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Lenin e l'ombra lunga del militarismo

Unione Sovietica, partito bolscevico, Gramsci in alcuni recenti contributi storiografici

di Tommaso Baris

In seguito all’incontro seminariale di martedì 1 marzo tenuto presso il circolo Rosa Luxemburg, pubblichiamo una riflessione sulla storia dell’Unione Sovietica scritta da Tommaso Baris, docente di storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Palermo

Revolución marzo rusia russianbolshevik00rossuoftLa storiografia italiana si è arricchita recentemente di alcuni importanti contributi sulla storia dell’Unione Sovietica, permettendoci di rendere estremamente più articolata l’immagine dell’Urss costruita nel nostro paese. In particolare punto di partenza di questa riflessione sono i lavori di Silvio Pons e di Andrea Graziosi, che hanno condensato in due importanti volumi sul movimento comunista internazionale e sulla storia dell’Urss un pluriennale lavoro di ricerca[1].

Tra le tante questioni segnalate dai due volumi vale la pena soffermarsi su quella che mi pare cruciale: la forte correlazione esistente tra Grande Guerra e forma politica assunta dal partito bolscevico nel corso della sua presa del potere. Pons insiste molto su questo aspetto cruciale, sul fatto cioè che il bolscevismo, dinanzi al massacro della Prima guerra mondiale, abbia adottato un modello organizzativo strettamente militare, introiettando fortemente nella sua cultura politica le categorie e le forme organizzative tipiche di un moderno esercito di massa in vista del suo diventare il “partito della guerra civile”. L’idea di Pons è che questo tratto burocratico-militare costituisca l’essenza dell’approccio alla politica del bolscevismo e che caratterizzi quindi le scelte politiche non solo nel corso della guerra civile russa scoppiata dopo la presa del Palazzo d’Inverno a Pietroburgo, ma che continui ad operare anche dopo la stabilizzazione dello Stato sovietico, tanto nelle sue relazioni interne che in quelle esterne. Il modello burocratico-militare, quindi, come tratto specifico e costitutivo del bolscevismo russo, assunto nel corso della sua trasformazione in partito di massa al momento del ritorno sulla scena politica russa a partire dal crollo del regime zarista[2]. Graziosi sottolinea invece, accanto a questo primo elemento della militarizzazione del bolscevismo, la centralità nella riflessione politica di Lenin di alcune grandi questioni, su tutte quella delle nazionalità e quella della terra, e quindi del rapporto con il mondo contadino, questioni sostanzialmente estranee alla tradizione teorica del marxismo della II^ Internazionale, caratterizzato da una impronta nettamente deterministica e meccanicistica, tanto nella sua tradizione riformista che rivoluzionaria. Graziosi insiste molto su questo aspetto, considerandolo decisivo per gli esiti immediati del tentativo rivoluzionario di Lenin ma anche per le implicazioni di lunghissimo periodo che porrà al leader comunista dopo la vittoria[3].

È indubbio comunque, anche nella lettura di Graziosi, che sia stato l’approccio non “ideologico” al tema della terra (a lungo sottolineato dalla storiografia) e delle nazionalità non russe (aspetto meno noto ai non specialisti) a dare forza e concretezza al rivoluzionario progetto di presa del potere del leader bolscevico, operando la rottura in un paese sì imperiale e multietnico (dove la popolazione russa era meno della metà del totale) ma arretrato ed agricolo e quindi contro tutta la prevalente interpretazione dell’insegnamento di Marx ed Engels.

