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moneta e credito

Keynes, Hobson, Marx

Robert Skidelsky*

1.

Vorrei attirare l’attenzione su due tradizioni non keynesiane che possono gettare luce sulla crisi in corso: quelle che enfatizzano la disuguaglianza dei redditi e quelle che enfatizzano i rapporti di potere. Ovvero, Hobson e Marx.

Per Keynes erano fondamentali i concetti di incertezza e di equilibrio di sotto-occupazione. Da Hobson ricaviamo una comprensione di come la disuguaglianza dei redditi e della ricchezza possa rendere le crisi più probabili e la ripresa più difficile. Da Marx, una spiegazione del perché la disuguaglianza della ricchezza e dei redditi è inerente a un’economia capitalistica non regolata. Dobbiamo mettere insieme le tre spiegazioni per raggiungere una comprensione piena degli eventi nei quali ci troviamo a vivere.

Keynes inizia l’ultimo capitolo della sua Teoria Generale nel modo seguente: “i fallimenti più gravi della società economica in cui viviamo sono la sua incapacità di creare piena occupazione e la distribuzione dei redditi e della ricchezza arbitraria e iniqua” (Teoria Generale, p. 372).1

Nel modello keynesiano di breve periodo, la distribuzione del reddito non gioca un ruolo causale: Keynes prese la distribuzione come data.

Però, riflettendo sui movimenti dell’economia nel tempo, attribuì molta importanza alle questioni distributive: “l’esperienza suggerisce […] che misure per la redistribuzione del reddito operate in una maniera che renda più probabile l’aumento della propensione al consumo possono risultare favorevoli per la crescita del capitale” (ivi, p. 373).

Questa posizione lo avvicina a coloro che sostengono teorie del sotto-consumo e ai marxisti. Voglio qui confrontare la sua analisi delle crisi del capitalismo con quelle di Hobson e Marx: prima in un’economia ‘chiusa’, poi in una ‘aperta’.


2.

Iniziamo dal caso dell’economia chiusa. Il messaggio forte della Teoria Generale è che gli investimenti sono l’elemento più variabile in un’economia decentralizzata di mercato, a causa dell’esistenza di incertezza fondamentale. Quelle che Keynes chiama “le tecniche carine ed educate” (CW, XIII, p. 215)2 dell’economia ci rendono ciechi al fatto che normalmente non abbiamo idea di quali saranno le conseguenze delle nostre decisioni di investimento, che sono quindi disordinatamente soggette a herd behaviour. Quindi è il crollo delle prospettive di investimento, dovuto a una qualsiasi ragione, ciò che generalmente innesca una fase di crisi.

Nell’economia di Keynes, inoltre, non c’è un meccanismo automatico di ripresa. Quindi, in assenza di stimoli esterni all’economia, un’economia in recessione potrebbe trovarsi bloccata in una situazione di semi-depressione. Keynes chiamò questo un “equilibrio di sotto impiego”. Questo equilibrio, come altri, non è uno stato di riposo assoluto, ma un punto di attrazione gravitazionale intorno a cui il ciclo economico continua.

Credo che la crisi attuale mostri quanta verità ci sia in entrambi gli aspetti di questa analisi: abbiamo avuto un crollo degli ‘spiriti animali’ nel 2007-2008 e un’economia in difficoltà da allora, quanto meno nei paesi più industrializzati.

Confrontiamo questo tipo di analisi con quella di un autore quasi contemporaneo di Keynes, Hobson. Hobson sostiene che a causa della distribuzione diseguale del reddito e della ricchezza le famiglie rimangono con troppo poco potere d’acquisto per acquistare i prodotti che contribuiscono a produrre. Per dirla più precisamente, il gap eccessivo tra consumo e produzione o, che è lo stesso, ‘l’eccesso di risparmio’ fa sì che si produca di più di quanto il reddito disponibile per il consumo possa acquistare a prezzi che garantiscono un profitto ai produttori. Quindi la società si ritrova periodicamente con troppo capitale, e la conseguenza è la crisi.

