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socialismo2017

L’economia sovietica: parabola di un capitalismo atipico

di Edoardo De Marchi

Senzanome6Presentazione

Come abbiamo scritto nel nostro primo editoriale, questo blog ospiterà e produrrà sia interventi sulla congiuntura politica, sia più ampie riflessioni sulla fase storica attuale, sia testi teorici di diversa lunghezza ma di apprezzabile densità. A quest’ultima categoria appartiene lo scritto che, estrapolandolo da un suo lavoro  in progress, Edoardo De Marchi ha voluto predisporre proprio per Socialismo 2017. Si tratta di una interessante sintesi dell’intera esperienza economica sovietica, ispirata alle letture di Charles Bettelheim e Gianfranco la Grassa ma avente una propria autonoma direzione. Al di là degli accordi e dei dissensi, Socialismo 2017 sceglie o chiede testi che rimettano all’ordine del giorno la discussione sul socialismo e lo facciano con serietà teorica e culturale: si vedrà facilmente che il bel contributo di De Marchi corrisponde in pieno a questi requisiti.

EDOARDO DE MARCHI – Ha insegnato Storia nella secondaria superiore e discipline economiche presso l’Università di Venezia. Si è dedicato a studi relativi all’intreccio fra evoluzione dei paradigmi economici e trasformazioni del capitalismo, pubblicando vari testi su questi temi. Tra gli ultimi ricordiamo Verso un nuovo capitalismo , Unicopli 2007 (con G. La Grassa) e L’economia politica del capitalismo industriale, Unicopli 2011.

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Pur costituendo un testo autonomo, lo scritto è stato estrapolato da un più ampio lavoro in corso di elabora­zione relativo all’inquadramento storico e teorico dei principali modelli di capitalismo del Novecento. Le pa­gine qui presentate sintetizzano la parabola dell’economia sovietica a partire da un preciso punto di vista, che considera il sistema economico sovietico come una forma atipica di capitalismo di stato.

L’autore concorda con Charles Bettelheim nel ritenere che l’economia sovietica sia riconducibile a una forma di capitalismo di stato, ma si distacca in parte dal marxista francese, ritenendo che esso rappresenti un capita­lismo di stato atipico, nel quale è stato inibito l’impulso della “distruzione creativa” che gioca un ruolo di pri­mo piano nell’analisi della dinamica capitalistica in Marx e Schumpeter. La mancanza di tale spinta si è sommata agli altri caratteri antagonistici della formazione di classe sovietica, rendendola incapace di sostenere un processo continuo di innovazione in grado di sostenere la competizione col capitalismo.

I primi tre paragrafi del lavoro si soffermano sulla nascita del sistema economico sovietico, evidenziandone le fasi interne e il tormentato percorso che l’ha condotto a cristallizzarsi nella sua configurazione classica du­rante il periodo staliniano. Dopo aver discusso le caratteristiche salienti di questo modello socioeconomico richiamate più sopra, gli ultimi tre paragrafi ripercorrono le contraddizioni del capitalismo di stato sovietico nel dopoguerra.

L’impossibilità di restaurare il modello staliniano, evidente fin dall’inizio degli anni Cinquanta, portò a due successivi tentativi di riforma, che tuttavia non intaccarono mai il sistema di potere che stava alla base della pianificazione. In età cruščeviana si puntò soprattutto su un decentramento regionale della gestione economi­ca, risoltosi tuttavia in una grave accentuazione delle pressioni localistiche, mentre in quella brežneviana si cercò di rendere più autonome le decisioni d’impresa senza però modificare la cornice burocratica della pia­nificazione. Le deficienze della direzione industriale, unite a quelle croniche dell’agricoltura, determinarono conseguentemente, fin dalla metà degli anni Settanta, una stagnazione destinata a sboccare nella crisi definitiva del sistema.

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1 – Lo scontro fra stato sovietico e mercato

Mentre il capitalismo si dibatteva tra i problemi del dopoguerra e della crisi mondiale, la rivoluzione sovietica creò un sistema economico nuovo, caratterizzato, nella sua forma matura, da due elementi di fondo particolarmente appariscenti: la proprietà statale dei mezzi di produzione e di scambio e la direzione pianifi­cata dell’economia. Tale assetto, mantenutosi praticamente fino alla fine dell’esperienza sovietica, non fu tut­tavia il frutto di una predeterminata chiarezza di intenti. Certamente nelle intenzioni del gruppo dirigente bolscevico vi fu fin dall’inizio l’idea di mantenere le leve fondamentali dell’economia sotto il controllo dello stato sovietico, ma tale progetto era compatibile con diverse configurazioni organizzative concrete e raggiun­se la forma classica cui si accennava più sopra attraverso un processo lungo e spesso – se non tortuoso – cer­tamente lontano da quella linearità che un approccio superficiale alla realtà storica potrebbe ipotizzare.

Volendo ricostruire gli sviluppi storici del periodo posteriore alla rivoluzione è opportuno distinguere tre fasi di fondo: 1) quella iniziale, in cui il potere sovietico dovette fronteggiare compiti gravosissimi cer­cando di far funzionare sotto il controllo statale un’industria ai limiti del collasso e un’agricoltura il cui asset­to economico era assai diverso da quello che l’ortodossia marxista era abituata a postulare per una società so­cialista; 2) alcuni anni (’21-’29) durante i quali il partito comunista accettò una larga presenza della piccola impresa privata e ricercò con essa un compromesso resosi via via più difficile; 3) la rottura definitiva di tale progetto e il lancio del grande programma di industrializzazione e collettivizzazione che negli anni Trenta, con costi sociali pesantissimi, creò un sistema destinato a condizionare molti aspetti della vita economica e politica sovietica fino all’ultimo periodo di esistenza dell’URSS.

Negli anni immediatamente a ridosso della rivoluzione la società sovietica fu sconvolta da un susse­guirsi convulso di eventi, nel quale la guerra civile e l’inflazione dominarono la scena. Dalla seconda metà del ’18 alla fine del ’20 il territorio sovietico fu teatro di scontri accaniti che amputarono temporaneamente ampi spazi economici e contribuirono a disarticolare l’economia già provata dalla disorganizzazione seguita al rivolgimento politico. All’economia sovietica mancavano combustibili, minerali e materie prime, riforni­menti alimentari per le città (1). Mentre la produzione ristagnava, il rublo – il cui valore nel 1921 era meno del 2% di quello del ’17 – veniva travolto dal flusso delle emissioni, che costituiva ormai la fonte principale di entrata dello stato e che diede all’inflazione sovietica un’imponenza seconda soltanto a quella tedesca. Queste tendenze di fondo contribuirono ad amplificare i risvolti imprevisti dei provvedimenti presi nel corso della rivoluzione riguardo ai trasferimenti di proprietà della terra e dell’apparato industriale, nonché ai pro­blemi controllo che ne derivavano.

La prima e forse più grave difficoltà che si trovò nella costruzione di un nuovo sistema economico fu certamente il problema della terra e della condizione contadina. L’assetto delle campagne russe era apparso instabile fin da primi mesi del ’17. Di fronte alla crisi incipiente, ancora in aprile i bolscevichi si manteneva­no contrari alla spartizione della terra fra i contadini e favorevoli alla usuale prospettiva marxista di un’agri­coltura condotta su larga scala. Già nel corso dell’estate, tuttavia, mentre i socialisti rivoluzionari, che tradi­zionalmente rappresentavano i contadini, continuavano nel sostanziale immobilismo derivante dalla scelta di partecipazione al governo provvisorio (2), i bolscevichi si inserirono in questa contraddizione crescente. Le­nin, in particolare, maturò una svolta di rilievo: egli riconobbe infatti che l’appoggio contadino ad una rivo­luzione radicale contro il capitalismo avrebbe reso possibile l’accoglimento delle richieste contenute nell’i­potesi di decreto sulla spartizione delle terre avanzata dai socialisti rivoluzionari. Fu sulla base di questo mu­tato atteggiamento che il decreto approvato all’indomani della rivoluzione poté mettere la terra a disposizio­ne dei soviet (3).

L’attuazione di questa politica si configurò come un insieme di iniziative attuate su scala locale, con metodi e criteri differenti. Nella maggior parte dei casi la terra dei latifondi e quella dei proprietari benestanti o precedentemente usciti dalle comunità a seguito dei provvedimenti di Stolypin fu divisa tra i contadini dei dintorni ed aggiunta a quella eventualmente già posseduta da essi. La spartizione, avvenuta tra l’altro fra una popolazione rurale artificialmente gonfiata dal ritorno alle campagne verificatosi durante il conflitto, portò conseguentemente ad una frammentazione delle terre divise e ad incrementi poco significativi della superfi­cie coltivabile disponibile per le piccole aziende contadine. I correttivi teoricamente previsti per livellare le sperequazioni seguite alla divisione di fatto non furono applicati (4).

Sotto la spinta del divario fra aumento rapidissimo dei prezzi del mercato libero – sospinti dalla sva­lutazione monetaria – e i prezzi pagati dallo stato per gli ammassi obbligatori, le consegne mensili di grano diminuirono vertiginosamente, fino al pratico annullamento verso la metà del ’18. In quella fase il governo sovietico non fu sfiorato dall’idea di riattivare in qualche modo i meccanismi di mercato (5). La distruzione di questi ultimi, anzi, fu portata avanti con determinazione e affiancata da una deliberata pressione sui conta­dini agiati attuata mediante l’istituzione di comitati di contadini poveri e raggruppamenti armati al fine di estorcere le consegne (6). Inevitabilmente tale politica, aggravata da un afflusso del tutto insufficiente di ma­nufatti alle campagne (7) si tradusse in una contrazione delle semine, destinata a provocare o aggravare i fe­nomeni di carestia, come avvenne nel ’21. Il tentativo di sopprimere il mercato era giunto dunque ad esiti ca­tastrofici.

Un’ oscillazione iniziale analoga a quella che si verificò per l’agricoltura contraddistinse l’azione dei bolscevichi per quanto riguarda l’industria. La linea da essi propugnata prima della rivoluzione, infatti, non prevedeva in alcun modo un immediato programma di nazionalizzazione e di istituzione di un’economia pia­nificata. La nazionalizzazione era prevista per le grandi banche e per i grandi trust già esistenti nei fatti, ma questi provvedimenti erano finalizzati soprattutto ad evitare che lo sfacelo crescente dell’economia venisse gestito dalle forze legate al grande capitale. Una gamma sempre più articolata di controlli era già stato attuata dai grandi paesi capitalistici durante la guerra e in Russia i bolscevichi intendevano ampliarla, rendendola esercitabile dal popolo attraverso l’abolizione del segreto commerciale ed una più generale trasparenza della contabilità delle grandi aziende e dei loro rapporti con lo stato.

Le nazionalizzazioni, non previste in modo massiccio in quella fase iniziale, si imposero nondimeno sotto la spinta delle circostanze. In molti casi esse derivarono da decisioni autonome dei collettivi operai, in altri furono causate dalla rovina e dalla disgregazione in cui versavano le aziende di fronte al disinteresse e all’abbandono da parte dei capitalisti e/o dalla reazione all’atteggiamento del padronato, che non accettava forme di controllo operaio. Inizialmente si trattava tuttavia di casi singoli, nei quali spesso l’autorità centrale veniva ad avallare decisioni di fatto già prese nelle situazioni locali. Il partito cercò di imporre l’idea che il controllo operaio, di per sé auspicabile, andasse tradotto in atto nel più ampio quadro dell’azione esercitata da tutti gli organismi sovietici, ma tale linea si impose solo lentamente (9) .

Nel frattempo tuttavia era stato creato il Consiglio Superiore dell’Economia Nazionale (Vesenkha), che assorbiva e soppiantava anche l’apparato del controllo operaio. Inizialmente, le attribuzioni di tale consi­glio centrale erano piuttosto vaste e indeterminate; nelle intenzioni esso avrebbe dovuto infatti esercitare il controllo su ogni aspetto dell’economia nazionale. In realtà, le funzioni del nuovo organismo vennero re­stringendosi alla politica e all’organizzazione del settore industriale. Esso utilizzò in molti casi strutture già esistenti, create per la gestione dell’economia di guerra. Differenti in linea di principio, organizzazioni vec­chie e nuove finirono per confluire, col procedere delle nazionalizzazioni, in una piramide di controllo buro­cratico che partiva dal centro e si irradiava verso il basso (10).

Naturalmente la scarsa conoscenza dei singoli settori da parte delle autorità centrali, la mancanza di dati su cui basarsi, gli scarsi collegamenti e lo stato caotico dei rifornimenti e dei mercati facevano sì che l’influenza della direzione centrale fosse molto scarsa. Questo si rifletté drammaticamente sul livello della produzione industriale, che precipitò, soprattutto nelle grandi unità maggiormente centralizzate (11). Nel settore industriale non meno che in quello agricolo, dunque, alla fine del periodo della guerra civile lo sforzo di sostituire la direzione centrale al mercato era approdato a un punto morto.

