelli continueranno ad ammazzarsi e le guerre nel mondo continuano a bruciare/strappare l’erba “affinché rimanga verde”. La grande domanda alla fine dell’esperimento socialista rimane: “Perché uccidere e perché morire / se il prezzo della rivoluzione è la rivoluzione/ il prezzo della libertà l’uomo da liberare”[20]. Perché si è dovuto o voluto pagare quel prezzo disumano? È il tema dei Lehrstücke di Brecht che in un frammento scritto tra il 1926 e il 1930 con chiaroveggenza sofferta anticipa la sconfitta: “e da ora in poi e per molto tempo ancora / Non ci sarà più alcun vincitore / Nel vostro mondo ma soltanto / Vinti”[21]. Nel secolo di Auschwitz non possono esserci vincitori.

Il punto centrale del racconto di Müller sul Novecento non può non essere Auschwitz. Il suo principio è quello della selezione portata agli estremi. La selezione domina un mondo politico-economico in cui “non c’è abbastanza per tutti”. Nel suo famoso discorso davanti agli industriali a Düsseldorf (il 26 gennaio 1932) Hitler deduceva da questa semplice costatazione malthusiana il dovere morale di opprimere i popoli meno civili nella lotta per le risorse che garantiscono il sopravvivere della nostra civiltà o come si direbbe oggi, del nostro “way of life”. La stessa logica delle macchine impone la razionalità economica come unico criterio delle nostre scelte. L‘ uomo viene ridotto a materia prima, al suo “valore materiale più l’oro dei denti”[22]. A questa tendenza implicita nello sviluppo del mondo moderno non esiste ancora nessuna alternativa. La democrazia odierna può solo proporre delle variazioni, alleggerimenti, compromessi più o meno umanitari. L’unica alternativa al principio di selezione sarebbe: “O tutti, o nessuno”[23]. Da soli non ci si salva. Ma dopo il fallimento della costruzione della “coscienza di classe” sarà difficile sviluppare una “coscienza della specie” capace di creare nuovi rapporti tra gli uomini e tra gli uomini e la natura. Spingono però in questa direzione necessità oggettive e soggettive provocate dalle migrazioni, dal limite delle risorse, dai cambiamenti climatici, dalle crescenti disuguaglianze e dalle deformazioni imposte dalla “produzione per la produzione”.

Il Novecento ha visto il fallimento del socialismo e del suo obiettivo più ambizioso: un tempo libero dalle costrizioni del consumo, del mercato e delle macchine. In Müller il racconto del fallimento scende fino alle radici dei grandi miti. Eracle, eroe del proletariato già nell’immaginario del Ottocento, riprende la sua lotta contro l’Idra, il mostro che si rinnova e cresce a ogni crisi. Le sue teste si moltiplicano ogni volta che se ne taglia una. Eracle va a cercare l’Idra e scopre di trovarsi non di fronte, ma dentro il mostro in una simbiosi impossibile da sciogliere senza distruggere la propria dimora, la base dell’esistenza del tipo di uomo che siamo diventati[24]. Impossibile tornare indietro, impossibile andare avanti? Ecco il nocciolo del dramma “comunista” raccontato da Müller. Müller non sottace il prezzo da pagare per l’utopia. Ma ritiene impossibile vivere senza.


[1] P. Nenni, Il diciannovismo,  Ed. Avanti, Milano 1962 (1926), p. 124.

[2] Ivi, p. 137.

[3] P. Weiss: Die Ästhetik des Widerstands, Band III, S. 239, Frankfurt, 1988.

[4] Max Hodann (1894-1946), medico, riformatore sessuale, combattente in Spagna, in esilio in Svezia, uno dei protagonisti del romanzo Die Ästhetik des Widerstands.

[5] Un quadro molto vivace di questi rapporti e della loro problematicità si trova nel capitolo “DDR” in: E. Krippendorff, Lebensfäden, Verlag Graswurzelrevolution, Heidelberg 2012.

[6] La preoccupazione della SPD che si creasse un’Europa dei potenti gruppi industriali e delle banche fu espressa ancora con il vecchio vocabolario “marxista”, ma, come si sa oggi, non era infondata. Per un panorama più dettagliato della recente storia tedesca si veda la voce Germania di Brunello Mantelli in: Enciclopedia della sinistra europea nel XX secolo, a cura di Aldo Agosti, Editori Riuniti, Roma 2000, pp. 1040 ss.

[7] Damit war die Arbeiterbewegung endgültig in Politik und Gesellschaft der Bundesrepublik integriert und konnte diese von nun an aktiv mitgestalten, in  Internet alla voce Schlüsseldokumente zur deutschen Geschichte, Das Godesberger Programm.