Questo punto di vista ha diverse affinità con la teoria della crisi del capitalismo di Karl Marx, o almeno con una delle sue teorie. Marx sostiene che poiché la classe dei lavoratori è privata di una parte della crescita della produttività, non possiede i mezzi per acquistare una quantità sempre crescente dei beni prodotti dal suo lavoro. Quindi, come nell’economia di Hobson, in quella di Marx ci sono periodiche “crisi di realizzazione”.

Un’analisi tipicamente sotto-consumista della Grande Depressione è stata fornita da Marriner Eccles, governatore della Federal Reserve dal 1934 al 1948:


“Un’economia di produzione di massa deve essere accompagnata dal consumo di massa. A sua volta, il consumo di massa richiede una distribuzione della ricchezza che fornisca agli uomini il potere d’acquisto. Invece di raggiungere quel tipo di distribuzione, una gigante pompa idrovora fino al 1929 ha portato in poche mani una proporzione crescente della ricchezza prodotta. Questo è servito all’accumulazione di capitale. Ma togliendo potere d’acquisto dalle mani della massa dei consumatori, i risparmiatori hanno negato a sé stessi il tipo di domanda effettiva per i loro prodotti che giustificherebbe il reinvestimento in nuovi impianti dei loro capitali accumulati. Di conseguenza, come nel gioco del poker, quando le
chips sono concentrate sempre in meno mani, gli altri giocatori possono rimanere nel gioco solo prendendo a prestito. Quando il credito si esaurisce, il gioco si ferma.” (Eccles e Hyman, 1951, p.79 )


Se questo avviene con uno shock improvviso, si tratta, secondo me, di un plus per le teorie del sotto-consumo.

A differenza di Keynes, Hobson e Marx erano teorici del ciclo economico. Le recessioni, per quanto severe, generano riprese. Nello scenario di Hobson mentre la depressione peggiora, la ‘classe dei risparmiatori’ vede il suo reddito ridursi, ma non fa alcun tentativo di ridurre il suo standard di vita – Hobson chiama questo comportamento “conservazione del consumo” – e questo riduce la propensione media al risparmio verso la ‘normalità’. L’economia di Marx trova la ripresa espandendo “l’esercito di riserva dei disoccupati”. Questo potrebbe ridurre ulteriormente il potere d’acquisto, ma permette alla classe dei capitalisti di ripristinare il tasso di profitto accaparrandosi sempre più “plus-valore”. Il secondo effetto è più potente. Entrambi i rimedi sono temporanei, però, e il boom seguente immancabilmente produce la depressione seguente.

Sia Hobson che Marx hanno suggerito rimedi permanenti. Hobson voleva redistribuire la ricchezza e il reddito, al fine di ridurre la quota di risparmio sul reddito nazionale. La cura più radicale di Marx, come sappiamo, era di abolire il capitalismo.

Keynes non si è mai occupato approfonditamente di Marx. Lo trovava incomprensibile e illeggibile. Ma Hobson era un liberale inglese come lui, e Keynes lo prese sul serio. Trovo alcune affinità tra le sue idee e quelle di Hobson perché, come lui, Hobson sfidò la classica convinzione che il risparmio è sempre buono. “Sfidando la virtù sovrana della parsimonia”, scrisse Hobson, “mi posi oltre il recinto accademico”.

Nel capitolo 23 della Teoria Generale, Keynes cita il seguente passo da The Physiology of Industry (1889), che Hobson aveva scritto insieme all’imprenditore A.F. Mummery:

“Ora il risparmio, mentre aumenta l’aggregato esistente di capitale, contemporaneamente riduce la quantità di beni e oggetti consumati; qualsiasi esercizio indebito di questa abitudine deve, pertanto, causare un accumulo di capitale superiore a quello richiesto per la produzione, e questo eccesso esisterà nella forma di sovrapproduzione generale”.