 

2 – Il difficile compromesso col mercato. Origine e crisi della NEP

La lenta ricomposizione delle tensioni che laceravano la società sovietica, come è noto, prese avvio nel ’21, col limitato ripristino di relazioni di mercato realizzato dalla NEP. La svolta, che non era stata posta in alcun modo all’ordine del giorno nel corso del ’20 e sulla quale non si era svolto di conseguenza un dibat­tito significativo, fu messa all’ordine del giorno dall’incalzare degli eventi e sottoposta da Lenin agli organi­smi centrali del partito proprio alla vigilia del drammatico episodio di Kronstadt (il successivo X Congresso del partito si svolse nel marzo del ’21 proprio mentre la repressione della rivolta era in corso).

Ferma restando la nazionalizzazione della parte essenziale della grande industria e delle banche, l’in­tento iniziale della NEP era di riscuotere dai contadini una imposta in natura di entità minore delle eccedenze che venivano anteriormente prelevate e di permettere lo scambio di quanto rimaneva disponibile sui mercati locali. In realtà, la necessità di far arrivare il grano in aree lontane impose ben presto anche l’ampliamento e la legalizzazione del commercio privato. Nello stesso tempo, inoltre, attività nazionalizzate inefficienti e pic­cole imprese passate in mano allo stato furono date in concessione ai privati; le piccole imprese sfuggite alla nazionalizzazione, infine, trovarono un quadro migliore entro cui continuare o riprendere l’attività. In sintesi, ci si andò incamminando verso «una forma di economia mista, con una grande prevalenza del settore agrico­lo privato, e con la legalizzazione del commercio e della piccola industria privata » (12) .

Naturalmente questo risveglio dei rapporti di mercato, pur verificandosi in una fase nella quale il ru­blo-carta rimaneva in circolazione fino ad annullare praticamente il suo valore (13), alla lunga non avrebbe potuto reggersi se non poggiando su una moneta stabile. Fu concepita dunque una riforma monetaria, elabo­rata in termini singolarmente legati a quella che era l’ortodossia finanziaria occidentale dell’epoca, che mise capo (luglio ’22) ad una moneta a base aurea, garantita per il 25% da riserve d’oro e di valute stabili e per il resto da titoli e altre attività a breve scadenza (14).

La progressiva ripresa della produzione e il parallelo assestamento della sfera monetaria furono tut­tavia ben lungi dal rivelarsi lineari. Nell’industria, il passaggio dalla gestione centralizzata alla convivenza coi rapporti di mercato implicava infatti che le imprese, finora inserite nelle articolazioni di un apparato go­vernato unitariamente dal centro, andassero a formare unità commercialmente autonome dette trust, la cui costituzione fu rapidamente attuata tra il ’21 e il ’22. Solo una parte ridotta di essi, riguardante settori consi­derati strategici, mantenne un legame privilegiato di rifornimento e di vendita con lo stato, mentre gli altri dovettero operare prontamente sul mercato libero in base al criterio del calcolo puramente economico della redditività.

Nell’affrontare la nuova situazione, i trust si trovarono privi dei rifornimenti statali centralizzati e con scarso capitale di esercizio. Conseguentemente la loro prima reazione fu uno sforzo convulso per collocare ad ogni costo i propri prodotti e vendere allo scopo di recuperare liquidità. Di fronte alla debolezza (relativa, perché la congiuntura nel suo complesso era inflazionistica) dei prezzi industriali, furono costituite progressi­vamente organizzazioni di acquisto e di vendita, veri e propri cartelli che consentirono ben presto di rallenta­re la tendenza.

Dalla seconda metà del ’22, la direzione dei prezzi industriali e agricoli iniziò ad invertirsi gradual­mente: i prezzi relativi industriali cominciarono a crescere e quelli agricoli a ridursi, con un andamento carat­teristico che ha reso famosa questa congiuntura economica come “crisi delle forbici” (15). La graduale chiu­sura delle “forbici” aprì una fase in cui l’economia sovietica prese la via della stabilizzazione monetaria e della ripresa produttiva, normalizzando i rapporti di mercato e la coesistenza fra il settore privato e lo stato. Se le grandi imprese industriali erano ormai controllate dallo stato, la piccola impresa privata non solo domi­nava l’agricoltura ma continuava ad avere un peso decisivo nella piccola produzione artigianale o semiarti­gianale, in gran parte gestita dal capitale privato; un ruolo rilevante – oltre il 40% verso la metà degli anni Venti – era inoltre giocato da quest’ultimo nel commercio, in particolare in quello al minuto (16).

Naturalmente, la funzione crescente affidata alle forze dell’economia privata e del mercato nella ri­presa economica non poteva non riflettersi sulla situazione delle campagne, nelle quali riprendevano fiato le differenziazioni sociali tra i contadini. In esse, com’è ovvio, giocava una parte fondamentale l’ampiezza del­le proprietà, ma anche altri fattori costituivano una presenza ugualmente di primo piano: l’impiego di lavoro salariato proveniente dai livelli più bassi della gerarchia sociale nelle campagne, l’affitto delle terre da parte di contadini poveri ad altri più benestanti o la cessione dietro corrispettivo da parte di questi ultimi di animali e/o attrezzi etc; di importanza rilevante, infine, era l’inserimento dei contadini più ricchi nel circuito com­merciale o finanziario, l’esercizio dell’usura etc. Anche la recente riforma monetaria, in questo contesto, era tutt’altro che neutrale. Messa a punto col contributo determinante di tecnici che avevano lavorato nelle vec­chie istituzioni finanziarie, essa prendeva molto sul serio il gold standard e richiedeva che si facesse appel­lo a quelle classi che, potendo agevolare le esportazioni agricole, contribuivano a stabilizzare il rublo (17).

Fu in questo periodo che divenne centrale – o ridivenne, se si considera il periodo precedente alla guerra – la figura del kulak e con essa il dilemma del rapporto fra kulaki e il sistema sovietico. Attorno a que­sto problema, come è noto, infuriarono lunghe e violente dispute, nel corso delle quali la stessa identificazio­ne delle caratteristiche essenziali del kulak, già non facile di per sé, fu piegata a fini polemici funzionali alla lotta politica. La storiografia attuale si dimostra pienamente consapevole di quanto sfuggenti fossero i carat­teri definitori del kulak degli anni Venti (18), ma anche la parte più avvertita degli studiosi tradizionali – come ad esempio Carr, che pure accetta in linea generale di far coincidere il kulak col piccolo capitalista ru­rale – si è mostrata cosciente di muoversi su un terreno scivoloso (19).

In un primo tempo la politica sovietica – si era nella fase in cui il triumvirato Stalin–Kamenev–Zino­v’ev era impegnato nella lotta contro Trockij – si dimostrò favorevole a lasciare margini di sviluppo alle aziende contadine e quindi allo strato superiore delle campagne che ne stava alla testa (20). Proprio nel mo­mento di massimo successo, la politica di apertura nei riguardi delle forze dell’economia privata entro le campagne trovò i suoi primi ostacoli. Per comprendere le tendenze in atto, bisogna tener presente che nella società sovietica, più egualitaria di quella che l’aveva preceduta, la percentuale maggiore della produzione di grano non derivava tanto dai kulaki, quanto dai contadini medio-poveri che coltivavano in primo luogo per l’autoconsumo e che vendevano soprattutto per comprare prodotti industriali o per pagare le imposte (21). L’importanza fondamentale dei kulaki, in questa fase, non derivava tanto dal ruolo che essi esercitavano nel­la produzione di eccedenze per il mercato, ma dai condizionamenti che con la loro posizione economica pre­minente esercitavano sugli altri contadini e dalla collocazione strategica che occupavano nella commercializ­zazione dei prodotti agricoli (22) .

Fu in questo quadro che la NEP iniziò a muoversi fra contraddizioni crescenti di ordine politico ed economico. Sul primo versante, dal ’25 Zinov’ev e Kamenev ormai erano passati all’opposizione; essi per ora si muovevano separatamente dalla cosiddetta “opposizione industriale” alla quale era vicino anche Troc­kij, ma indubbiamente questo insieme di forze esercitava una pressione sulla maggioranza (guidata da Stalin e Bucharin), spingendola a limitare le attività private. Queste ultime, d’altra parte, davano luogo a fenomeni speculativi basati sul vantaggio di cui godevano i contadini più abbienti nel momento immediatamente suc­cessivo al raccolto, sicché furono necessari provvedimenti restrittivi. Questi ebbero un successo pressoché completo nel limitare la speculazione, ma la resistenza degli interessi colpiti venne a galla l’anno successivo, allorché gli ammassi subirono una preoccupante contrazione (23).

E’ ben noto, d’altra parte, che negli sviluppi che determinarono di fatto la fine della NEP giocò un ruolo di primaria importanza anche la crisi dei rifornimenti di manufatti alle campagne. Questo fenomeno è ben presente alla storiografia tradizionale, ma Charles Bettelheim ha dato ad esso una lettura di particolare interesse. Secondo l’economista francese, nel ’27 il commercio con le campagne era ormai in larga parte in mano, specialmente all’ingrosso, a organizzazioni statali e cooperative, ma lo stato tendeva a lasciare ad esse soprattutto un ruolo commerciale, trascurando di orientare la cooperazione verso un ruolo produttivo e di ri­fornire le aziende dei contadini piccoli e medi di manufatti tradizionali – elementari ma estremamente neces­sari alle aziende contadine – come aratri in ferro, strumenti per la semina e l’aratura, asce, seghe etc. La man­cata fornitura di manufatti frenava la volontà di vendere da parte dei contadini e quindi limitava gli ammassi.

Impreparato a gestire la situazione, l’apparato reagì fra il ’27 e il ’28 accentuando le pressioni coerci­tive e ottenendo quindi un apparente successo, che in prospettiva era destinato però a provocare nuove resi­stenze; furono così poste le basi per un nuovo grave fallimento degli ammassi nel ’28-29 (24). Agli occhi del vertice del partito ogni margine di coesistenza con l’economia contadina stava rapidamente venendo meno e non rimaneva dunque altra strada che la collettivizzazione dell’agricoltura.

 

3 – La rivincita degli apparati di stato

In certa misura la fine della piccola azienda agricola in Unione Sovietica era prevedibile. Una volta terminata la ricostruzione e posto in essere un grande piano di investimenti industriali, infatti, era evidente che l’agricoltura fondata sulle piccole imprese private avrebbe dovuto prima o poi cedere il passo a forme so­cialmente e tecnicamente più evolute di coltivazione. Ciò che contraddistingue specificamente la realtà so­vietica, tuttavia, fu la modalità particolarmente traumatica in cui il processo si verificò, indicativa del tipo di rapporti sociali che stava diventando dominante e che trovò puntuale riscontro nella sfera politica .

Il periodo che va dal ’26 all’inizio degli anni Trenta rappresenta una progressiva accelerazione delle trasformazioni economiche e insieme una brusca distruzione degli equilibri sui quali poggiava la società ne­gli anni della NEP. Il mutamento è ben visibile anche dagli indici economici più esteriori. Sotto la spinta con­giunta delle nuove iniziative statali e del correlativo venir meno delle attività private, la quota del prodotto attribuibile al settore privato passò infatti dal 51,1 % nel ’26-’27 al 39 % nel ’29, con un calo di circa 12 punti percentuali sul prodotto totale. Nei tre anni successivi, alla fine del ’32, il prodotto privato cadde al 9,3%, perdendo circa 30 punti percentuali, in larghissima parte a spese dell’agricoltura (25).

Prima della svolta legata alla collettivizzazione si era cercato di mantenere un compromesso tra due sollecitazioni opposte: da un lato, per togliere spazio all’opposizione di sinistra (ora unificata) di Trockij, Zi­nov’ev e Kamenev, che propugnava soluzioni industrialiste, si doveva ammettere l’opportunità di intrapren­dere un più deciso percorso di industrializzazione; dall’altro si cercava ancora di segnare dei limiti a quest’ul­timo, insistendo affinché non violasse la compatibilità con il quadro economico-politico della NEP. Su que­sta linea rimasero la XV Conferenza (ottobre-novembre 1926) e il XV congresso (dicembre ’27) che ratificò la sconfitta politica dell’opposizione di sinistra. Di lì a poco tuttavia irruppe sulla scena la crisi agricola del ’27-’28 coi suoi successivi sviluppi e i giochi si riaprirono.

Dall’estate del ’28 le contraddizioni derivate dalle politiche finora perseguite verso i contadini erano entrate in una fase nuova. Stalin – eliminati gli altri oppositori – era ormai in grado di indebolire la “destra” di Bucharin mentre nello stesso tempo si esplicitava l’idea che il problema dell’agricoltura fosse risolvibile solo mediante un immediato rinnovo della sua base tecnica, grazie alle attrezzature moderne che lo sviluppo industriale avrebbe messo a disposizione.