Al centro del successo bolscevico, schematizzando molto, Graziosi pone dunque la dimensione eterodossa del marxismo di Lenin, che leggeva la conquista coloniale da parte del mondo occidentale come elemento di unificazione mondiale capitalistica ed anche fase di acutizzazione delle sue contraddizioni interne. Nella lettura del leader russo la fase imperialistica portava a compimento lo sviluppo borghese ma al contempo comportava la fine della funzione “progressiva” svolta dalla borghesia dopo la creazione di un mercato tendenzialmente mondiale ma contraddistinto oramai da inevitabili conflitti tra i maggiori stati capitalistici. È questa interpretazione complessiva del punto di sviluppo capitalistico, connesso, nell’ottica di Lenin, allo scoppio della Grande Guerra a rendere, a livello globale, nella sua visione, ormai matura ed improcrastinabile la costruzione di un potere proletario, il cui inizio in un paese arretrato è letto come anticipazione di una tendenza destinata comunque a diventare generale. La ricercata rottura rivoluzionaria, come è noto, era giustificata dunque dalla convinzione che tanto la guerra ed ancor più la presa del potere da parte “socialista” avrebbero aperto una fase rivoluzionaria generalizzata anche in Occidente, dove alla fine si sarebbe giocata la partita decisiva, non potendo un sistema “socialista”, in questa fase della riflessione leninista, essere realizzato su base nazionale in un quadro di unificazione del sistema economico mondiale, tanto più con una borghesia capitalistica giunta ad esaurimento della sua funzione “progressiva”.

È in tale quadro di riferimento generale che la dimensione rivoluzionaria in Lenin si libera di ogni idea meccanicistica e deterministica, che legava la costruzione del socialismo in modo automatico alla crescita dello sviluppo industriale e capitalistico moderno, e torna invece a dispiegarsi sul piano della politica, recuperando al contrario una forte dimensione soggettiva e volontaristica. È quindi sul terreno della strategia politica che il partito, per Lenin, deve scendere in campo, operando la rottura rivoluzionaria a partire dall’analisi delle contraddizioni sociali del reale, intervenendo in esse e volgendole ai propri fini.

L’affermazione del partito bolscevico, nel vuoto di potere creato dal crollo dell’impero zarista, ha come presupposto questi due diversi aspetti: da un lato la capacità di Lenin di costruire un partito fortemente militarizzato e disciplinato, capace peraltro di intercettare, come ricordano i due storici, l’inedita mobilitazione di milioni di persone, specie di estrazione popolare e di poca (o nulla) formazione culturale (data l’assenza di un sistema scolastico di massa), già messa in moto dai meccanismi della guerra mondiale, e dall’altro la grande capacità “strategica” e “tattica” del suo dirigente principale. Quest’ultimo, assai isolato e spesso costretto ad imporsi al resto del gruppo dirigente del suo stesso partito mettendo in campo tutto il suo prestigio e la sua autorità, si dimostrò assai abile, per arrivare alla rivoluzione, nell’utilizzare le due principali questioni “politiche” che stavano sconquassando l’impero russo, appunto quella nazionale e quella contadina, verso le quali la tradizione socialista era stata tiepida se non apertamente critica. Così facendo aveva sostanzialmente spiazzato i menscevichi e sottratto terreno ai socialisti rivoluzionari, il gruppo egemone nelle campagne russe, ma dilaniato da contrasti interni tra l’ala moderata e quella rivoluzionaria e complessivamente incapace di offrire una risposta complessiva alla questione della terra.

Le intuizioni di Lenin permisero quindi ai bolscevichi, meglio e più di tutti gli altri gruppi politici, di connettersi e sintonizzarsi con l’ansia di rigenerazione messianica ed utopica che attraversava la società russa dove si diffondeva, tra il febbraio e l’ottobre del 1917, l’aspettativa di una nuova era più giusta ed egualitaria, estesasi rapidamente in ampi e diversi settori del sistema ex imperiale. Il mondo contadino, la classe operaia delle grandi città numericamente rafforzata dalla produzione bellica ma esasperata dai ritmi di lavoro imposti, i soldati-contadini al fronte o in attesa di andarvi nelle guarnigioni dei centri urbani, furono attraversati da questa ansia palingenetica, giustamente ricordata come l’humus, il terreno fertile per l’attecchimento del messaggio rivoluzionario, come sottolineato in un bel libro di Marcello Flores dedicato qualche anno fa all’Ottobre. La relativa facilità della presa del potere, pensata (e giustificata) quindi ancora come premessa dello scoppio rivoluzionario in Occidente considerato inevitabile, spingeva però i bolscevichi ad accentuare la dimensione burocratica-militare come strumento politico, finendo per gestire il rapporto con la società con metodi sempre e più marcatamente coercitivi e repressivi mutuati direttamente dall’esperienza bellica[4].