In questo brano, Keynes ha scritto, si può trovare la “radice dell’errore di Hobson”, vale a dire

“[...] la sua ipotesi che l’accumulazione di capitale in eccesso rispetto a ciò che è necessario sia la conseguenza di un eccesso di risparmio.

Quest’ultimo, in effetti, è un male secondario, che si verifica solo per via di errori di previsione. Il male primario è la propensione a risparmiare in condizioni di piena occupazione, maggiore del capitale necessario alla produzione: questo impedisce la piena occupazione, tranne quando c’è un errore di previsione”.


La loro teoria era incompleta, secondo Keynes, perché non avevano una “teoria autonoma del tasso di interesse”. Questo ha portato Hobson a mettere troppa enfasi sul sottoconsumo, che porta a un eccesso di investimenti, mentre il vero problema è la scarsità di investimenti rispetto al risparmio, causata dalla “caduta del tasso di profitto al di sotto dello standard fissato dal tasso di interesse” (Teoria Generale, pp. 366-368).

La spiegazione di Keynes del ‘sotto-investimento’ era che la gente ha la possibilità di tenere i propri risparmi in contanti, piuttosto che investirli, e quindi non vi è alcuna connessione tra la velocità con cui si vuole risparmiare e la velocità con cui si desidera investire.

“Perché” chiedeva Keynes nel 1937 “qualcuno al di fuori di un matto da manicomio dovrebbe voler utilizzare il denaro come riserva di ricchezza?” La risposta che diede è che

“il nostro desiderio di detenere denaro è un barometro della nostra diffidenza verso i nostri stessi calcoli e le convenzioni riguardanti il futuro. [...] Il mero possesso di denaro culla la nostra inquietudine, e il premio che chiediamo per separarci dal denaro è la misura di questa inquietudine” (CW, vol. XIV, pp. 115-116).

Questo premio è il tasso di interesse, che viene determinato dalla nostra ‘inquietudine’, non dal nostro risparmio. Non può quindi essere il meccanismo che bilancia il risparmio e gli investimenti, come hanno detto gli economisti classici.


La prospettiva di Keynes, della moneta come riserva di ricchezza, va al cuore del nostro problema di breve periodo: significa che crolli nella redditività degli investimenti non sono compensati automaticamente da un calo del tasso di interesse, anzi il tasso di interesse tenderà ad aumentare in linea con la nostra ‘inquietudine’.

Ciò significa anche che una politica di espansione monetaria volta a ridurre il tasso di interesse può anche fallire, se la preferenza per la liquidità aumenta più velocemente di quanto la banca centrale stampi denaro. Questo evidentemente è stato il fato delle recenti iniziative di quantitative easing (QE) su cui Bernanke e Mervyn King hanno riposto le loro speranze. Di un precedente, ormai dimenticato, episodio di QE nel 1933, Keynes scrisse: “è come cercare di ingrassare comperando una cintura più grande” (CW, vol. XXI, pp 289-297).

Mentre Keynes respingeva la tesi che l’eccesso di risparmio sarebbe una causa della crisi, riconosceva che era più difficile mantenere una situazione di costante piena occupazione in un’economia in cui ricchezza e reddito sono distribuiti in modo molto diseguale.

Secondo la sua ‘legge psicologica’, più le persone sono ricche più risparmiano il loro reddito, e questo lascia uno ‘vuoto’ maggiore, che deve essere riempito dagli investimenti “[...] se le propensioni al risparmio dei membri più ricchi [della società] devono essere compatibili con l’occupazione dei suoi membri più poveri” (Teoria Generale, p. 31). Allo stesso tempo, più una società diviene ricca, meno sono le nuove opportunità di investimento. Quindi il problema della disoccupazione peggiorerebbe nel tempo, da entrambe le prospettive: per via del crescente divario tra consumo e produzione, e per via dell’indebolimento dell’incentivo a investire.