Nel frattempo l’attivismo del settore statale aveva avuto già modo di farsi sentire. Tra il ’26 e il ’29, infatti, si assistette a una pressione costante del Vesenkha – quartier generale della direzione industriale – su altri importanti commissariati e sul Gosplan (l’organismo di elaborazione del piano) al fine di aumentare sen­sibilmente il volume degli investimenti industriali; questa tenace attività fu particolarmente sensibile in sede di elaborazione del piano quinquennale, quando si instaurò un confronto serrato tra Vesenkha e Gosplan, con il primo organismo ininterrottamente impegnato nella revisione verso l’alto degli obiettivi del piano. Incalza­to da queste spinte, alla fine il Gosplan elaborò le due versioni del piano, quella di base e quella ottimale. Fu quest’ultima ad esser presa come variante di riferimento dei dibattiti di partito culminati nella XVI conferen­za (aprile del ’29), avallati subito dopo dal congresso dei Soviet (26) In essa le posizioni della destra furono ulteriormente stigmatizzate, ma gli obiettivi di collettivizzazione rimasero ancora relativamente contenuti e soprattutto si evitò ancora una volta di mettere in questione in linea di principio il quadro di fondo della NEP.

A questo stadio una delle caratteristiche fondamentali della pianificazione industriale, ossia l’aumen­to prioritario della produzione di mezzi di produzione rispetto a quella dei beni di consumo, era già ben con­solidata. Nelle previsioni del piano, tuttavia, il rinnovamento delle strutture agricole conservava ancora una componente di gradualità; si ipotizzava infatti che nel ’33 il settore socializzato dell’agricoltura (sovcos e col­cos) si sarebbe limitato a fornire il 16% del raccolto complessivo di cereali; una completa collettivizzazione, nelle opinioni dei pianificatori, avrebbe dovuto attendere per oltre un decennio (27). Fu solo verso la fine del ’29, in una situazione nella quale la destinazione delle risorse ormai prioritariamente indirizzata all’industria rendeva di fatto impossibile ogni compromesso, che il ritmo di collettivizzazione fu giudicato insufficiente a sostenere la crescente domanda urbana e i rilevanti trasferimenti di popolazione creati prevedibilmente dal­l’industrializzazione accelerata (28).

L’intreccio tra collettivizzazione e sviluppo accelerato, di cui ricostruiamo brevemente le tappe es­senziali soprattutto al fine di fissare le idee sul modello di capitalismo a cui misero capo le drastiche scelte della dirigenza staliniana, si svolse seguendo un percorso contraddittorio e conflittuale. Nel settore agricolo, i momenti più critici si registrarono soprattutto nel ’30 e nel ’32-’33. Dal momento in cui fu annunciata la “dekulakizzazione” (dicembre ’29) il ritmo di collettivizzazione fu drasticamente accresciuto e furono appe­santite le pressioni coercitive sotto forma di confische, discriminazioni, deportazioni. Il carattere brutale e nello stesso tempo caotico di questo impulso portò a collettivizzare in pochissimi mesi fino al 55% la percen­tuale di proprietà famigliari contadine, ma determinò un sommarsi di resistenze, disordini e disorganizzazio­ne che giunsero ben presto a livelli pericolosi. Non solo, infatti, si rischiava di compromettere le semine pri­maverili, ma anche, in alcune zone, di giungere a vere e proprie rivolte alimentate da potenze esterne (29). Fu paradossalmente lo stesso Stalin, che aveva sollecitato in tutti i modi i quadri locali a spingere in modo forsennato verso la collettivizzazione, a tirare improvvisamente il freno – con un noto intervento del marzo del ’30 – prima che si determinassero sviluppi incontrollabili (30).

La tensione, il cui allentamento aveva determinato un regresso di oltre la metà delle proprietà conta­dine collettivizzate, riprese tuttavia l’anno successivo. Le aziende collettive aumentarono rapidamente il pro­prio numero, ma in un contesto nel quale lo stato continuava ad effettuare esazioni pesantissime e in cui la difesa contadina passava attraverso la macellazione del bestiame per non farlo confluire nei colcos e/o la vendita e l’immagazzinamento clandestini del grano. Mentre il patrimonio zootecnico diminuiva rapidamen­te perfino quando era nelle mani dei colcos, non sempre attrezzati a gestirlo, nel ’32 le semine si contrassero pericolosamente, determinando una vera e propria carestia che si protrasse nel ’33; per alcuni anni i raccolti rimasero a livelli minimi e il reddito agricolo rimase praticamente stazionario fino alla fine degli anni Trenta (31) .

Pur pagando costi altissimi, che nocquero in vari modi all’efficienza economica e compromisero per molti anni i rapporti tra stato sovietico e contadini, già dalla metà degli anni Trenta la collettivizzazione era un fatto praticamente compiuto e irreversibile. Entro i colcos i produttori non controllavano più le proprie condizioni di lavoro e per certi aspetti la loro condizione era assimilabile a quella del salariato. L’attività la­vorativa veniva infatti controllata dall’alto, da direzioni nominate con la costante interferenza dei comitati di partito che agivano attraverso un proprio apparato di sorveglianza. Le remunerazioni provenivano da un fon­do residuale che rimaneva al colcos dopo aver soddisfatto tutti gli obblighi ed erano ripartite in riferimento a standard di giornata lavorativa stabiliti dalle autorità in relazione ai compiti, configurandosi di fatto secondo il principio del cottimo; unica forma di autonomia concessa al contadino erano il piccolo appezzamento e il bestiame accordati per uso personale. Si può aggiungere che nell’azienda collettiva prevalevano condizioni che ricordavano il capitalismo in una forma primitiva e semiservile: un sistema di sanzioni interne decise dalla direzione senza pratica possibilità di ricorrere a un controllo giudiziario esterno, l’esclusione dalle ga­ranzie sindacali – per quanto divenute ormai puramente formali – e dalle forme di assistenza riservate ai sala­riati, l’impossibilità di lasciare l’azienda senza permesso.

Nell’industria, dove i residui passati da liquidare erano minori, lo sconvolgimento fu meno traumati­co che nell’agricoltura, ma anche qui appare evidente come gli obiettivi fissati per i piani fossero stati conce­piti e gestiti con l’intento di forzare ogni limite. Visto che gli obiettivi del primo anno del piano erano stati raggiunti, furono aumentati anche quelli per l’anno seguente; il risultato di questa scelta fu al di sotto delle previsioni fatte all’atto della decisione, ma al di sopra di quelle contenute nella stesura originaria del piano. Di qui l’ulteriore progetto di accelerare la produzione saltando l’ultimo trimestre del 1930 (sincronizzando cioè anno economico e anno solare) e di un aumento eccezionale per il ’31, in modo da realizzare il piano in quattro anni. Per quanto il risultato d’insieme fosse stato ragguardevole, il raggiungimento di questi ultimi obiettivi fu mancato in modo abbastanza vistoso. La grande espansione quantitativa ebbe inoltre vari risvolti negativi che si manifestarono ben presto già nel corso dell’esecuzione del piano: oltre a non aver realizzato gli obiettivi relativi ai beni di consumo, la produzione subì un forte scadimento qualitativo; i costi industriali non diminuirono nella misura velleitaria prevista dai pianificatori, mentre i finanziamenti statali richiesti per compensare queste deficienze nella dinamica produttiva determinarono tensioni inflazionistiche. Nel ’32, in­fine, l’apparato produttivo, scontò bruscamente le tensioni eccessive cui era stato sottoposto e la produzione industriale diminuì in modo inequivocabile (32).

Le grandi difficoltà emergenti in tutto il sistema economico fra il ’32 e il ’33 costrinsero il partito a prender atto della realtà. Gli obiettivi lanciati alla XVII Conferenza (gennaio-febbraio 1932), ancora impre­gnati dallo smodato entusiasmo produttivistico degli anni precedenti, furono rivisti al ribasso e ratificati in questa forma dal XVII Congresso del ’34. In esso, sotto la superficie degli elogi iperbolici tributati a Stalin, gran parte degli storici ravvisa il manifestarsi di un’opposizione latente nei riguardi di Stalin stesso e dei me­todi usati nella fase iniziale dell’industrializzazione, sebbene resti in dubbio la connessione reale fra questo risveglio delle opposizioni e l’assassinio di Kirov (esponente a cui esse avevano probabilmente guardato), di poco posteriore, che diede avvio alle grandi purghe. Una parte considerevole degli stanziamenti andò a com­pletare i progetti lasciati in sospeso nel quinquennio precedente, mentre il ribasso dei costi venne concepito in chiave meno ambiziosa. Anche se non tutti gli obiettivi del piano vennero conseguiti, la progressiva stabi­lizzazione economica consentì di abolire il razionamento, rimasto in vigore dal ’29 al ’35, sebbene le indu­strie dei beni di consumo rimanessero ancora una volta indietro rispetto agli obiettivi fissati.

Se nel complesso la struttura istituzionale consolidatasi nel corso dell’industrializzazione sembrava aver superato la prova della costruzione di un’industria di base nazionale, ciò era avvenuto tuttavia attraverso un pesante assoggettamento della classe operaia alle esigenze dell’accumulazione. Nell’industria, non meno che nell’agricoltura, il momento cruciale si situa dalla fine degli anni Venti in poi. Per tutto il decennio prece­dente i sindacati sovietici mantennero, per quanto non senza contraddizioni, il duplice ruolo di organismo di tutela degli interessi dei lavoratori e di partecipazione all’introduzione di misure finalizzate alla razionalizza­zione e all’aumento della produttività. La rimozione di Tomskij dalla presidenza del Consiglio Centrale dei Sindacati, nel quadro della più generale offensiva contro l’opposizione di destra, può esser considerata il se­gnale della restrizione pressoché esclusiva dei sindacati alla collaborazione con le autorità di governo dell’ap­parato produttivo in funzione dell’accrescimento dell’efficienza industriale. Le funzioni del sindacato erano divenute pressoché indistinguibili da quelle del Commissariato del Popolo per il Lavoro, col quale il Consi­glio dei Sindacati effettivamente si fuse (1933). La privazione di organismi operai rappresentativi si accom­pagnò negli anni Trenta a un generale indurimento della disciplina di fabbrica. Non solo l’abolizione della contrattazione collettiva portò alla determinazione dei salari dall’alto, ma i salari furono sempre più vincolati a una differenziazione progressiva e a forme di cottimo che tendevano a prendere come punto di riferimento prestazioni d’avanguardia (stachanovismo). L’inasprimento del dispotismo di fabbrica fu completato infine dalla restrizione della possibilità di lasciare l’impresa, da arbitri nell’assegnazione degli straordinari e dei ri­posi, a violazioni delle norme sulla sicurezza del lavoro e all’indurimento delle sanzioni sulle assenze (33). Delle conquiste dei lavoratori successive all’Ottobre rimaneva ormai ben poco.

Al crescente irrigidimento delle istituzioni economiche sovietiche faceva riscontro, in modo per mol­ti versi ancor più evidente, una pesante involuzione del sistema politico. Se il regime sovietico, in particola­re dall’epoca della guerra civile, aveva accentuato i suoi tratti autoritari, la lotta al vertice del partito che si era protratta durante il periodo della NEP si tradusse in una progressiva restrizione delle possibilità di dibatti­to e di dissenso. Le ultime fasi di tale confronto, svoltosi nelle chiuse stanze dell’oligarchia, portarono poi al trionfo di Stalin e i loro risultati furono semplicemente resi noti più tardi al partito e al paese. Il modo in cui i processi per sabotaggio, le violenze si massa e l’estensione dell’internamento nei campi di lavoro hanno ac­compagnato gli anni del grande balzo economico è troppo noto per necessitare di esser ricostruito in detta­glio, come lo è l’ondata di repressione del ’36-38, che una volta esaurita lasciò la vita politica del paese per un quindicennio nel clima cupo e paranoide della tarda età staliniana (34). E’ insomma evidente come nella seconda metà degli anni Trenta si fossero ormai delineati alcuni caratteri di fondo della società sovietica de­stinati a perpetuarsi, pur con ovvie trasformazioni, nei decenni successivi fino al crollo definitivo dell’URSS.

 

4 – Un capitalismo di stato atipico

Una volta esaminata la nascita del nuovo sistema economico rimane da risolvere l’interrogativo sulla struttura sociale che ad esso era sottesa. Il dibattito è durato alcuni decenni e altrove abbiamo cercato di rico­struirlo almeno in parte (35). In questa sede riprendiamo soltanto le conclusioni a cui siamo giunti esaminan­do quello che a nostro avviso rappresenta il contributo più valido all’analisi dell’economia sovietica in base ai rapporti di produzione, ossia quello di Bettelheim.

Ripercorrere l’itinerario seguito da Bettelheim nell’elaborazione delle proprie tesi travalica i compiti che qui ci siamo posti, i quali rimangono circoscritti alla valutazione del modello di sviluppo sovietico. Per tale ragione prenderemo in esame soprattutto l’ultimo volume delle Lotte di classe in URSS, non solo perché in esso si esamina il sistema sovietico nel suo insieme, ma anche perché vi si rettificano alcune delle premes­se che stavano alla base della ricerca impostata inizialmente dallo stesso autore.