Il bolscevismo avrebbe quindi impregnato la sua relazione con la nascente società “sovietica” di caratteristiche “militari” mutuate dal recente conflitto, introiettando e praticando quel processo di “brutalizzazione della politica”, per dirla con George L. Mosse, che avrebbe caratterizzato l’Europa alla fine della prima guerra[5]. Esasperando in termini assoluti la legittimazione teorica pure presente nella tradizione marxista, il bolscevismo tendeva quindi a fare della violenza lo strumento principale se non esclusivo della risoluzione del conflitto sociale acceso dallo scontro rivoluzionario, estendendo via via la sua pratica non solo contro i nemici dichiarati ma anche contro quanti si mostravano incerti ed indecisi, tendendo a risolvere su un piano esclusivamente “bellico” ogni forma di resistenza, comprese quelle che avevano un carattere e una natura sociale di cui si sarebbe dovuto tener conto con strumenti evidentemente diversi. Proprio insistendo su questo aspetto cruciale, senza negare il peso degli interventi dei paesi stranieri e della reazione zarista o comunque russo-imperiale, gli studi più recenti hanno sottolineato la centralità delle cause interne dell’amplificarsi ed aggravarsi della guerra civile nell’ex impero zarista, alimentata in gran parte dall’opposizione sempre più decisa alle pratiche “militari” di espropriazione dei beni alimentari da parte di quelle campagne che pure avevano sostenuto il processo rivoluzionario, interpretando questa opposizione soprattutto in termini di autogoverno del mondo contadino. Fu, come è stato dimostrato, il progressivo mobilitarsi dell’universo rurale contro il “comunismo di guerra” e i prelievi forzosi delle risorse agricole ed alimentari in favore delle città ad aprire lo spazio alla guerra civile interna, a cui i bolscevichi risposero accentuando il modello repressivo, che finì per esercitarsi anche sulla classe operaia urbana, nel cui nome pure si stava facendo la rivoluzione (si pensi alla proposta di militarizzazione dei sindacati da parte di Trotsky). La pressione bolscevica risultava quindi duplice: da un lato sulle campagne per rifornire le città, dall’altro sui ceti urbani irreggimentati ed inquadrati nell’“Armata Rossa” o comunque chiamati ad un gigantesco sforzo di sostegno ai combattenti in armi.

Ne derivò l’ulteriore accentuazione dei tratti “militari” e “burocratici” della militanza politica bolscevica che coincise sempre più con la funzione di combattimento nelle fila dell’“Armata Rossa”, in un quadro di complessiva perdita di freni inibitori determinata anche dalla evidente natura “totale” dello scontro: vincere o morire, sterminare o essere sterminati. Prolungando le caratteristiche di estrema violenza della guerra combattuta sul fronte orientale contro tedeschi e austriaci, i bolscevichi interiorizzano la dimensione della guerra civile come conflitto assoluto: ce lo confermano le memorie di figure come il colto economista Georgij Pjatakov, impegnato nella fucilazione di migliaia di oppositori in Ucraina e nel Donbass, che ritroveremo dopo la militanza nell’opposizione di sinistra tra i grandi costruttori dell’industria sovietica nel periodo dei piani quinquennali prima di finire anche lui travolto dalla repressione staliniana[6]. Di questo clima è sicuramente testimonianza significativa l’estrema rivendicazione (intellettuale e pratica) del terrore fatta dallo stesso Trockij nel 1920, che nel vivo dello scontro scriveva rispondendo a Kautsky:

La rivoluzione richiede alla classe rivoluzionaria che essa raggiunga il proprio fine con tutti i mezzi a disposizione, e se necessario con una insurrezione armata; se occorre con il terrorismo. (…) in un periodo rivoluzionario, il partito che è stato spodestato (…) non può essere terrorizzato con minacce di incarcerazione perché esso non crede nella durata del nuovo potere. È proprio questo fatto semplice ma decisivo che spiega il frequente ricorso all’esecuzione nel corso di una guerra civile. (…) L’intimidazione è un potente strumento della politica, sia interna che esterna. La guerra, come la rivoluzione, si fonda sull’intimidazione[7].

Rivoluzione e guerra (civile) finivano così con il confondersi, con la prima che perdeva la sua dimensione sociale in favore di quella meramente militare, confondendosi con la seconda, ed assumendone i tratti “sterminatori” già sperimentati con la Grande Guerra. I bolscevichi fecero proprio questo atteggiamento mentale, che accomunò la gran parte del gruppo dirigente del partito comunista, accentuando la tendenza alla creazione di leadership carismatico-bonapartiste (nel senso di legate alla guida militare). Come hanno dimostrato gli studi più recenti, infatti, il culto di Stalin come guida d’acciaio, sicura e senza incertezza, si forma già nel periodo della guerra civile, in occasione della sua stretta collaborazione con Lenin nella repressione anticontadina e non appare, già allora, meno solido ed esteso di quello che altri gruppi, tra cui gli “specialisti” militari recuperati nell’“Armata rossa”, riservavano invece a Trotskij, sicuramente il maggior organizzatore dello sforzo militare nel corso della guerra civile. Va da sé che un simile approccio generasse delle contraddizioni destinate ad emergere: come ha ricordato il rivoluzionario Victor Serge, combattente bolscevico dell’Armata Rossa poi oppositore dello stalinismo, in un articolo sulla rivolta della base navale di Kronstadt, a lungo cuore della forza dei bolscevichi a Pietroburgo, i marinai insorti, e repressi nel corso di “un terribile massacro”, certo non erano controrivoluzionari, ma aggiungeva pure che inevitabilmente la eventuale loro vittoria in nome dei “Soviet senza i comunisti” avrebbe aperto la via alla controrivoluzione travolgendo il potere bolscevico[8].

Lo schiacciamento sul modello militare poneva quindi la leadership bolscevica di fronte ad una serie di problemi politici destinati a riproporsi. È dentro questo quadro che opportunamente Graziosi colloca il cambio di rotta maturato da Lenin, in sostanziale solitudine. Lo studioso sottolinea infatti che, prima ancora della appena citata rivolta nel 1921 della base navale, espressione massima dell’opposizione alla dittatura assunta ormai dal partito comunista recidendo via via il legame con le stesse basi sociali che l’avevano sostenuto nella presa del potere, siano state già le repressioni condotte nel corso del 1919 e del 1920 delle sollevazioni contadine (su tutte Tambov) a spingere Lenin ad un ripensamento complessivo della sua strategia politica, aprendo la strada a quella che sarebbe diventata la Nep[9]. Il nuovo orientamento politico di Lenin non significava ovviamente il rinnegamento dei metodi spietati di lotta contro i nemici interni e le sacche di resistenza al potere sovietico adoperati nel corso della guerra civile, con pratiche di fucilazioni di massa ed imprigionamenti di quanti venivano, a torto o ragione, considerati nemici di classe, quanto la consapevolezza, una volta raggiunta la vittoria militare, che quella “politica” andasse in qualche maniera costruita su basi diverse se si voleva rendere il regime stabile e non recidere del tutto ed in maniera irreversibile le basi sociali da cui pure la rivoluzione era partita.