Quindi cosa dovrebbero fare i governi? Keynes suggerì tre soluzioni: potrebbero aumentare la propria spesa finanziata da prestiti, potrebbero utilizzare la politica monetaria per forzare verso il basso il tasso di interesse di lungo periodo, liberando così il capitale dei suoi aspetti ‘usurai’ (“eutanasia del rentier”), o potrebbe redistribuire ricchezza e reddito a favore dei soggetti con maggiore propensione al consumo. Nelle “Note conclusive” della Teoria Generale, Keynes scrisse che solo l’esperienza può mostrare “[...] fino a che punto è sicuro di stimolare la propensione media al consumo, senza rinunciare all’obiettivo di privare il capitale del suo valore di scarsità nell’arco di una o due generazioni” (Teoria Generale, p. 377).

Tuttavia, dal 1943, aveva risolto i suoi dubbi in merito. Prevedeva ora tre fasi dopo la guerra. Nella fase 1, che secondo lui poteva durare cinque anni, la domanda di investimenti avrebbe superato il risparmio di piena occupazione, conducendo a inflazione, in assenza di razionamento o altri controlli. In questa fase sarebbe stato necessario limitare il consumo, al fine di ricostruire le industrie danneggiate dalla guerra. Nella fase 2, che pensava avrebbe potuto durare tra i cinque e i dieci anni, Keynes previde un equilibrio approssimativo tra risparmio di piena occupazione e investimenti privati più pubblici, con lo Stato che perseguisse una politica attiva di investimenti. Nella fase 3, vale a dire a partire circa dal 1960, Keynes pensava che la domanda di investimenti sarebbe stata così satura da non poter eguagliare il risparmio di piena occupazione senza che lo Stato intraprendesse programmi d’investimento dispendiosi e inutili. In questa fase, l’obiettivo della politica dovrebbe essere quello di incoraggiare il consumo ad assorbire parte del surplus indesiderato di risparmio, aumentando il tempo libero e le vacanze. Ciò segnerebbe l’ingresso nel ‘periodo d’oro’ dell’abbondanza di capitale. In seguito, Keynes ritenne che “[...] i fondi di ammortamento sarebbero quasi sufficienti a fornire tutti gli investimenti lordi necessari”.

Queste osservazioni del 1943 si ricollegano al saggio di Keynes Possibilità economiche per i nostri nipoti (Keynes, [1930] 2009), che è il punto di partenza del libro che ho appena scritto con mio figlio, How Much is Enough? (Skidelsky e Skidelsky, 2012).

Keynes pensava che per i tempi attuali avremmo facilmente raggiunto la fase in cui l’accumulazione di capitale non è più così importante. Le economie ricche potrebbero produrre tutti i beni di consumo necessari alle nostre esigenze ragionevoli, quindi la politica dovrebbe mirare a realizzare una più equa distribuzione della ricchezza e ad aumentare il tempo libero.

Nel 1945, Keynes ricordò a T.S. Eliot che “la politica di piena occupazione tramite gli investimenti” era

“[...] solo una particolare applicazione di un teorema intellettuale. È possibile produrre lo stesso risultato consumando di più o lavorando di meno. Personalmente consideravo la politica di investimenti come un primo soccorso. Ma quasi certamente non sarà sufficiente. Meno lavoro è la soluzione definitiva (una settimana lavorativa di 35 ore negli Stati Uniti sarebbe una soluzione ora). Come si mescolano questi tre ingredienti è una questione di gusto e di esperienza, cioè di morale e conoscenza” (CW, vol. XVIII, p. 384).


Permettetemi di soffermarmi qui per una considerazione, perché il punto è spesso frainteso. Quando Keynes sostenne che lo Stato dovesse garantire la piena occupazione, intendeva un lavoro per chiunque ne cercasse uno, non una garanzia di una certa quantità di lavoro alla settimana. Pensava che un impegno alla piena occupazione fosse sostanzialmente coerente con una settimana lavorativa in media di 30, o 20, o anche 15 ore. Quello che avrebbe contestato è la nostra risposta al problema dell’automatismo – ovvero di costringere alcune persone a lavorare molto di più di quello che vorrebbero, e gli altri a lavorare molto di meno di quello che desiderano, o per niente.