Mentre all’esordio della propria ricerca Bettelheim riteneva che a partire dall’ottobre del ’17 si fosse giunti all’involuzione graduale del potere sovietico verso una forma di capitalismo di stato tramite una serie di cedimenti e rotture dovuti a circostanze storiche particolari, al compimento di essa egli riconosce che la natura complessiva del processo aveva un senso profondamente diverso fin dall’inizio:

«[…] à travers un processus complexe et heurté, l’insurrection d’Octobre ouvre la voie à deux révolutions successives: celle qui s’oriente vers un capitalisme d’Etat composant avec la paysannerie – a partir de 1929 – celle qui jette les bases – au nom du socialisme et sous la direction du parti bolchevik – d’une forme extrême de capitalisme. Finalement, cette deuxième révolution, impulsée par la direction stalinienne, impose au peuple russe des rapports d’exploitation qui permettent pendant un certain temps de réaliser un taux d’accumulation exceptionnellement élevé, au prix d’une oppression sans précédent»(36).

Le caratteristiche generali del capitalismo sovietico sono sostanzialmente due. In primo luogo la bor­ghesia sovietica si presenta formalmente come composta da salariati, ma solo la parte superiore di essa, quel­la borghesia che grazie alla sua appartenenza agli organismi decisionali del partito influenza le decisioni po­litiche, si configura come classe dominante (per questo Bettelheim ne parla come di una “borghesia di parti­to”) (37). Come ogni altro capitalismo, in secondo luogo, anche questa variante di capitalismo di stato si caratterizza per la tendenza all’accumulazione fine a se stessa, per la spinta immanente ad accumulare ric­chezza, che nelle condizioni particolari della società sovietica prende la forma dello sviluppo prioritario del­la produzione di mezzi di produzione (38).

La forma particolare assunta dalle lotte di classe, che ha portato all’affermazione della proprietà sta­tale, e lo sviluppo massiccio di una accumulazione primitiva fortemente centralizzata, favoriscono in URSS il predominio della rappresentazione ideologica del piano, secondo cui lo stato controlla in modo equilibrato la crescita dell’economia. Al di là di questa rappresentazione, tuttavia, il conflitto tra i vari frammenti del ca­pitale sociale continua a farsi sentire. La concorrenza, intesa in questo senso, non risulta affatto abolita, ma assume semplicemente una conformazione diversa: essa opera entro la cornice esteriore del piano ed assume i contorni di una spinta, da parte di ogni frazione capitalistica o apparato, alla ricerca di quote maggiori di ri­sorse, alla creazione di riserve occulte, all’aggiramento di normative che permetta di raggiungere più facil­mente gli obiettivi imposti (39).

Riservandoci di tornare tra poco sui caratteri di questa permanenza occulta della concorrenza, ci pre­me di sottolineare ora come per Bettelheim, assieme alla concorrenza, persistano sotto altre forme anche le crisi, che la pianificazione in teoria dovrebbe aver abolito. In altre parole, i rallentamenti o i veri e propri ar­resti della crescita avvenuti negli anni Trenta (’33 e ’37) non sono da considerare casuali, ma rappresentano il risultato di una spinta alla sovraccumulazione. La crisi del ’33, in particolare, evidenzia bene come l’accumulazione accelerata abbia drenato in modo troppo brusco le riserve di forza lavoro disponibili, aumentando in modo eccessivo l’urbanesimo, squilibrando al contempo l’ammontare di investimenti a sfavore dell’agricoltura, già colpita dagli eccessivi prelievi per i consumi urbani e le esportazioni volte all’acquisto di attrezzature industriali all’estero; d’altra parte la crisi agricola retroagiva a sua volta sul settore industriale, perché la difficoltà di rifornire le città si traduceva in definitiva in un calo di produttività del lavoro (40).

Dal punto di vista della teoria marxista le crisi tipiche dell’economia sovietica hanno caratteristiche peculiari. Esse concretizzano come tipico quello che in Marx e nella realtà del capitalismo occidentale costituisce invece un caso limite, ossia quello della “sovraccumulazione assoluta”, cioè un aumento del capitale in rapporto alla popolazione operaia in proporzioni tali che esso non può esser compensato né da un aumento del plusvalore assoluto né di quello relativo. Rispetto alle crisi classiche del capitalismo, che sono crisi di sovrapproduzione di merci, qui la crisi si esprime attraverso una doppia penuria: di mezzi di produzione e di beni di consumo (41).

Concludendo, si tratta di un tipo di accumulazione prevalentemente estensiva e irregolare, che alla lunga non fa innalzare sufficientemente la produttività del lavoro.

Mascherata per un certo periodo dalle proporzioni grandiose assunte dal processo di industrializzazione, essa si traduce più tardi in una crisi strutturale:

«Pendant les années 1930 à 1950, la contradiction entre la capacité d’exploitation et d’accumulation du capitalisme de parti et sa capacité de faire croître la production a été partiellement masquée par les énormes transferts de population de l’agriculture vers l’industrie, ce qui a permis finalement de forts accroissements de la production globale. Cependant, déja à cette époque, la forme spécifique revêtue par les crises de suraccumulation du capital révélait que ce type de capitalisme n’est que faiblement apte à réaliser une accumulation intensive permettant d’accroître rapidement la productivité du travail, donc d’éviter des pénuries généralisées et d’augmenter substantiellement le niveau de vie des travailleurs. Ceci résulte des contraintes que ce capitalisme fait peser sur l’économie»(42).

Siamo ora in grado di riprendere la valutazione del discorso di Bettelheim – che in generale ci sem­bra largamente condivisibile – mettendo a fuoco la concezione della concorrenza tratteggiata più sopra. A questa posizione è stato opposto, da parte di Sweezy, che l’analogia fra i due tipi di concorrenza non è così profonda da argomentare una sostanziale identità tra capitalismo tradizionale e società di transizione al socia­lismo [Sts]: « Ciò che [Bettelheim] asserisce, e io nego, è che ci sia in corso un analogo processo nelle Sts che conduce a risultati sufficientemente simili tali da giustificare la classificazione dei due sistemi (capitalismo e Sts) quali varianti di una sola e medesima formazione sociale. Contrariamente a ciò che Bettelheim sembra credere, nella mia posizione non è inclusa anche la convinzione che nelle Sts esista un’autorità onnipotente (per non dire onnisciente) che tutto dispone, secondo un piano razionale. Ma esiste un’autorità centrale, estremamente potente, che cerca di organizzare molte delle cose più importanti e che è in grado di intervenire ovunque decida di farlo. Tali interventi possono riuscire a conseguire i risultati voluti oppure no: il fallimento può risultare frequente quanto il successo » (43).

È indubbio che, entro certi limiti, l’obiezione di Sweezy coglie nel segno, giacché Bettelheim, nello sforzo di mostrare la continuità fra il capitalismo di stato sovietico e il capitalismo occidentale, usa il concet­to di concorrenza invalso nella tradizione marxista, ossia quello di una competizione tra frammenti del capi­tale che, in una situazione data, cerca di migliorare i profitti di ognuno di essi. Va rilevato tuttavia che tale forma di competizione non rappresenta le forme di conflittualità intercapitalistica nella loro interezza. È sta­to infatti notato – e proprio da parte di un marxista che in passato non ha mancato di tener largamente conto dell’opera di Bettelheim – che esiste un altro tipo di concorrenza, ancor più caratteristica del capitalismo, os­sia la concorrenza che passa attraverso lo sconvolgimento della situazione data e che copre una vasta gamma di forme di competizione tra capitali, sia facendo leva sull’introduzione di prodotti nuovi che sulla continua apertura di territori economicamente profittevoli, richiedendo il ricorso ad alleanze e lotte per ottenere la su­premazia oppure per escludere gli avversari dall’accesso a determinati settori. Essa «promuove l’apertura di interamente nuovi spazi economico-sociali, e culturali, in cui si precipitano colossali investimenti, con il pe­riodico rinfocolarsi della competizione intercapitalistica (tra dominanti), che sgretola il monopolio pur nel­l’ambito di una crescita delle dimensioni imprenditoriali. Non sussiste una tendenza univoca al monopolio, come avverrebbe se la produzione crescesse lungo alcune direttrici fondamentali, sempre le stesse pur se ca­ratterizzate dall’uso di macchinari via via più grandi, complessi e potenti » (44).

È evidente che quest’ultima e più radicale forma di lotta ha giocato un ruolo fondamentale nello svi­luppo del capitalismo, permettendo la nascita di nuovi settori di produzione di beni di consumo, di mezzi di produzione, di sistemi di trasporto etc.; è la stessa forza potente che, in altro modo, opera attraverso l’apertu­ra di nuovi mercati, di investimenti esteri, di forme di delocalizzazione. È precisamente questa modalità di progresso che è stata inibita dal capitalismo di stato sovietico. È ben noto, del resto, che se quest’ultimo, in una fase della propria storia, ha imitato efficacemente alcune tecniche esistenti in Occidente, ha poi sempre avuto difficoltà nello stimolare la ricerca di prodotti e tecnologie nuove e nel diffondere queste ultime entro il sistema economico. Mentre la forma di concorrenza che si è conservata è servita per difendere alcune sac­che di inefficienza o al più per rendere più facile e flessibile la realizzazione degli obiettivi imposti dal piano, la mancanza dell’altra si è fatta alla lunga sentire e ha potentemente contribuito alla crisi storica del sistema.

Appare dunque fondatamente sostenibile che la mancata distinzione attribuibile a Bettelheim rende più difficile comprendere la trasformazione delle crisi cicliche in una permanente crisi strutturale. Nello stes­so tempo, ad ogni modo, è difficile pensare con Sweezy che questa differenza tra capitalismo occidentale e società sovietica sia sufficiente per permettere di considerare quest’ultima come una formazione sociale sui generis. È vero, piuttosto, che essa ha dato origine a un capitalismo di stato atipico e inefficiente, il quale alla lunga ha sviluppato tratti parassitari che lo hanno visto soccombere nel confronto con quello occidentale (45). Le tappe attraverso le quali il capitalismo sovietico ha progressivamente palesato le proprie con­traddizioni saranno ripercorse nel rimanente di questo scritto.

 

5 – Tramonto di un’era

Per l’Unione Sovietica l’immediato dopoguerra rappresentò un periodo decisamente più travagliato rispetto agli Stati Uniti. Il nuovo ruolo di superpotenza, infatti, le imponeva di tutelare la propria sfera d’influenza a livello mondiale rispetto agli Stati Uniti e quindi di impegnarsi, pur in condizioni di inferiorità economica, nel riarmo convenzionale e nella corsa per colmare il ritardo atomico. Nel contempo essa doveva contenere le contraddizioni interne alla propria sfera di influenza, inasprite non solo dalle tensioni Est-Ovest, ma anche dall’inaspettata resistenza della Jugoslavia di Tito e dal potenziale contagio che essa poteva costi­tuire per gli altri paesi satelliti (47). A queste difficili condizioni esterne facevano riscontro all’interno le colossali perdite umane e le altrettanto gravi devastazioni economiche provocate dal conflitto mondiale, che davano luogo a miseria (aggravata dalla grande siccità del ’46) e degrado sociale. Anche la rigidità con cui vennero posti sotto controllo i territori che avevano subito l’occupazione tedesca e quelli di nuova acquisizione era fonte di conflitti; lo stesso rientro di reduci e prigionieri avveniva in un clima di sospetto e persecuzione (47).

Se la guerra aveva imposto una forzata coesione patriottica e l’allentamento delle forme più estreme di repressione, nelle nuove condizioni il regime staliniano reagì ricorrendo nuovamente – e spesso in forma più esasperata – a risposte ideologiche e repressive analoghe a quelle che avevano caratterizzato il periodo più buio degli anni Trenta. Il rinvigorirsi del nazionalismo russo si tradusse nella deportazione forzata di na­zionalità minori e di ampi gruppi appartenenti a nazionalità più numerose, mentre prendeva quota – pur sen­za essere esplicitamente teorizzato a livello ideologico – l’antisemitismo. Nel campo della cultura la guerra fredda si tradusse immediatamente nello żdanovismo, che impose all’intellettualità sovietica – dagli artisti agli scienziati ai filosofi – una programmatica circospezione verso le idee occidentali e l’immediata sottomis­sione alle esigenze della propaganda.

Ancor più torbida di quanto fosse nel decennio precedente era l’atmosfera che circolava al vertice del potere politico. Non solo un congresso del partito non si riuniva dal ’39, ma gli stessi organismi collettivi che rimanevano in carica tra un congresso e l’altro non venivano quasi più convocati. Nemmeno il politburo funzionava in modo collegiale e regolare: esso era attraversato da rivalità reciproche tra i suoi membri e da una sempre più pesante diffidenza di Stalin verso i propri immediati collaboratori. Fu in questo contesto che, negli ultimi anni di vita del leader sovietico, vennero montati oscuri casi giudiziari (l’affare di Leningrado, quello mingreliano, il complotto dei medici) che indirettamente toccavano la posizione dei più influenti membri del vertice (48).

