Quel pasticciaccio brutto dell’euro
Sergio Cesaratto
« [...] Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. »
Introduzione1
In questo saggio illustreremo la spiegazione Classico-Kaleckiana della crisi dell’Eurozona, per domandarci successivamente se questa crisi sia effettivamente un effetto indesiderato o, invece, essa rappresenti il dispiegamento dei veri obiettivi della moneta unica. Esamineremo infine le possibili vie d’uscita, inclusa quella di un massiccio piano d’investimento europeo propugnato dal sindacato tedesco. Mentre quest’ultima soluzione ci appare come inadeguata, altre due – rispettivamente la più desiderabile via Keynesiana e la più densa di incognite rottura dell’euro – ci appaiono per ora non nell’ordine delle cose, a meno di un grave incidente politico-finanziario che conduca dritti al secondo esito. Al momento quella che è stata definita come la kossovizzazione della periferia europea sembra come la prospettiva più probabile. Se essa condurrà a un certo punto ad altri rivolgimenti è impossibile a dirsi ora.
1. Sovrappiù e domanda aggregata
Per comprendere il brutto pasticcio in cui il nostro paese si è cacciato può essere utile ripercorrere le origini e natura della crisi dell’unione monetaria europea (UME) (Cesaratto 2013a/b/c). Nel sviluppare il nostro ragionamento faremo alcuni riferimenti alla seconda edizione del volume di Yanis Varoufakis (2013), economista legato a Syriza, Il minotauro globale2.
La prospettiva dell’economista greco è quella delle teorie del sovrappiù propria degli economisti classici e di Marx (Garegnani 1981), che noi articoliamo così. Il sovrappiù è ciò che rimane alle classi dominanti del prodotto sociale dopo che ne hanno destinato una parte alle sussistenze dei lavoratori e delle loro famiglie. Le merci che costituiscono il sovrappiù devono tuttavia essere vendute. Parte di esse sono acquistate dai capitalisti medesimi (che se le scambiano fra loro) sotto forma di consumi di lusso (yacht, ville ecc.) o di beni di investimento (nuovi macchinari ecc). La spesa dei capitalisti può tuttavia essere insufficiente ad assorbire tutto il sovrappiù. Michal Kalecki - il “Keynes marxista” - riprese e rese coerente l’idea di Rosa Luxemburg che il capitalismo ha bisogno di “mercati esterni” per smaltire la parte del sovrappiù non assorbita dai capitalisti medesimi. La spesa pubblica è un esempio di mercato esterno: un’adeguata spesa pubblica consente elevati livelli di produzione in quanto ne assorbe una parte come acquisti della pubblica amministrazione (per esempio sotto forma di armamenti). Concentrandoci sulla parte della spesa in disavanzo, sono i capitalisti medesimi a finanziarla acquistando titoli del debito pubblico – sicché essi con una mano vendono le merci al settore pubblico mentre con l’altra gli prestano i ricavi ottenuti. Un altro mercato esterno sono i “consumi autonomi”, ovvero i consumi dei lavoratori finanziati dal credito al consumo. Il ruolo trainante di tale componente della domanda aggregata lo si può apprezzare pensando al boom edilizio pre-crisi negli Stati Uniti e in Spagna. Anche in questo caso i capitalisti con una mano vendono e con l’altra prestano alle famiglie. Si osservi come l’assorbimento del sovrappiù da parte di Stato e famiglie implichi l’indebitamento di questi settori. Il debito delle famiglie è quello più fragile, potendo lo Stato sempre ricorrere all’aumento delle imposte e al finanziamento della banca centrale. Quella parte del sovrappiù che non è consumata all’interno di un paese né dai suoi capitalisti, né dallo Stato e neanche dalle famiglie (indebitate), può trovare sbocco all’esterno e va così a rappresentare il surplus commerciale con l’estero. Sono in genere i paesi più avanzati, come gli Stati Uniti nel secondo dopoguerra, e/o quelli mercantilisti, come il Giappone o la Germania, a trovarsi nella condizione di paesi esportatori netti (cioè che tendono a esportare più di quanto importino). I paesi mercantilisti accentuano questa tendenza attraverso la compressione dei consumi interni, pubblici e privati. Questo accade, per esempio, attraverso aumenti dei salari reali in misura inferiore alla crescita della produttività del lavoro. Essendo paesi come Giappone e Germania economie ad elevata produttività, i salari reali sono comunque alti, per cui i sindacati possono facilmente diventare conniventi a tale modello (per alcuni dettagli del modello tedesco si veda Cesaratto & Stirati 2011). Anche in questo caso i capitalisti (dei paesi in surplus commerciale) con una mano vendono le proprie merci ai paesi (definiamoli) periferici, mentre con l’altra prestano a tali paesi i capitali necessari per finanziare i propri deficit di bilancia dei pagamenti.