I due errori di Keynes, per come li descriviamo nel nostro libro, sono stati di sottovalutare il progresso tecnologico, che ci fornisce costantemente nuovi beni, e l’insaziabilità, che ci fornisce costantemente nuovi bisogni. Entrambi spingono in un futuro lontano il ‘periodo d’oro’ di Keynes dell’abbondanza di capitale.

Siamo andati nella direzione opposta a quello che sperava. Siamo ancora fissati con la crescita economica, pur avendo abbandonato ogni tentativo di controllare il livello o il tipo di investimenti. Per promuovere la crescita incoraggiamo sempre di più il consumo attraverso la pubblicità, e promuoviamo attivamente le disuguaglianze. E invece di avere lo Stato a intraprendere programmi di investimento dispendiosi e inutili, lo lasciamo fare al settore finanziario, sprecando il denaro degli investitori al fine di arricchire una piccola minoranza, mentre la maggioranza cade sempre più nel debito.


3.

Consideriamo ora come le teorie che abbiamo visto se la cavano in condizioni di ‘economia aperta’.

In un’economia chiusa, è il risparmio in eccesso, secondo Hobson, che provoca crolli periodici. Ma un’economia aperta offre un’alternativa: il risparmiatore nazionale può prestare all’estero per sviluppare nuovi mercati. Hobson chiamava la necessità di trovare uno sfogo straniero per l’eccesso di risparmio la “radice economica dell’imperialismo” (Hobson, 1902, parte I, cap. 5). Questa idea è stata ripresa da Lenin per spiegare perché il capitalismo non era crollato con il passare del tempo. Di fronte a una caduta del saggio di profitto, i capitalisti potevano ripristinarlo aprendo nuovi territori per lo sfruttamento. Quindi l’esportazione di capitali era la soluzione del capitalismo alle periodiche crisi causate dalla sua riluttanza o incapacità di aumentare i salari reali dei lavoratori.

Hobson riconosceva che l’aumento degli investimenti esteri richiede un aumento delle esportazioni nette. Quindi l’esportazione di capitali risolve due problemi in una volta: riduce l’eccesso di offerta di beni e svuota il fondo dei risparmi in eccesso. Purtroppo, questo rimedio – che sia Hobson e Lenin chiamavano imperialismo – rimandava solo il ‘giorno del giudizio economico’. La spinta competitiva per conquistare nuovi mercati avrebbe portato a guerre tra le potenze per la “divisione e la spartizione del mondo”.

Il valore della loro analisi è che ci costringe a guardare più da vicino il fenomeno della globalizzazione. La globalizzazione è la conseguenza di una ricerca benigna e normale di rendimenti più elevati, che portano a una più efficiente allocazione del capitale e della produzione? O è un tentativo di risolvere i problemi dei paesi esportatori di capitali, che, altrimenti, porterebbero le loro economie al crollo?

Keynes simpatizzava con la tesi di Hobson/Lenin in termini di politica economica, ma il suo punto di partenza analitico era diverso. Hobson e Lenin supponevano che l’esportazione di capitali e di investimenti stranieri fossero la stessa cosa, mentre per Keynes il problema era che il prestito all’estero richiede, ma non riceve, un equivalente aumento degli investimenti. Questo è noto in letteratura come “il problema del trasferimento”. Keynes lo identificò dapprima quando attaccò la richiesta alleata di riparazioni tedesche, dopo la prima guerra mondiale. Lo applicò poi al caso britannico. Dopo la guerra nel Regno Unito la disoccupazione era diffusa, e la politica ortodossa era di incoraggiare l’esportazione di capitali per incentivare l’occupazione nei settori delle esportazioni.