Queste tensioni interne, che paralizzavano l’attività dei massimi organismi sovietici, furono improv­visamente sciolte dalla morte di Stalin (5 marzo ’53), che riaprì i giochi politici e portò, nel giro di pochi anni, alla costruzione di una nuova leadership e a un mutamento nello stile di governo. All’indomani della morte di Stalin, i più quotati rappresentanti della nuova direzione collettiva erano Malenkov, Molotov e Beri­ja. In quel momento sembrava assai più strategico controllare l’apparato dello stato che quello di partito e il vertice di questo, comunque molto importante, non poteva essere assegnato ai più prestigiosi componenti della gerarchia senza squilibrare vistosamente il loro reciproco rapporto di forze. Esso fu lasciato – con l’in­carico di primo segretario – a Cruščev, considerato allora una figura relativamente minore la cui reputazione si basava soprattutto sulle sue competenze agricole.

Fu Cruščev che, in un modo apparentemente imprevisto, giunse poi a prevalere attraverso una lotta di successione articolata in tre tempi (49). Inizialmente, nel giro di pochi mesi, fu giustiziato Berija, il cui controllo sui servizi di sicurezza, nuovamente rafforzato dopo la morte di Stalin, rappresentava una minaccia collettiva per tutti i rappresentanti dell’oligarchia al potere. L’anno decisivo fu tuttavia il ’55, quando Cruščev riuscì a battere e ridimensionare separatamente Malenkov (inizio ’55) e Molotov (nella seconda metà dello stesso anno) (50). La preminenza cruščeviana, ormai sancita, si rafforzò nel ’56 col XX Congresso (51) e sopravvisse all’attacco portato dall’opposizione unita di Malenkov, Molotov, Kaganovič e altri (il c.d. “gruppo antipartito”) l’anno successivo.

Da fine guerra alla morte di Stalin la politica economica sovietica continuò a mantenersi all’interno delle linee tradizionali. La ricostruzione fu impostata in modo da dare la priorità all’industria pesante, e ai trasporti delle merci; la ricostruzione urbana veniva affrontata con un criterio molto selettivo dipendente dall’importanza delle città e dei singoli quartieri, mentre l’industria leggera e i beni di consumo furono sacri­ficati.

Nel complesso il lavoro di ricostruzione ebbe successo, ma a prezzo di una netta subordinazione del­l’agricoltura. Il governo riaffermò nei colcos una rigida disciplina e forti carichi di lavoro, non modificò i prezzi di ammasso ed anzi impose alle aziende collettive molti ulteriori oneri, anche di tipo fiscale. Le impo­ste sugli appezzamenti privati dei contadini, inoltre, erano talmente elevate da costringere questi ultimi ad abbandonare coltivazioni e allevamento, accentuando la fuga dalle campagne.

Anche se le condizioni dei colcos erano differenziate a seconda delle colture prevalenti, della localiz­zazione e della superficie, molti di essi erano sull’orlo del collasso. L’iniziativa promossa da Cruščev e realiz­zata fra il ’50 e il ’52 di ridurre il numero delle aziende collettive attraverso la loro fusione obbligatoria, appa­rentemente avrebbe dovuto rendere più razionale l’avvicendamento delle colture e migliorare l’organizzazion­e, portò in realtà a benefici limitati. L’inefficienza delle aziende più malridotte, infatti, si tradusse in un ag­gravio per quelle più produttive con cui erano state accorpate e, in assenza di un sistema efficiente di trasporti, il movimento della manodopera all’interno di aziende di molte migliaia di ettari fu reso difficoltoso (52).

Nel settembre del ’53 si cominciò a porre in atto alcuni provvedimenti che sgravavano la condizione dei contadini. L’alleggerimento della fiscalità e l’incoraggiamento che in questa e in altre forme venne dato all’allevamento privato nel giro di pochi anni aumentò in modo sensibile i capi di bestiame (53). Nelle questioni economiche come in tutti gli altri campi della vita sovietica, la svolta sopravvenuta immediatamen­te dopo la morte di Stalin comportò dunque un certo alleggerimento della situazione. I problemi della società sovietica erano tuttavia molto più complessi da risolvere e rappresentarono una sfida per la nuova leadership.

 

6 – Occasioni perdute

Per quanto certamente brutali e ingiustificabili sotto molti punti di vista, i drastici sistemi dell’età staliniana potevano essere comprensibili in un contesto nel quale erano considerati necessari tassi d’investi­mento elevati e all’agricoltura veniva imposto di finanziarli. Nelle nuove condizioni, nelle quali si veniva de­lineando la volontà di competere con un capitalismo al quale era sempre più difficile contestare elementi di dinamicità, era evidentemente necessario pensare in termini nuovi. Nonostante negli anni Cinquanta l’econo­mia sovietica crescesse ancora in modo significativo (54), si andava tuttavia evidenziando al suo interno una serie di disfunzioni in grado di ostacolare il conseguimento degli obiettivi più ambiziosi che venivano prospettati.

I progressi agricoli, ad esempio, non potevano prescindere da un’adeguata dotazione di macchine, da un’appropriata rete di trasporto e stoccaggio, nonché da un potenziamento dell’industria chimica che assicu­rasse la fornitura di fertilizzanti; analogamente, non si poteva non ripensare alla riformulazione di tutto il si­stema delle forme di proprietà e degli incentivi. Forse meno evidente, ma altrettanto stridente appariva l’arre­tratezza dell’industria. Innanzitutto l’URSS non aveva sviluppato alcuni settori tecnologicamente avanzati. Nella misura questo era stato fatto, le risorse di finanziamento, ricerca, manodopera qualificata andavano prioritariamente al complesso militare-industriale (si pensi, per ricorrere ad un esempio dell’epoca, agli sforzi dedicati al nucleare e alla ricerca missilistica, ma anche a sistemi d’arma convenzionali da produrre su larga scala). Nei rimanenti ambiti, in misura differenziata a seconda delle singole branche, non si riusciva a superare alcuni ostacoli di fondo: gli investimenti nella produzione dei beni di consumo erano scarsi e gli apparati centrali di pianificazione e direzione ipertrofici; gli indici quantitativi di incentivazione con cui essi guidavano le imprese rimanevano grossolani e inefficienti, mentre vi erano evidenti difficoltà nel sostenere il progresso tecnico incorporandolo nei prodotti e nel motivare le diverse componenti sociali che operavano all’interno delle unità produttive (55).

Nella misura in cui la forma particolare assunta dal capitalismo di stato sovietico in età staliniana era giunta ai suoi limiti, il confronto economico con l’Occidente prospettato nel periodo immediatamente succes­sivo (56) avrebbe richiesto una trasformazione radicale dei meccanismi economici e, in definitiva, dei rapporti di classe sottesi ad essi. Ipotizzare una tale capacità nell’élite sovietica cresciuta all’ombra dello stali­nismo sarebbe stato allora – e sarebbe a maggior ragione oggi – completamente antistorico. Quello che ci si poteva aspettare, e che fu in effetti realizzato, è che la dirigenza sovietica cercasse di operare seguendo le li­nee di minor resistenza e più promettenti nell’immediato.

Questo aspetto balza agli occhi in modo particolare a proposito delle politiche agricole. Nell’urgenza di ottenere risultati concreti per l’agricoltura, Cruščev ricorse all’espediente temporaneo di coltivare le terre vergini situate nelle aree orientali dell’URSS, che le cui riserve nutritive accumulate avrebbero consentito di ottenere in breve tempo grandi raccolti. Supportata da trasferimenti di manodopera e mezzi frettolosamente approntati, la coltivazione delle terre vergini dette inizialmente – tranne che per il ’55 – buoni risultati. Negli anni successivi i rendimenti furono oscillanti; ma nel frattempo tuttavia si fecero sentire gli effetti dell’erosio­ne, in astratto prevedibili ma a cui concretamente si era fatto ben poco caso, i quali condussero nel ’63 a ri­sultati disastrosi (fu in quell’anno che si dovette ricorrere a massicce importazioni agricole che ridussero sen­sibilmente le riserve auree e valutarie). Decisamente controproducente fu inoltre la contemporanea estensio­ne forzata della coltivazione del mais con la prospettiva di usarlo per potenziare l’allevamento a scapito dei foraggi. Anche in questo caso, la varietà delle situazioni ambientali, a torto trascurata nella fase di estensione delle coltivazioni, produsse in breve dei danni evidenti fin dai primissimi anni Sessanta. Nel frattempo la difficoltà per lo stato di fornire i foraggi ai piccoli allevatori privati portò a rovesciare la precedente propen­sione a incoraggiare l’allevamento da parte dei contadini, i quali vennero spinti invece a far confluire nuova­mente il bestiame nelle aziende collettive, con conseguente perdita di patrimonio zootecnico.

Un’analoga tendenza a promuovere nuove iniziative in modo estemporaneo e affrettato allo scopo di ottenere in breve risultati tangibili fu rappresentata dalla liquidazione delle STM (stazioni di macchine e trat­tori), ossia le organizzazioni statali che svolgevano presso i colcos, dietro corrispettivo, i lavori per i quali erano necessarie attrezzature meccaniche moderne. Nell’ipotesi che la proprietà delle macchine avrebbe mi­gliorato la loro utilizzazione da parte dei colcos, nel ’58 pressoché tutte le SMT vennero smantellate e le loro macchine vendute alle aziende nell’arco dell’anno. Tutto ciò ebbe una serie di gravi contraccolpi: i colcos do­vettero affrontare gli oneri dell’acquisto e furono costretti a dotarsi di tutte le attrezzature necessarie al man­tenimento in efficienza delle macchine, dirottando le proprie riserve o indebitandosi; la riduzione di ulterio­ri acquisti che ne derivò portò a una contrazione di sbocchi per l’industria produttrice di macchine agricole, mentre molti dipendenti qualificati delle SMT lasciavano le campagne e i nuovi centri di assistenza tecnica venivano messi in piedi con difficoltà. Appare evidente, in altre parole, che un provvedimento che avrebbe potuto avere ricadute positive se realizzato con gradualità, gestito con un eccesso di impazienza finì per por­tare, in un’agricoltura già di per sé problematica come quella sovietica, a una flessione nell’uso delle macchi­ne (57).

Se la politica agricola risente in modo particolare dello stile improvvisato e impaziente di Cruščev, quella industriale testimonia invece maggiormente alcune delle contraddizioni oggettive a cui si andrò incon­tro nel tentativo di ovviare all’impianto centralistico della pianificazione sovietica (58). L’anno decisivo per la svolta impressa al sistema di direzione economica fu – non a caso – il ’57, ossia il momento in cui le opposizioni in precedenza ridimensionate tornarono a farsi sentire fino a determinare una vera e propria crisi politica nel giugno di quell’anno che portò – come accennato più sopra – alla sconfitta del “gruppo antiparti­to”. Il consolidarsi dell’opposizione fu evidente quando – tra il ’56 e il ’57 – il piano approvato l’anno prima al XX Congresso fu criticato in fase di realizzazione e Cruščev rispose varando una vasta riforma, nella qua­le lo scopo di migliorare l’efficienza economica era intrecciato al ridimensionamento del potere delle buro­crazie ministeriali del centro (59).

Il sistema sovietico di direzione consolidatosi negli anni Trenta era basato sul ruolo dei ministeri. Questi ultimi – il cui numerò oscillò a seconda delle fasi e che al momento della riforma erano circa una trentina – traducevano le direttive centrali in relazione a specifici settori produttivi. A questa amministrazione settoriale, la riforma ne contrapponeva una di tipo settoriale, in base alla quale vennero disegnate 104 regioni territoriali, ciascuna dotata di un consiglio direttivo (sovnarchoz) che avrebbe dovuto disciplinare le aziende sul territorio. In questo modo, oltre a richiedere un notevole sforzo di realizzazione, non si otteneva tuttavia una reale autonomia delle imprese, le quali passavano semplicemente dal controllo della burocrazia ministe­riale a quello della burocrazia regionale (60). L’avvicinamento dei centri direzionali alle imprese accentuò la pressione degli interessi locali e non contribuì a chiarire i rapporti con quei settori e/o competenze che rimanevano ancora sotto il controllo centrale, creando così una diffusa insoddisfazione Anche in questo cam­po, dunque, si dovette iniziare una ritirata e nel 1962 il numero delle regioni economiche venne praticamente dimezzato (61).