L’insistenza sulla ridefinizione dell’alleanza operai-contadini da parte di Lenin non nasceva da analisi meramente astratte: i bolscevichi, come ricorda lo stesso Graziosi con una attenta analisi della realtà sociale dei primi anni Venti, avevano realmente messo in movimento forze sociali attivatesi febbrilmente (e terribilmente per molti versi) uscendo da una passività secolare, come ci ricordano le interessanti pagine sullo sviluppo di massa del Pcus. Attraverso il partito e grazie al suo ruolo mobilitante, milioni di persone, operai ma anche contadini, erano state immesse sulla scena pubblica creando indubbiamente una nuova forma di politica di massa (e in questo senso etimologicamente più democratica, specie se confrontata con la dimensione elitaria del liberalismo ottocentesco), che però si realizzava mediante il loro inquadramento in una struttura fortemente verticistica, tendente a ridurre la dimensione della politica in quella militare e burocratica-organizzativa del comando con le ovvie conseguenze del caso, peraltro su individui che, proprio per le generali condizioni di arretratezza della Russia zarista, avevano scarsissimi livelli di alfabetizzazione e più in generale culturali.

Sembrava dunque delinearsi in questa fase una sorta di reale ascesa di singoli individui di estrazione popolare ai vertici del partito, in un quadro in cui la radicalizzazione in senso militare della loro azione politica si traduceva però in una pesantissima pressione sui gruppi sociali di provenienza, gettando le basi di una profonda spaccatura tra l’ampia base di funzionari del partito comunista e le masse popolari del paese, da cui pure spesso quei funzionari e burocrati provenivano. Accanto alla Nep, va peraltro ricordato il tentativo di Lenin di ripensare le modalità con cui si era formato il movimento comunista internazionale. Nati da scissioni a sinistra in nome della rivoluzione sovietica, i partiti comunisti riuniti nella Terza Internazionale si erano sostanzialmente caratterizzati sia per il loro dogmatismo ideologico che per la chiusura settaria nei confronti dei movimenti delle strutture di massa tradizionali del movimento operaio, da cui si erano di fatto separati. Ne era derivata una sostanziale incapacità di incidere sui processi reali, con piccoli partiti di ristrette minoranze pedissequamente schiacciati sulla riproposizione dello schema rivoluzionario sovietico ma in realtà privi di un reale collegamento con le masse operaie e contadine, tanto più in difficoltà quindi quanto estremamente più complicata e complessa si presentava la situazione del contesto occidentale in prospettiva dell’auspicato, e ricercato a parole, sbocco rivoluzionario.