Keynes sottolineò che l’espansione delle esportazioni richiesta da un trasferimento netto di denaro all’estero potrebbe essere bloccata da entrambi i lati: il paese esportatore di capitali potrebbe essere non disposto o non in grado di aumentare la propria competitività in misura sufficiente a consentire il trasferimento ‘reale’ di beni e servizi, e il paese importatore di capitali potrebbe non essere disposto a subire la perdita della propria competitività. Il suo ragionamento era condotto in termini di un sistema di cambi fissi, ma può essere semplicemente adattato a un sistema di fluttuazione manovrata.

Se l’aumento delle esportazioni nette è bloccato, si avrebbe una perdita di oro nel paese esportatore di capitale, costringendo verso l’alto il suo tasso di interesse, ma senza alcun aumento delle esportazioni verso il resto del mondo. Di conseguenza, vi è una diminuzione globale della domanda.

Il meccanismo di blocco nel paese che guadagna capitale potrebbero essere delle tariffe sulle importazioni, ma Keynes si concentra sul caso in cui la banca centrale ‘sterilizza’ o ‘accumula’ gli afflussi di capitale, al fine di evitare un aumento del livello dei prezzi interni. Quello che fa in tal modo è trattare il denaro come una ‘riserva di ricchezza’, anziché come un fondo per gli investimenti. La sua argomentazione era basata su ciò che la Federal Reserve faceva negli anni ‘20, ma potrebbe facilmente essere applicata alla Cina di oggi. L’accumulo di riserve da parte della Cina è iniziato dopo la crisi finanziaria asiatica del 1997-1998: nel linguaggio di Keynes, il prezzo dell’inquietudine in Cina è salito.

Il coinvolgimento di Keynes nella questione delle riparazioni tedesche gli ha dato un orientamento permanente a favore della cancellazione del debito, la sua analisi del problema della disoccupazione in Gran Bretagna negli anni ‘20 un pregiudizio permanente contro le esportazioni di capitali. La conclusione generale che ne ha tratto è in linea con quella di Hobson e Lenin, ma raggiunta per una strada diversa. Per loro, le esportazioni di capitali risolvono il problema della disoccupazione interna, ma a scapito di conflitti internazionali. Anche per Keynes causano conflitti internazionali, ma senza risolvere il problema della disoccupazione. Egli scrisse nel 1936:

“[...] Se le nazioni imparassero a provvedere da se stesse alla piena occupazione, tramite la politica interna, [...] non ci sarebbe più motivo per cui un paese ha bisogno di forzare la sua merce in un altro, o di respingere le offerte del suo vicino [...] al fine di ottenere una bilancia commerciale in proprio favore. Il commercio internazionale cesserebbe di essere quello che è, vale a dire un disperato espediente per mantenere l’occupazione in casa forzando le vendite sui mercati esteri e limitando gli acquisti, che, in caso di successo, si limita a spostare il problema della disoccupazione al paese vicino che ha la peggio nella lotta” (Teoria Generale, p. 382).


Quello che voglio sottolineare in questa parte del mio intervento sull’‘economia aperta’ è la rilevanza di queste analisi per i problemi attuali della globalizzazione. Keynes è stato il primo economista, credo, a individuare l’accumulo incontrollato di riserve come il baco nel meccanismo classico di aggiustamento internazionale degli squilibri. Come scrisse nel 1941:

“[...] Il processo di aggiustamento è obbligatorio per il debitore e volontario per il creditore. Se il creditore sceglie di non fare o non consentire la sua parte di aggiustamento, non soffre alcun inconveniente. Perché mentre le riserve di un paese non possono scendere sotto lo zero, non esiste un massimale che definisce un limite superiore. Lo stesso vale se i prestiti internazionali sono il mezzo dell’aggiustamento. Il debitore deve prendere in prestito, il creditore non ha l’obbligo di prestare” (CW, vol. XXV, pag. 28).


Quindi, l’obiettivo centrale del suo piano per una International Clearing Union, nel 1941, era di impedire al creditore di ‘accumulare’ (hoarding, N.d.T.). Altrimenti, gli effetti della libera circolazione dei capitali saranno violentemente perversi. Nessun meccanismo di tal tipo è stato istituito con l’accordo di Bretton Woods, e oggi l’aggiustamento internazionale resta bloccato.