Gli anni ’62 e ’63 furono anche anni di insuccessi all’estero (crisi dei Caraibi e conflitto ideologico con la Cina), ma le difficoltà di Cruščev continuarono ad accrescersi soprattutto sul terreno economico. Della grave crisi agricola del ’63, cui si pretese di rispondere annunciando piani velleitari di produzione di fertiliz­zanti, si è già detto. Ciò che segnò in particolare il destino politico di Cruščev fu tuttavia il tentativo di risol­vere i problemi economici modificando l’organizzazione di partito. Nel novembre ’62 fu annunciata la divisione degli organismi regionali del partito in una sezione agricola e in una industriale. Questo e altri aspetti della riforma provocarono scontento nella dirigenza periferica del partito e, pur originati dall’intento di dare a ogni settore un’attenzione adeguata, provocarono conflitti di competenze e/o disinteresse per tutte le attività intermedie tra le due fondamentali. Il persistere delle difficoltà spinse tuttavia Cruščev a compiere un altro passo, che toccava stavolta i livelli politici più alti. La nuova riforma immaginata avrebbe impegnato infatti i massimi livelli del partito in un articolato lavoro di direzione economica, con il probabile risultato di estraniarli dalle più alte decisioni politiche (62). Fu questo pericolo che spinse il vertice del partito a far decadere il segretario dal suo incarico, aprendo un’altra fase della storia sovietica.

 

7 – Verso la stagnazione

La nuova direzione politica, dopo una breve fase di incertezza per la quale si è parlato a ragione di un cruščevismo senza Cruščev (63), mostrò di lì a poco quella che doveva diventare la sua fisionomia definitiva. Se l’era cruščeviana si era aperta per alcuni anni all’insegna di grandi speranze di liberalizzazione politica, quella di Brežnev vide un partito chiaramente determinato ad arrestare la destalinizzazione e a porre precisi limiti al dissenso. Il gruppo dirigente manifestò certamente anche il proposito, in parte realizzato, di aumentare i consumi e modernizzare il paese, ma senza mettere in questione gli equilibri politico-ideologici caratteristici della società sovietica (64).

La politica economica adottata seguì fedelmente queste linee di fondo. Essa puntò infatti non tanto al rinnovo delle strutture macroeconomiche della pianificazione, che conobbero dei mutamenti nel complesso limitati, ma su una riordino dei meccanismi microeconomici, soprattutto a livello d’impresa. L’economia so­vietica, infatti, mancava di meccanismi simili a quelli delle economie di mercato, in grado di penalizzare ef­ficacemente le imprese inefficienti e di migliorare la qualità della produzione. Mancava inoltre – e questo aveva un’importanza determinante nella competizione con l’Occidente – uno stimolo a rinnovare la produ­zione servendosi dei nuovi ritrovati scientifici: la ricerca sovietica, infatti, si svolgeva in larga parte fuori del­le imprese e queste ultime stentavano a incorporarne i risultati (65).

Dopo l’esito fallimentare dell’esperimento di organizzazione territoriale, le macrostrutture della pia­nificazione furono ripensate ritornando alla tradizionale impostazione settoriale, anche se meno centralizzata (i ministeri federali-repubblicani erano più numerosi di quelli federali) e con un potere meno incondizionato. I ministeri settoriali furono affiancati da importanti comitati con compiti funzionali (pianificazione, controllo investimenti, coordinamento intersettoriale etc.).

La vera novità della riforma economica adottata nel ’65 e gradualmente realizzata stava tuttavia nel recepire in qualche modo i risultati dei dibattiti avvenuti tra il ’62 e il ’64, che prevedevano una maggior auto­nomia per le imprese. Per queste ultime si pensò a una riduzione del numero di indici quantitativi da rispet­tare e soprattutto all’introduzione di un indice di redditività costituito dal rapporto fra profitto e fondi di pro­duzione, che doveva spingere l’impresa ad aumentare il profitto e/o economizzare i fondi. Dal profitto netto dovevano essere creati tre accantonamenti a beneficio dell’impresa: uno per i premi individuali, uno per le attività culturali e i servizi sociali resi ai lavoratori e uno per finanziare piccoli miglioramenti produttivi.

L’esito della riforma, tuttavia, si rivelò nel complesso deludente per vari ordini di ragioni, in parte derivate dai rapporti fra le unità economiche di base e le autorità centrali, in parte riconducibili ai difetti in­trinseci con cui era stata concepita l’incentivazione. I ministeri e gli altri organi dell’amministrazione conti­nuarono infatti a interferire sulla vita delle imprese e a cercare di impedire i rapporti diretti fra un’impresa e l’altra, che pure erano permessi dalla legge. Le imprese, inoltre, mancavano di autonomia nella fissazione dei prezzi e, in mancanza di un adeguato sistema di sanzioni, le inadempienze delle imprese fornitrici potevano danneggiare le imprese clienti; anche l’utilizzo dell’indice di produzione venduta ebbe poco successo in un mercato squilibrato dal lato dell’offerta, nel quale gli acquirenti non avevano alternative. Gli stessi fondi accantonati che rimanevano disponibili presso le aziende, infine, erano difficilmente utilizzabili: in parte risultavano distribuiti in modo inadeguato e in parte, dato il contesto di distorsioni burocratiche e penuria, erano difficilmente spendibili (66).

In agricoltura, in cui alle deficienze organizzative si accoppiavano le indubbie difficoltà derivate dal­l’andamento climatico, si operò su vari versanti. Si assistette quindi a una crescita degli investimenti agricoli, mentre cambiava l’atteggiamento dell’amministrazione nei riguardi dei colcos, nei quali la condizione dei la­voratori fu migliorata, tramite un sistema di pensioni e una retribuzione salariale certa. Per le aziende collet­tive furono pensati obiettivi realistici basati sulle vendite e prezzi più vantaggiosi in caso di superamento del piano, alleggerimenti fiscali e finanziari (67).

L’aumento dei prezzi d’acquisto, non potendo esser compensato da un aggravio su quelli di vendita, si tradusse tuttavia nella crescita del deficit dello stato. D’altra parte le persistenti insufficienze della meccanizzazione e della condizione dei trasporti, la mancanza di attrezzature di conservazione e le carenze organizzative che impedivano di concentrare una quantità sufficiente di manodopera nei ristretti lassi temporali di­sponibili per i raccolti erano una fonte permanente di spreco e inefficienza. L’agricoltura sovietica, in passato finanziatrice dello sviluppo, stava ora diventando un fardello sempre più pesante (68).

Il quadro sin qui tracciato mostra come la crescita economica sovietica, pur mantenendo ritmi accet­tabili fino agli anni Settanta, continuasse a mantenere a tutti i livelli aree di inefficienza e penuria, che provo­cavano la graduale diffusione di iniziative miranti a compensare le lacune del sistema economico e/o a trar­ne profitto. Col procedere degli anni Settanta era ormai sempre più percettibile l’esistenza di un’economia pa­rallela, che operava ai margini della legalità, la quale offriva beni di consumo e servizi formalmente non re­peribili.

Essa coinvolgeva una larga gamma di attività; alcune di esse erano interamente clandestine, ma molte altre linee di produzione e/o servizi fiorivano dietro la facciata delle imprese di stato. Quest’ambito sommerso, per quanto illegale, suppliva nella sostanza alle larghe smagliature dell’economia di piano (69). Le autorità, che formalmente tuonavano contro il malcostume e ne combattevano alcune punte, nel complesso lo tolleravano, sia perché l’economia parallela tamponava nascostamente falle importanti di quel­la ufficiale, sia perché dava laute occasioni di introito ai funzionari che a vario titolo vi erano coinvolti.

La rilevanza dell’economia sommersa non significava solo la delegittimazione implicita di quella uf­ficiale, ma ne modificava in concreto il funzionamento. Per quanto la consistenza di tale settore parallelo fos­se difficilmente quantificabile, lavoro e risorse materiali entravano infatti in quel circuito attraverso vari ca­nali, alterando in tal modo le risposte degli agenti economici alle direttive ufficiali dell’amministrazione.

Questi fenomeni si sommavano ad altri che, per quanto striscianti, tendevano anch’essi ad ostacolare l’aumento della produttività: l’incremento della popolazione in età lavorativa era notevolmente rallentato, lo stock di capitale era invecchiato e richiedeva un pesante lavoro di manutenzione, le risorse energetiche erano sempre più spostate verso Oriente. Le cospicue importazioni di attrezzature industriali e prodotti agricoli era­no un’evidente spia delle difficoltà.

Pur senza registrare episodi particolarmente acuti, dalla metà degli anni Settanta l’economia sovietica entrò in una fase nella quale, anziché una dinamica tendenzialmente ciclica come quella precedente, essa mo­strò in misura sempre maggiore i segni di una stagnazione produttiva (70) sulla quale non avrebbero tardato ad innestarsi sintomi di degrado sociale e di senescenza dei vertici politici, destinati a raggiungere di­mensioni preoccupanti fin dall’inizio del decennio successivo. Da questo punto si apre un capitolo nuovo nel­la storia dell’economia sovietica, il cui corso ulteriore non può più esser seguito all’interno del sistema, ma fa tutt’uno con la disgregazione di quest’ultimo a tutti i livelli, oltrepassando quindi i limiti che ci siamo posti in questa sede.