Anche in campo internazionale Lenin, dunque, imponendosi nuovamente contro il resto del gruppo dirigente comunista, aveva indicato nella tattica del fronte unico, da realizzare con le organizzazioni sindacali e politiche del movimento operaio, lo strumento indispensabile per acquisire un reale rapporto politico con le masse popolari, senza il quale era ovviamente impossibile svolgere qualsiasi funzione direttiva e poi rivoluzionaria[10]. Si trattava quindi, anche in questo caso, sia pure su un piano profondamente diverso, di recuperare spazio e possibilità di azione politica al movimento comunista occidentale, altrimenti chiuso nella mera azione di propaganda e di riaffermazione di purezza ideologica del tutto prive di sbocchi concreti. Significativamente in questo passaggio, nelle sue riflessioni in carcere, Gramsci avrebbe individuato, in questa indicazione di Lenin, la sua intuizione del tema, sia pure solo abbozzato e non pienamente sviluppato anche per via dell’avanzare della malattia, della transizione dalla guerra manovrata, caratterizzata dall’attacco frontale al nemico di classe, alla guerra di posizione che si conduceva invece per manovre interne. Si apriva così la riflessione gramsciana sul senso da dare alla questione dell’egemonia: senza questa consapevolezza di cambio di paradigma, e quindi della necessaria acquisizione teorica che ne conseguiva, sarebbe stato impossibile per il movimento comunista prendere il potere in un contesto assai diverso da quello sovietico come era l’Occidente capitalistico industriale ed avanzato. Potremmo dire, quindi, che tanto la Nep quanto la linea del fronte unico in politica internazionale appaiono l’estremo tentativo di Lenin, in realtà alquanto isolato, di uscire dalla duplice impasse in cui il processo rivoluzionario partito dall’Ottobre aveva finito per incagliarsi: la frattura con il mondo contadino (e con le nazionalità) dell’ex impero russo, la posizione nettamente minoritaria nel movimento operaio occidentale dopo l’iniziale carico di speranze e simpatie suscitate dalla notizia della rivoluzione bolscevica. I due fenomeni richiamavano entrambi la necessità di uscire, in maniera diversa, da un modello basato sulla forza e sulla coercizione, e di ripensare il partito come elemento agente di tale pressione sulla società. Si poneva cioè ora il problema di una conquista politica del consenso delle masse attraverso non più l’uso della forza ma, al contrario, per mezzo di una capacità di rappresentanza e mediazione sociale da parte del partito bolscevico al potere o in lotta per esso, il quale era quindi chiamato, in questa fase di transizione, a farsi carico dei differenti interessi sociali che caratterizzavano sia la società capitalistica che quella sovietica: soppresso il pluralismo politico non per questo spariva il pluralismo sociale la cui articolazione, nell’ottica ormai sviluppata da Lenin scegliendo la Nep, andava accettata e riconosciuta, se non altro per poterla poi riorientare e guidare, tenendo insieme, quindi, le concessioni economiche al mondo contadino con la guida politica riservata al proletariato sovietico, identificato con il partito comunista.

La scelta della Nep e il ribadimento dell’alleanza contadini-operai, e il tema conseguente dell’egemonia nella relazione tra questi due soggetti sociali, si collocavano dunque per Lenin dentro la necessità di ridiscutere il rapporto coercitivo realizzato tra partito e società sovietica nel corso della guerra civile, abbandonando al contempo l’idea di una mera applicazione dello schema russo al movimento comunista internazionale. L’aspetto nuovo, segnalato in particolare dal volume di Graziosi, è dato dalla sottolineatura della sostanziale solitudine della posizione di Lenin in questo cruciale passaggio all’interno della sua stessa cerchia di collaboratori, i quali, forse con la sola eccezione di Bucharin, condividevano di fatto l’idea che proprio la vittoriosa conclusione della guerra civile con i metodi sopra ricordati e la relazione “militare” costruita con la società permettessero invece l’accelerazione in senso industriale ed industrialista. Grazie alle nuove ricerche la Nep appare una parentesi ancor più limitata e parziale di quanto si ritenesse in precedenza, sostanzialmente non condivisa e tirata nella direzione opposta non solo dai suoi critici aperti come Trotskij ma anche in realtà da Stalin e dai suoi sostenitori, pronti a servirsi di Bucharin nello scontro per il controllo del partito contro gli avversari, ma del tutto convinti che il “socialismo” possibile coincidesse non solo con il necessario balzo industriale ma con la complessiva fortissima pressione coercitiva da imporre forzatamente ad una società riluttante ed intimamente contraria.