Ovunque volgiamo lo sguardo Keynes gira intorno alle stesse questioni: il ruolo del denaro come copertura contro l’incertezza, le conseguenze per l’attività economica, e il fallimento degli economisti classici di capirlo, poiché non riconoscono l’esistenza dell’incertezza.


4.

Riassumiamo quello che possiamo ottenere da tutti e tre i pensatori che ho discusso. Da Keynes, va da sé, la precisione analitica, che manca in Hobson e Marx, e l’esposizione di un problema irriducibile per tutte le forme di interazione sociale, non limitato all’economia: la nostra mancanza di conoscenza delle conseguenze, a parte le più immediate, delle nostre azioni. Per questo, come scrisse, la ‘ricchezza’ è un oggetto molto inadatto per i metodi dell’economista classico.

Da Hobson, apprendiamo la comprensione che le istituzioni alla base della ricchezza e della sua distribuzione possono aggravare o attenuare il problema di Keynes, dell’instabilità dell’investimento. Recessioni dovute all’incertezza sono più probabili, e più probabilmente gravi, e le riprese più deboli, tanto più diseguale è la distribuzione della ricchezza e del reddito.

Da Marx si ottiene un’analisi di come nascono le diseguaglianze delle ricchezze e dei redditi. Questo aspetto è carente in Hobson, che non ha mai spiegato come i risparmi si accumulino da qualche parte. E non poteva farlo, dal momento che accettava l’ipotesi che i lavoratori sarebbero pagati il loro prodotto marginale. Hobson ovviamente parla di monopolio, prezzi amministrati e altre distorsioni, ma questi fattori contingenti potrebbero essere risolti con riforme, senza minacciare l’integrità della teoria classica dei mercati. Marx ha fatto di meglio, facendo cadere l’ipotesi che i lavoratori sono pagati i loro prodotti marginali. Se la crescita della produttività supera la crescita dei salari, il divario tra produzione e consumo crescerà, determinando un aumento automatico del tasso di risparmio.

La capacità dei capitalisti di pagare i lavoratori meno di quanto valga il loro contributo, e se stessi di più, dipende secondo Marx dalla loro proprietà dei mezzi di produzione. Questo gli da potere nell’economia, e anche i governi sono asserviti a tale potere.

I recenti avvenimenti mi hanno convinto che ci sia qualcosa di intuitivamente giusto nell’analisi marxista. È particolarmente illuminante riguardo la globalizzazione: mi sembra abbastanza ragionevole interpretare la delocalizzazione della produzione dagli Stati Uniti verso la Cina e l’Asia orientale come un tentativo di ripristinare la redditività del capitale americano localizzando la produzione nelle regioni in cui il lavoro era a buon mercato e non esistevano organizzazioni sindacali. Questo solleva la questione cruciale di fino a che punto la globalizzazione, per come è praticata ora, è nell’interesse dei cittadini dei paesi sviluppati.

Questa osservazione porta alla mia critica principale a Keynes. L’idea che l’economia potesse essere influenzata dal potere di classe era al di là della sua comprensione. In sostanza, secondo lui i sistemi capitalistici non appropriatamente gestiti non riescono a mantenere la piena occupazione perché l’economia classica ha dato indicazioni sbagliate: presume che non vi sia incertezza, e quindi suggerisce un alto grado di laissez-faire. Una regolamentazione blanda del sistema finanziario era tutto ciò che era necessario, perché le banche si autoregolano perfettamente. In breve, secondo Keynes il problema era teorico, non strutturale. Era necessaria una teoria più accurata, non una ridistribuzione del potere. Come Keynes notoriamente scrive alla fine della Teoria Generale, le “idee” sono più potenti degli “interessi” (Teoria Generale, p. 283). Il suo quasi sprezzante bollare ogni elemento non ideale del sistema economico come “interessi di parte” mostra che gli mancava una corretta conoscenza di questi elementi.