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NOTE
1) Lo stato dell’economia sovietica in quella fase è ben reso da questa incisiva sintesi di Dobb: «Ad un certo momento il governo so­vietico aveva perduto il controllo del 90 % dei giacimenti carboniferi del paese e poteva disporre di meno di un quarto delle fonderie di ferro, di meno della metà della superficie granaria e di meno di un decimo della sua produzione di barbabietole da zucchero. La mancanza di materie prime minacciava di paralizzare l’industria. La carestia attanagliava città come Mosca e Pietrogrado. Alla man­canza delle merci tradizionalmente importate dall’estero […], si aggiunse un’acuta crisi dei combustibili dovuta alla perdita del baci­no del Donez ed alla sospensione dei rifornimenti dei combustibili liquidi da Baku e Grozny, onde si rese necessario che i convogli ferroviari venissero azionati quasi esclusivamente a legna. Nel 1919 tutto il combustibile disponibile per il consumo (extra-domesti­co) era ridotto .a poco piu della metà di quello del 1917 e al 40% di quello disponibile nel 1916. Nel 1913 il bacino del Donez aveva fornito il 75% del ferro ed il 60% della ghisa dell’Impero russo; gli Urali, che nel 1918-19 furono campo di battaglia, avevano fornito un altro 19% di ghisa; circa la metà del rimanente 21 % era stata fornita dalla Polonia. Le potenze straniere avevano virtualmente rea­lizzato il completo blocco del territorio sovietico. Il cotone non affluiva più dal Turkestan o dalla Transcaucasia alle filande […]. Dopo l’avanzata di Denikin il Donez non fornì più alcun quantitativo di carbone. Nella regione centrale, che era rimasta sotto il con­trollo sovietico, il numero degli altiforni in attività scese da 13 nel 1918 a 9 nel 1919 e a non piu di 5 all’inizio del 1920; il numero dei laminatoi da 14 nel 1918 a 7 nel 1920; la produzione del ferro fuso da 3,7 milioni di pùd nel 1918 a 1,3 milioni nel 1919 ed a 0,3 milioni nel 1920. Conseguenza di ciò fu l’arresto del flusso dei rifornimenti di metalli alle officine meccaniche ed alle fabbriche di munizioni. La deficienza dei combustibili e le difficoltà incontrate nelle riparazioni del materiale ferroviario aumentarono considere­volmente la disorganizzazione dei trasporti […] » (M. H. Dobb, Storia dell’economia sovietica, Editori Riuniti, Roma, 1972, pp. 114-15)
2) «Tra il febbraio e l’ottobre 1917, di fatto, l’azione delle masse contadine non riveste quasi la forma sovietica. Dal punto di vista ideologico, le masse contadine restano sotto l’influenza dei S.R. e non pongono il problema del potere. La loro azione è fondamental­mente rivolta alla rivoluzione agraria, concepita in termini di espropriazione e distribuzione dei grandi latifondi dei proprietari fon­diari, dello Stato e del clero. L’azione delle masse contadine del 1917 si pone così in continuità con le azioni contadine del passato: insurrezioni locali ed espropriazione dirette delle terre. Tra il maggio e l’ottobre 1917 questa azione rivoluzionaria i massa acquista un’ampiezza sempre maggiore. Essa sfugge di mano ai S.R. e prepara oggettivamente la Rivoluzione d’Ottobre » (C.Bettelheim, Le lotte di classe in URSS 1917-1923, Etas libri, Milano 1975, p.64).
3) E.H. Carr, La rivoluzione bolscevica 1917-1923, Einaudi, Torino 1964, pp. 444-9.
4) S. N. Prokopovic, Storia economica dell’URSS, Laterza, Bari 1957, pp.100-104 e A.Baykov, Lo sviluppo del sistema econo­mico sovietico, Einaudi, Torino 1952, pp.46-8, 52-3.
5) «E’ chiaro che, se la NEP fu un successo nel 1921, lo sarebbe stata certamente in misura ancora maggiore nel 1918. In altri termi termini, si sarebbe dovuto creare fin dalla primavera del 1918 un’imposta in natura per coprire il grosso del deficit delle regioni con­sumatrici di grano e, contemporaneamente, autorizzare la vendita libera delle eccedenze di grano e degli altri prodotti alimentari. Una simile soluzione avrebbe allentato rapidamente la tensione che andava sempre più accentuandosi tra città e campagne e consolidato l’alleanza con i contadini poveri e anche medi, tagliando l’erba sotto i piedi alla propaganda antisovietica dei socialisti-rivoluzionari e, probabilmente, aprendo la prospettiva di un compromesso tra i bolscevichi da un lato e i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari dal­l’altro” R. Medvedev, La rivoluzione d’ottobre era inevitabile?, Editori Riuniti, Roma 1976, pp.91-2.
6) Pur senza mutare l’impostazione di fondo, la politica ufficiale registrò tuttavia una serie di successive rettifiche. I comitati dei con­tadini poveri, la cui azione si sovrapponeva a quella dei soviet fino a configgere con essi, furono sciolti già alla fine del ’18. Nel ’19 il partito puntò in misura crescente sui contadini medi; anche i gruppi mobili furono più tardi sostituiti da militari della Ceka.
7) I manufatti che il dissestato apparato industriale sovietico riusciva ad inviare alle campagne, inoltre, giungevano in quantità pres­soché irrilevanti e quasi mai – soprattutto – andavano nelle mani di coloro che avevano contribuito agli ammassi. Cfr. Prokopovic, op. cit. , pp. 111-129.
8) V. Lenin, La catastrofe imminente e come lottare contro di essa, in Opere scelte, cit., vol. IV, pp.358-74 ; cfr. anche V. Lenin, I bolscevichi conserveranno il potere statale?, in Opere scelte, cit., vol. IV, pp. 425-27.
9) Il ritmo delle nazionalizzazioni si accrebbe tuttavia quando i Tedeschi occuparono l’Ucraina; nella tarda primavera del ’18 comin­ciarono ad essere nazionalizzati interi complessi produttivi come quelli dello zucchero e del petrolio e, per impedire che i Tedeschi tentassero di prendere il controllo finanziario dell’industria sovietica, a fine giugno furono nazionalizzate le grandi imprese nei prin­cipali rami di industria. Nell’insieme si veda Carr, La rivoluzione, cit. pp. 496-512.
10) Carr, ivi, pp.474-93.
11) Fatto 100 il livello prebellico, la produzione nelle grandi imprese era scesa al 74,8 nel ’17 e al 12,8 nel ’20; nelle piccole imprese, invece, il fenomeno si presentava in forma leggermente attenuata. Questo si rifletté negativamente sul livello della produzione indu­striale, che mostrò una tendenza a diminuire, soprattutto nelle grandi unità maggiormente centralizzate. Ponendo sempre a 100 il li­vello prebellico, la produzione nelle grandi imprese era scesa al 74,8 nel ’17 e al 12,8 nel ’20; nelle piccole imprese, invece, il feno­meno si presentava in forma più attenuata: negli stessi periodi di riferimento i dati della caduta erano del 78,4 e del 44,1. Baykov, op.cit., pp.32-4.
12) A. Nove, Storia economica dell’Unione Sovietica, UTET, Torino 1969, p.93.
13) Nel frattempo, mentre a livello teorico si stavano studiando una varietà di riferimenti per effettuare il calcolo economico in quel­le condizioni, sul piano pratico si erano diffuse le più svariate unità di conto: monete d’oro anteriori, valute estere e – sui mercati lo­cali – prodotti come grano, pane, sale.
14) Inizialmente il rublo červonec fu destinato al rimborso dei crediti concessi dalla Banca di Stato sotto questa forma e nei casi in cui si richiedevano espressamente pagamenti in oro. Nel corso del ‘23 la vecchia moneta deprezzata venne gradualmente sostituita nella circolazione quotidiana e nel ’24 una serie di decreti tecnici completò la riforma. Poiché l’eccesso di emissioni di moneta carta­cea era stato strettamente legato alla necessità di finanziare il bilancio statale, era naturale che la stabilizzazione monetaria dovesse andare in parallelo al risanamento finanziario. Le imposte in natura vennero gradualmente accorpate ed infine convertite in moneta; furono tassati molti prodotti e attività, dapprima private e poi anche statali, finché, contemporaneamente al completamento della ri­forma monetaria, il bilancio fu portato in pareggio. « Ma la caratteristica che più colpiva in tutta la riforma – commenta Carr – era la sua stretta conformità ai canoni occidentali e particolarmente britannici, della finanza ortodossa; nessuno dei paesi che in quel perio­do ricevevano consigli dagli esperti britannici o dalla Lega delle Nazioni circa il miglior modo per mantenere la stabilità monetaria, applicarono con maggiore scrupolo le prescrizioni date in quel momento circa la copertura aurea, l’equilibrio del bilancio, una pru­dente politica creditizia, o giuste relazioni tra la tesoreria e la banca centrale » E.H. Carr La morte di Lenin. L’interregno 1923-1924, Einaudi, Torino 1965, p. 129 (e nello stesso senso Carr, La rivoluzione, cit., p 756). Inizialmente la Banca di Stato avrebbe dovuto essere l’unico istituto di credito, ma dal ’22 esso fu affiancato da vari istituti appositamente concepiti per far fronte ai bisogni dei diversi settori dell’economia.
15) Il massimo divario tra i prezzi industriali e quelli agricoli fu toccato nel settembre del ’23 e raggiunse dimensioni tali da rallentare notevolmente gli scambi fra città e campagna: lo scambio di prodotti industriali con quelli agricoli non risultava più remunerativo per questi ultimi e, mentre le merci prodotte dall’industria si accumulavano invendute, l’afflusso di prodotti agricoli sul mercato tendeva a bloccarsi, evocando in prospettiva lo spettro della riduzione delle semine che già si era verificata negli anni precedenti. Le cause del fenomeno erano molteplici: a sfavore dell’agricoltura indubbiamente aveva giocato in un primo momento la maggiore velocità di ri­presa della produzione agricola rispetto a quella industriale, che aveva reso relativamente più abbondanti i prodotti agricoli; altri ele­menti, invece, spingevano in altro i prezzi industriali: la già ricordata costituzione di cartelli che inibivano la concorrenza e il livello elevato dei costi, dovuto al cattivo stato e alla scarsa utilizzazione degli impianti, alle difficoltà dei trasporti e a quelle di reperire ma­nodopera qualificata e materie prime etc. Alla fine si rese necessaria una energica politica di intervento, che portò lo stato ad agire su entrambe le lame delle forbici, cercando di aumentare i prezzi agricoli e il credito agli organismi di acquisto, mentre una corrispon­dente contrazione del credito e pressioni al ribasso dei prezzi furono esercitate nei riguardi dell’industria. Alla lunga, quest’ultima fu indotta a esercitare un maggior controllo dei costi e a concentrarsi per eliminare le unità inefficienti. Su tutta la congiuntura ’22-’24 si vedano Dobb, op. cit., pp.152-185 e Nove, Storia, cit., pp.90-98 e 102-106.
16) Cfr. p. es. Nove, op. cit. 113-118.
17) «Dal punto di vista dei rapporti di classe e degli effetti della lotta di classe sulla linea politica del partito bolscevico, uno degli aspetti essenziali della riforma monetaria del 1924 è costituito dall’agganciamento effetttivo della nuova moneta all’oro. Tale aggan­ciamento significa che la Gosbank deve intervenire sul mercato per mantenere il corso del rublo alla parità ‘ufficiale rispetto all’ oro e alle divise estere, il che comporta numerose conseguenze. Anzitutto la Gosbank deve tenere riserve sufficienti in oro e valuta stra­niera, per poter agire effettivamente sul mercato. Ciò la obbliga a una politica di esportazioni mirante a mantenere tali riserve a un livello sufficiente e tende a rafforzare le posizioni dei contadini ricchi, ritenuti i più suscettibili di produrre cereali per l’esportazione. Viceversa, gli sforzi di industrializzazione devono essere relativamente ridotti in quanto lo sviluppo industriale non è m grado di for­nire rapidamente prodotti esportabili, ed esige per contro importazioni di attrezzature. Gli interessi dei contadini ricchi tendono così ad essere privilegiati su quelli degli altri contadini, dell’industria e della classe operaia. D’altro canto, sul piano internazionale, l’Unio­ne Sovietica tende in questo momento a rinchiudersi nel suo ruolo di paese fornitore di prodotti agricoli. Il mantenimento del corso del rublo alla parità ufficiale rispetto all’oro e alle divise estere comporta inoltre una politica restrittiva in materia di credito e spese di bilancio. Di conseguenza, la politica finanziaria e quella creditizia non possono essere prioritariamente adattate ai bisogni interni del­l’economia così come sono politicamente definiti dal partito bolscevico. La politica economica, finanziaria e di bilancio è parzialmen­te sottomessa alla pressione del mercato mondiale che si esercita attraverso le ‘esigenze’ del funzionamento del gold standard.» (C. Bettelheim, Le lotte di classe in Urss 1923-1930, Etas Libri, Milano 1978, p.36 ).
Va però notato che il legame così rigido con il sistema monetario aureo non durò a lungo. Allorché gli aumentati crediti per gli inve­stimenti industriali cominciarono a provocare tensioni inflazionistiche, il mantenimento della parità aurea verso l’esterno fu giudicato troppo oneroso e sospeso nel 1926.
18) Cfr. M. Lewin, Storia sociale dello stalinismo, Einaudi, Torino 1988, pp.106-134
19) Carr accettava di stimare la consistenza dei kulaki al 4% delle famiglie contadine in base a dati ufficiali anteriori al divampare del dibattito, ma con un atteggiamento di evidente cautela. (Cfr. E.H. Carr, Il socialismo in un solo paese, vol. 1, Einaudi 1968, pp.224-5.)
20) Nella primavera del ’25, quando Trockij era stato ormai allontanato dalle cariche di governo e l’alleanza imbastita contro di lui stava ormai gradualmente perdendo la propria ragion d’essere, giunsero anzi importanti provvedimenti che favorivano i kulaki, ossia la legalizzazione del lavoro salariato e dell’affitto delle terre; il carico fiscale sui contadini più abbienti fu alleggerito e anche l’appa­rato delle cooperative, le cui funzioni gravitavano intorno alla commercializzazione dei prodotti agricoli e in cui i contadini bene­stanti avevano un peso determinante, fu sostenuto e considerato come una forza sostanzialmente socialista, il cui sviluppo era da con­siderare prioritario rispetto a quello delle forme collettive di produzione. Cfr. Carr, Il socialismo, cit., pp.236-268 .
21) Su questo aspetto concorda tutta la storiografia, dall’elegantemente ortodosso Dobb all’emigrato Prokopovic. (Cfr. DOBB, op.­cit., p.249 e Prokopovic op. cit. , p.141).
22) Bettelheim , Le lotte 1923-1930, cit, pp.61-2..