[8] P. Weiss, Die Ästhetik des Widerstands, cit. p. 258.

[9] Ivi, p. 263.

[10] Ancora in Svizzera Brecht si rendeva conto “con un brivido” del compito che lo aspettava a Berlino e notava il 26 dicembre 1947: “Non avendone ancora una volta una nostra [rivoluzione], adesso ci toccherà rielaborare quella russa, penso con un brivido”. B. Brecht, Diario di lavoro, vol. II, 1942-1955, Einaudi, Torino 1976, p. 882.

[11] E. Collotti, Storia delle due Germanie (1945-1968), Einaudi, Torino 1969 e dello stesso autore vedi Dalle due Germanie alla Germania unita, Einaudi, Torino 1992; straordinari anche i saggi di Cesare Cases in Il testimone secondario, Einaudi, Torino 1985, specialmente la parte IV.

[12] Brandt, ad esempio, non si è mai permesso di criticare la guerra americana in Vietnam.

[13] La svolta è stato il Radikalenerlass del 1972, più noto come Berufsverbot, che espelleva dall’impiego pubblico comunisti ed “estremisti”. Brandt stesso più tardi ha considerato questa misura “un grave errore”. In Italia (come in altri paesi europei) si è formato allora un Comitato per la difesa della democrazia e dei diritti civili nella Repubblica Federale Tedesca presieduto da Lelio Basso. Vedi Deutschland-Italien. Aufbruch aus Diktatur und Krieg, a cura di W. Storch e K. Ruschkowski, Dresden 2013, pp. 310 ss.

[14] W. Brandt, B.Kreisky, O. Palme, Quale socialismo per l’Europa, pref. di G. Arfé, Lerici, Cosenza, 1976

[15] Particolarmente interessante la biografia di Willi Hoss, da quadro illegale del KPD negli anni Cinquanta a capogruppo (“Sprecher”) dei Verdi nel parlamento alla fine degli anni Ottanta. Vedi W. Hoss, Komm ins Offene, Freund. Autobiographie, herausgegeben von P. Kammerer, Münster 2004; su Bahro si veda P. Kammerer: Rudolf Bahro: La coscienza come forza materiale, in P.P. Poggio (a cura di), L’Altronovecento, vol. II, Il sistema e i movimenti. Europa 1945-1989, Jacabook, Milano 2011. In Italia Alexander Langer ha tentato un’impresa simile.

[16] Una preziosa raccolta di testi di scrittori dell’ est e dell’ ovest della Germania sul loro rapporto con lo stato si trova in: Vaterland, Muttersprache. Deutsche Schriftsteller und ihr Staat seit 1945.Offene Briefe, Reden, Aufsätze, Gedichte, Manifeste, Polemiken, a cura di Michael Krüger, Susanne Schüssler, Winfried Stephan und Klaus Wagenbach, Berlin,  2009

[17] Particolarmente interessanti i diari di Volker Braun del periodo 1977-1989 e 1990-2008, Werktage. Arbeitsbuch, 2 voll. Frankfurt 2009 e 2014.

[18] H. Müller, L’invenzione del silenzio. Poesie, testi, materiali dopo l’ Ottantanove, a cura di P. Kammerer, Ubulibri, Milano 1996.

[19] H. Müller, Germania 3. Spettri sull’ Uomo Morto, in Teatro IV, Ubulibri, Milano 2001, p. 23.

[20] H. Müller, Mauser, in Teatro I, Ubulibri, Milano 1991, p. 62 (trad. modificata).

[21] B. Brecht, La rovina dell’egoista Johann Fatzer, traduzione di M. Massalongo, Einaudi, Torino 2007, pp. 92 ss. Si veda anche P. Kammerer, Bertolt Brecht scopre come suo unico spettatore Karl Marx, in P.P. Poggio (a cura di), L’Altronovecento, vol. 1, L’età del comunismo sovietico. Europa 1900-1945, Jaca Book, Milano 2010, pp. 367-378.

[22] H. Müller, Denken ist grundsätzlich schuldhaft. Die Kunst als Waffe gegen das Zeitdiktat der Maschinen, in Jenseits der Nation, Müller im Interview mit Frank Raddatz, Rotbuch, Hamburg 1991, p. 40.

[23] A. Kluge – H. Müller, Ich schulde der Welt einen Toten. Gespräche, Hamburg 1995, p. 61.

[24] H. Müller, Eracle 2 ovvero l‘Idra, in Id., Lo stakanovista e altri testi, Ubulibri, Milano 1998, pp. 78 ss. Anche il romanzo di Peter Weiss apre e chiude evocando le gesta di Eracle.

Add comment

Submit