La ridefinizione di Keynes del problema economico del suo tempo come un problema tecnico della scienza economica era politicamente molto opportuna. I pragmatici uomini d’affari sono molto ricettivi alle nuove idee, purché gli permettano di mantenere i loro profitti e le prerogative manageriali. Negli anni tra le due guerre la carente domanda e la relativa disoccupazione di massa erano una minaccia per entrambi questi interessi, se non altro perché suscitavano ostilità contro il capitalismo. Keynes era certamente preferibile a Marx. Così furono felici che lo Stato si occupasse della domanda e li proteggesse dai sindacati, e anche di acconsentire a modeste misure di redistribuzione, per fare felice la popolazione.

Tuttavia, lo Stato si è rivelato incapace di proteggere la rivoluzione keynesiana dalle conseguenze del continuo pieno impiego che essa garantiva. La piena occupazione rafforzava il potere sindacale, i sindacati usarono la loro forza per spingere i salari oltre la produttività, e hanno cominciato a ridurre i profitti. Ecco che la classe imprenditoriale ha chiesto la fine dell’impegno alla piena occupazione, tasse più basse, e libertà di esportare il capitalismo.

Penso che questa analisi spieghi molte caratteristiche dell’economia post-Reagan e post-Thatcher: i livelli molto più alti di disoccupazione, l’indebolimento dei sindacati, la decurtazione della rete di sicurezza sociale, la stagnazione dei salari reali e la concomitante esplosione dell’indebitamento delle famiglie, l’aumento della pressione sull’orario di lavoro, le riforme fiscali a favore del capitale, la de-regolazione della finanza, e molto altro.

Ma la soluzione di Reagan e Thatcher al problema del capitalismo ha ricreato il problema Hobsoniano del sottoconsumo. A partire dagli anni ‘80 i ricchi, nei paesi occidentali, sono stati in grado di appropriarsi della fetta del leone della crescita della produttività. Ecco perché crisi future sono inevitabili.

Per evitarle dobbiamo riequilibrare la nostra vita economica: dal consumo verso il tempo libero, dalla finanziarizzazione verso la sostenibilità, dalla globalizzazione verso la comunità, dall’amore per il denaro verso l’etica. Come farlo è una questione politica, a cui ora dovrebbero dedicarsi i post-keynesiani. Keynes deve rimanere la nostra ispirazione, ma dobbiamo andare oltre, sia nel pensiero che nell’azione.

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Note

* University of Warwick; e-mail: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.. Testo di un intervento tenuto alla Post-Keynesian Conference “Reclaiming the Keynesian Revolution”, Kansas City (USA), il 29 settembre 2012. Traduzione dell’intervento e delle citazioni (non ulteriormente segnalata nel testo) a cura di Carlo D’Ippoliti.

1 Le citazioni a Keynes (1936) sono indicate nel testo come Teoria Generale per ragioni di consistenza con il testo dell’intervento originale.

2 Le citazioni di Keynes (1971-1989) sono riportate nel testo come CW (da Collected Works).


BIBLIOGRAFIA

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HOBSON J.A. (1902), Imperialism: A Study, James Pott and Co., New York.

HOBSON J.A. e MUMMERY A.F. (1889), The Physiology of Industry: Being an Exposure of Certain Fallacies in Existing Theories of Economics, J. Murray, Londra.

KEYNES J.M. (1930), “Economic Possibilities for our Grandchildren”, in (id.), Essays in Persuasion, ristampato in Keynes (1971-1989), vol. 9.

ID. (1936), The General Theory of Employment, Interest and Money, Macmillan, Londra. Ristampato in Keynes J.M. (1971-1989), vol. 7.

ID. (1971-1989), The Collected Writings of John Maynard Keynes, a cura di D.E. Moggridge, voll. 1-30, Macmillan, Londra.

SKIDELSKY R. e SKIDELSKY E. (2012), How Much is Enough? Money and the Good Life, Other Press, New York.

 

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