23) Dobb, op. cit., pp.246-253.
24) Bettelheim, Le lotte 1923-1930, cit,pp.66-75, pp.19-23. Si veda anche la dettagliata ricostruzione di E.H. CARR – R. W. DA­VIES, Le origini della pianificazione sovietica 1926-1929, Einaudi, Torino 1972, vol. 1, pp. 47-101.
25) Si vedano i dati citati alla nota 17.
26) Carr – Davies, op.cit., vol. 1, pp.261-337 e vol. 2, pp. 335-443. La radicalizzazione delle posizioni del Vesenkha cominciò a verificarsi con Kujbyšev, che fu posto a capo di esso nell’agosto del ’26, subito dopo la morte di Dzeržinskij. Scrive molto opportuna­mente Bettelheim: « La ‘dimenticanza’ dei precedenti inviti alla prudenza ha quindi una portata politica. Ha come base immediata la relativa autonomia delle organizzazioni industriali, ed esprime Il potere della forza sociale rappresentata dai dirigenti di queste orga­nizzazioni e delle grandi imprese. Suppone l’adesione progressiva – ma non dichiarata – di una parte dei dirigenti del partito a una politica effettiva che attribuisce un’importanza determinante alla rapida crescita della grande industria produttrice di mezzi di produ­zione, a una politica che prende sempre più la distanze dalle esigenze dell’alleanza operai-contadini e dalle sue implicazioni concer­nenti l’approvvigionamento relativamente prioritario delle campagne e la forma non costrittiva dell’ammasso.
Questa trasformazione della politica effettiva corrisponde anche a un certo mutamento nella formazione ideologica bolscevica, al ruo­lo sempre più ampio svolto dalle concezioni che privilegiano le tecniche industriali più moderne e attribuiscono un ruolo decisivo al­l’accumulazione nello sviluppo della produzione industriale (quando la piccola e media industria rurale racchiude ancora enormi pos­sibilità di aumento della produzione, produzione che potrebbe aiutare notevolmente i contadini ad incrementare i loro raccolti). In de­finitiva prevale a poco a poco nel partito un orientamento favorevole ad investimenti industriali di un’ampiezza e una natura tali da ri­sultare incompatibili con la sopravvivenza della NEP. In questo senso, la « crisi generale della NEP non è nient’altro che il risultato dell’abbandono di fatto, in settori decisivi, della Nuova Politica Economica ». Bettelheim, Le lotte 1923-1930, cit,, p.274.
27) Carr – Davies, op.cit., vol. 1, p. 255.
28) Bettelheim , Le lotte 1923-1930, cit,pp. 264-273, 294-295, 308-343 Una interessante valutazione complessiva di tali scelte e del contesto in cui furono compiute è in LEWIN, op.cit., pp.63-105.
29) « Stalin non temeva solo di perdere la faccia. Il timore era che, come Denikin nel 1919, Pilsudski profittasse delle rivolte, che in­coraggiava per sferrare un attacco. Snyder ha dimostrato come, a partire dal giugno 1929, Varsavia fosse bene informata su quanto avveniva al di là del confine, e non solo attraverso gli agenti che vi inviava insieme a materiale propagandistico. Anche l’emigrazione ucraina riportava infatti che ‘i sentimenti contadini erano completamente antibolscevichi e molto favorevoli al governo della Repub­blica popolare ucraina [UNR, quella già guidata da Petljura], da spingere il Gpu a credere all’esistenza di nostre estese organizzazioni clandestine che, di fatto, non esistono ’. Nel febbraio-marzo 1930 Mosca fu quindi dominata dalla paura di una guerra da combattere in condizioni sfavorevoli, senza l’appoggio della stragrande maggioranza della popolazione e senza adeguata preparazione, anche a causa della repressione che, anticipando quanto sarebbe successo agli ufficiali rossi nel 1937 – 38, si stava abbattendo sugli ex uffi­ciali zaristi ancora in servizio ». A. Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin, Il Mulino, Bologna 2007, p.272.
30) G. Stalin, La vertigine dei successi, in G. STALIN, Opere scelte, Edizioni Movimento Studentesco, Milano 1973, pp.704-732.
31) Sull’insieme del processo si veda p. es. NOVE, op.cit. , pp. 183-215.
32) Baykov, op.cit. , pp252-259.
33) Ivi, .pp. 222-240, 328-358.
34) Sull’involuzione delle istituzioni poltiche sovietiche, oltre alle opere di Carr e di Graziosi citate in testo, si vedano, a titolo pura­mente indicativo, R.V. Daniels, La coscienza della rivoluzione, Sansoni, Firenze, 1970, R. CONQUEST, Il grande terrore, Arnoldo Mondatori, Milano, 1970; R. Medvedev, Lo stalinismo, Arnoldo Mondatori, Milano, 1972; G. Boffa, Storia dell’Unione Sovietica, Arnoldo Mondadori, Milano, 1976; J. Elleinstein, Storia del fenomeno staliniano, Editori Riuniti, Roma, 1975; J. Elleinstein, Storia dell’URSS, Editori Riuniti, Roma, 1976..
35) E. De Marchi, Il capitalismo sovietico. Premesse alla ripresa del dibattito (in corso di pubblicazione).
36) C. Bettelheim, Les luttes de classe en URSS , Maspero/Seuil 1982, vol I p. 15 e cfr. anche pp.13-14.
37) Ivi, II 177, 210-221.
38) Ivi, I, 300-306.
39) Ivi, I, 300-301.
40) Ivi, I, pp 282-3 e p.289. Il riferimento a Marx è a K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1970, III1 pp.307-8. Qui stiamo parlando ovviamente delle crisi degli anni Trenta. Lo stesso Bettelheim, tuttavia, avverte che quelle posteriori presentano una fenomenologia differente. (cfr ivi, II, p.315).
41) Ivi, I, pp295-7.
42) Ivi, I, p.222.
43) P.M. Sweezy, Replica a ‘La specificità del capitalismo sovietico’ in P.M.Sweezy – C. Bettelheim, Il socialismo irrealizzato, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 121-2.
44) G. La Grassa, Gli strateghi del capitale, Manifestolibri, Roma 2005, p.20.
45) Sweezy, op.cit., p.121.
46) Un buon inquadramento dell’URSS all’esordio della “guerra fredda” è in A. Werth, L’unione Sovietica nel dopoguerra.1945-1948, Einaudi, Torino, 1973.
47) Per una panoramica d’insieme del periodo si vedano ad esempio G. Boffa, Storia, cit., vol. II e A.Graziosi, L’URSS dal trion­fo al degrado, Il Mulino, Bologna, 2011, parti I-IV.
48) Cfr. R. Conquest, Stalin, A. Mondadori, Milano, 2002, pp. 451-87 e A. Ulam, Stalin, Garzanti, Milano, 1975, pp.769-812.
49) Oltre che i lavori di Boffa e Graziosi sopra citati, per una buona analisi dell’avvicendamento al vertice si veda A. Levi, Il pote­re in Russia. Da Stalin a Brezhnev, Il Mulino, Bologna, 1967, pp.67-105.
50) Malenkov, già indebolito dal coinvolgimento assieme a Berija nell’ “affare di Leningrado”, cadde ufficialmente su questioni di direzione economica (e in particolare sul suo programma di ridimensionare il ruolo dell’industria pesante) e Molotov invece sulla po­litica estera di riconciliazione con la Jugoslavia a cui egli si opponeva.
51) La denuncia – per quanto reticente – dei crimini staliniani fu l’aspetto più sconvolgente del XX Congresso, ma l’assise fu im­portante anche per l’orientamento della politica estera sovietica. La linea enunciata ufficialmente, infatti, presentava una serie di in­novazioni molto rilevanti. In primo luogo veniva meno l’idea, sostenuta nell’età staliniana, che il capitalismo fosse prossimo a un collasso economico di portata mondiale; la guerra atomica non veniva più considerata un evento inevitabile, ma si auspicavano anzi trattative diplomatiche per scongiurare un rischio per tutta l’umanità; si riconosceva infine la specificità della situazione sovietica e si ammetteva che nei paesi capitalistici avanzati il socialismo potesse prender forma anche utilizzando le vie della democrazia parla­mentare, senza una rivoluzione violenta. All’estero le rivelazioni su Stalin minarono il prestigio sovietico e facilitarono la rivolta nei paesi del blocco orientale (Polonia, Ungheria). La destalinizzazione, unita alle altre svolte politiche del XX Congresso porrà poi le premesse per un altro importante conflitto nel mondo comunista, ossia quello tra Cina e Unione Sovietica.
52) Nove, Storia, cit., pp. 341-84. Secondo J. Sapir, negli anni del dopoguerra fino alla morte di Stalin si verificò in URSS quello che egli considera un ciclo economico tipico dell’economia sovietica. Secondo questo modello, lo sforzo volontaristico di aumentare gli investimenti provoca una sottrazione di risorse all’industria leggera e all’agricoltura a vantaggio dell’industria pesante. Il boom di investimenti porta le imprese ad entrare in concorrenza tra loro e ad accrescere perciò l’accaparramento di risorse; nel frattempo au­menta la domanda di lavoro e quindi i salari monetari, generando un differenziale di remunerazione con le aree agricole che provoca l’esodo di manodopera da esse. Si apre perciò una fase nella quale si crea uno scarto tra l’aumentato potere d’acquisto nominale e la produzione insufficiente di beni di consumo, fenomeno che riduce gli incentivi per i lavoratori e si riflette negativamente sulla pro­duttività. A questo punto diviene necessario ridimensionare gli investimenti nell’industria pesante, riallocandoli parzialmente verso i beni di consumo e ripristinando l’equilibrio. Secondo Sapir, nel periodo che stiamo considerando si verificò appunto una congestione di investimenti e di spese per armamenti, che andò parallela alla crisi agricola e all’esodo dalle campagne di cui abbiamo detto più so­pra; un picco di investimenti sarebbe individuabile fra il ’50 e il ’51, con riflessi negativi manifestatisi nel ’52-’53. (J.Sapir, Les fluc­tuations économiques en URSS, Éditions del l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris, 1989, pp.34-35, 63-88)
53) R. e Ž. Medvedev, Cruščev. Gli anni del potere, A. Mondadori, Milano, 1977, pp. 29-30. Sui limiti dell’agricoltura sovietica di allora si veda anche il classico R. Dumont, Problemi agrari del comunismo, Il Saggiatore, Milano, 1966, pp.51-72.
54) Già allora era tuttavia opinione corrente dei commentatori occidentali che questa crescita fosse dovuta allo sfruttamento di fattori favorevoli di natura temporanea : « Questo forte sviluppo produttivo […] si spiega tenendo presente l’elevata percentuale degli investimenti produttivi, rispetto alle risorse disponibili […]; all’esistenza di cospicue riserve di di manodopera nella sottoccupazione agricola; ai “vantaggi dell’arretratezza tecnica” in molti settori dell’industria; infine alla sovrabbondanza delle risorse nazionali di ma­terie prime e di terreno coltivabile. Gli stessi progressi compiuti dovevano gradualmente ridurre questi vantaggi, e rendere più costosi i successivi avanzamenti ». (Levi, op. cit., p.156).
55) L’insieme di queste disfunzioni dava luogo a una fenomenologia tipica dell’economia sovietica e di quelle dei paesi socialisti descritta più volte nella letteratura. La formulazione degli obiettivi del piano avveniva attraverso un’interazione tra ministeri e impre­se, nella quale queste tendevano a sottostimare la propria capacità produttiva e a sovrastimare le risorse necessarie, generando così un flusso d’informazioni distorto. A loro volta i ministeri, il cui interesse verso le proprie imprese era quello di far emergere le disponibi­lità nascoste, nei confronti degli altri ministeri spingevano invece per ottenere un allargamento delle assegnazioni. Da questa dinami­ca, in base alla quale i singoli centri cercavano di gonfiare i propri progetti di investimento, derivava la tendenza alla sovraccumu­lazione.
Il complesso degli sforzi compiuti singolarmente dai vari settori per aumentare i mezzi a propria disposizione generava una pressione costante sulle risorse, che tendevano a diventare insufficienti e a determinare una condizione cronica di scarsità nell’approvvigiona­mento di beni capitali e di consumo. Le imprese dovevano adattarsi in vari modi, modificando qualità e quantità dei prodotti, nonché i metodi di lavoro. L’incertezza nella disponibilità di input materiali e servizi ausiliari provocava sensibili irregolarità nel ritmo di produzione e di lavoro, in cui si alternano momenti di eccessiva rilassatezza e altri di sforzo parossistico. La conseguenza di tutto ciò era un ritardo strutturale della produttività. In generale si veda B. Chavance, Le système économique soviétique de Brejnev a Gorbat­chev, Éditions Nathan, Paris, 1989.
56) La costruzione del comunismo. Programma e statuto del PCUS, Editori Riuniti, Roma 1962, pp.64-85.
57) Per il complesso delle vicende agricole abbiamo seguito Medvedev, op. cit., pp.59-69, 93-124.
58) « La pianificazione industriale subì meno danni per gli interventi di Chruščëv. “Purtroppo crede di sapere molto sull’agricol­tura” brontolava un esperto sovietico [..]. Chruščëv non aveva pretese di questo genere riguardo alle acciaierie, alle industrie pesanti e alle industrie tessili. Ma riuscì ugualmente a creare lo scompiglio in due campi diversi ». (A. Nove, Stalin e il dopo Stalin in Rus­sia, Il Mulino, Bologna, 1976, p.222).
59) Lo sfondo politico del varo della riforma è sottolineato da Nove (Storia, cit., pp. 410-1).
60) Cfr. Levi, op. cit., pp. 180-1.
61) M. Lavigne, Le economie socialiste europee, Editori Riuniti, Roma, 1974, pp. 69-72. L’analisi del ciclo compiuta da Sapir evidenzia, per l’età cruščeviana, due periodi: ’53-’58 e ’59-’65. Nel primo le riforme introdotte modificano la dinamica del ciclo vista più sopra alla nota 52, durante la quale torna a riaffermarsi il modello di regolazione volontaristico (Sapir, Les fluctuations, cit., p. 127, ma in generale 122-40).
62) Questa ricostruzione è stata avanzata da M. Tatu, La lotta per il potere in Urss (1960-1966), Rizzoli, Milano, 1969, pp.276-83 e 441-74. In una direzione analoga si muovono le considerazioni di Roy e Žores Medvedev, op. cit., p.186.
63) A.Graziosi, L’URSS dal trionfo, cit., p.307.
64) « L’attuale leadership presenta un […] criterio di modernizzazione […] completamente conservatore nella misura in cui cerca di combinare un maggior progresso e benessere materiale con la conservazione delle relazioni politiche e sociali generali esistenti e la struttura organizzativa su cui si basa la produzione materiale. È una mentalità che divide in compartimenti il processo di moderniz­zazione e cerca di isolare ognuno di questi da tutti gli altri » (S. Bialer, I successori di Stalin, Garzanti, Milano, 1985, p.129).
65) Chavance, op. cit. pp. 63-67.
66) Lavigne, Le economie, cit., pp. 95-134.
67) Ivi, pp. 190-5.
68) Chavance, op. cit, cit., pp. 91-5.
69) Ivi, pp.141-9.
70) Sapir, Les fluctuations, cit., pp.182-220.

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