L’assunzione profonda di questo paradigma “burocratico-amministrativo” non sfuggiva a chi, all’interno del campo comunista, sviluppando le riflessioni di Lenin (ma anche superandole), tentava di ripensare il tema dell’egemonia, con tutte le sue implicazioni, giudicandolo decisivo[11]: significativamente fu proprio Gramsci a stigmatizzare la risoluzione con provvedimenti amministrativi e disciplinari dei dissidi politici all’interno del partito, come fece nella nota lettera inviata al comitato centrale del Pcus a nome del Pcd’i, di cui era diventato qualche anno prima segretario. Consapevole che la spinta propulsiva data dalla presa del potere in sé da parte dei bolscevichi aveva esaurito il suo effetto sulle masse popolari mondiali, il rivoluzionario sardo, in una seconda lettera privata a Togliatti, che aveva ottenuto di non inoltrare ufficialmente il primo testo ai sovietici, poneva quindi la questione delle caratteristiche del processo di costruzione del socialismo in Unione Sovietica, la cui “qualità” sarebbe divenuta sempre più un fattore determinante per il successo del movimento comunista internazionale. Proprio per questo, a suo avviso, la dimensione nazionale sovietica e quella internazionale del movimento politico a livello mondiale andavano pensate insieme, e non risolte in termini meramente “russi”; al contempo il partito comunista sovietico non poteva pensare di continuare a risolvere in misura coercitiva e militare gli enormi problemi politici, interni ed esteri, che l’esistenza di una Urss, isolata dopo la sconfitta del ciclo rivoluzionario nell’Europa, poneva[12]. Mentre il gruppo dirigente stalinista, uscito vittorioso dallo scontro con l’opposizione di sinistra, identificava sempre più (posizione condivisa da Togliatti) la realizzazione del socialismo con la costruzione di una possente sistema statuale di tipo moderno, (subordinando a questo obiettivo qualsiasi esigenza di autogoverno del mondo del lavoro e della produzione), Gramsci segnalava l’acuirsi per questa via della contraddizione tra le esigenze internazionali del movimento comunista e quelle dello Stato sovietico[13]. La politica di quest’ultimo infatti, sia verso l’interno che verso l’esterno, mostrava di non comprendere la nuova fase della guerra di posizione e quindi di non ragionare sulle conseguenze globali che tale passaggio comportava, mettendo di fatto l’Urss e il movimento comunista internazionale in una condizione di subalternità che rischiava di condannare quell’esperienza ad una storica sconfitta portando, alla lunga, alla prevalenza di un modello militare-bonapartista, come sarebbe poi in effetti avvenuto.

Come si vede il nodo individuato da Gramsci era quello cruciale e riguardava il rapporto tra il Pcus e la società sovietica nel suo complesso, nel quadro di una complessiva proposta di riarticolazione della teoria e quindi della strategia del movimento comunista a livello mondiale.


Note
[1] S. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale, Einaudi, Torino, 2012. A. Graziosi, L’Unione Sovietica 1914-2011, Il Mulino, Bologna, 2011.

[2] S. Pons, La rivoluzione globale cit. p. 20.

[3] A. Graziosi, L’Unione Sovietica cit. pp. 42-43.

[4] M. Flores, 1917. La rivoluzione, Einaudi, Torino, 2007.

[5] G. L. Mosse, Le guerre mondiali dalla tragedia al mito dei caduti,  Roma, Laterza, 2005.

[6] Cfr. A. Graziosi, Stato e industria in Unione Sovietica (1917-1953), Napoli, Esi, 1993.

[7] L. Trotckij, Terrorismo e comunismo, Milano, Mimesis, 2011 (1920), p. 123.

[8] Citato in E. Traverso, A ferro e fuoco. La guerra civile europea, Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 203-204. Sulla rivolta: J.J. Marie, Kronsdtadt 1921. Il soviet dei marinai contro il governo sovietico, Utet, Torino, 2007.

[9] A. Graziosi, L’Unione Sovietica cit., p. 59.    
[10] Cfr. C. Natoli, La Terza Internazionale e il fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1982.
[11] A. Di Biagio, Egemonia leninista, egemonia gramsciana, in Gramsci nel suo tempo, a cura di F. Giasi, I volume, Roma, Carocci, 2008, pp. 379-402.
[12] Su questo punto cruciale: Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, a cura di C. Daniele, con un saggio introduttivo di G. Vacca, Einaudi, Torino, 1999.
[13] Per questo aspetto: G. Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci (1926-1937), Torino, Einaudi, 2012, pp. 119-169. Per un quadro delle interpretazioni del concetto di egemonia in Gramsci anche: G. Liguori, L’egemonia e i suoi interpreti, in Id., Sentieri gramsciani, Carocci, Roma, 2006, pp. 140-152.
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