Come si vede da questo résumé, il modello Classico-Kaleckiano contiene elementi keynesiani (il ruolo della domanda aggregata) e classico-marxisti (il concetto di sovrappiù)3. Esso spiega i periodi di crescita come guidata dai “mercati esterni”, ma anche la crisi quando in questi ultimi si verifica l'incapacità, in particolare da parte di famiglie o paesi periferici, di redimere il debito (sicché i prestiti si bloccano e con essi tutto il meccanismo). Qualcuno particolarmente alla moda vi può leggere un tocco di Minsky (il quale però non ha una struttura analitica propriamente Classico-Kaleckiana). Le applicazioni dello schema per spiegare la crisi americana del 2007-8 e quella europea sono intuitive (Lucarelli 2012).
2. Il riciclaggio del surplus
Con riferimento a uno schema analitico simile a quello ora illustrato, la tesi di Varoufakis è che un sistema economico e monetario internazionale abbia bisogno di un “meccanismo di riciclaggio” dei surplus commerciali per poter funzionare, vale a dire di un meccanismo per cui i proventi dei paesi in surplus vengono sistematicamente riprestati ai paesi deficitari sì da sostenerne i disavanzi (v. anche Halevi & Varoufakis, 2003 ). Nel ridisegnare l’economia globale del dopoguerra, la famosa proposta di Maynard Keynes di una “International Clearing Union” (ICU) andava precisamente in questa direzione. La ICU avrebbe sostenuto le bilance dei pagamenti dei paesi deficitari riciclando i surplus dei paesi in avanzo depositati presso di essa, mentre squilibri persistenti sarebbero stati sanati sia con aggiustamenti dei cambi che con politiche macro, deflative nei paesi in disavanzo, ma col contributo di politiche espansive nei paesi in avanzo. Nonostante il rifiuto di questa proposta da parte degli Stati Uniti, il paese allora in surplus, questi si assunsero il ruolo di sostenitori della domanda globale riciclando i propri surplus commerciali attraverso vistose spese politico-militari presso i paesi alleati e cospicui investimenti esteri. Questo modello funzionò sino a quando, durante gli anni 1960 i ruoli fra centro e periferia non si invertirono e gli Stati Uniti maturarono un disavanzo strutturale della bilancia commerciale. Non più sostenuto dalla convertibilità con l’oro, dal 1971 il dollaro continuò a costituire l’architrave del sistema monetario internazionale fondato su un nuovo modello che Varoufakis definisce Il Minotauro globale, in cui la potenza imperiale genera attraverso il proprio mercato interno la domanda globale di ultima istanza assorbendo i surplus commerciali delle nuove potenze sub-imperiali Giappone e Germania (ma anche Corea del Sud, Taiwan ecc.). La metafora dei sacrifici per soddisfare il vorace Minotauro è proprio nel tributo che il resto del mondo paga al vorace consumatore in cambio della Pax Americana, dell’ordine politico-monetario assicurato dalla potenza egemone e consumatore di ultima istanza.
I paesi in avanzo, a loro volta, acconsentono a riciclare i proventi netti investendoli in titoli pubblici e privati americani. In tal modo la stabilità del dollaro viene assicurata non avendo alcuno la convenienza a vederne scemare il valore (“the dollar is our currency, but your problem” come ebbe a dire il segretario al Tesoro di Nixon) Come elemento di indebolimento del fronte comunista internazionale e di espansione del mercato capitalistico, anche la Cine viene invitata dagli anni 1980 a partecipare al grande tavolo globale. Con la grande crisi del 2007-8 tale modello entra, secondo Varoufakis, in una crisi esiziale. Di questo non siamo certi. Quelli che sono entrati in crisi sono i meccanismi finanziari con cui gli Stati Uniti hanno assicurato l’espansione della loro domanda, principalmente col credito al consumo (inclusi i mutui immobiliari). Si tratta di vedere se tale modello potrà ripristinarsi una volta sanati gli eccessi più evidenti (che magari verranno col tempo rimpiazzati da altri peggiori). Ma è ora di guardare all’Europa.
3. L’Europa squilibrata
L’Europa della moneta unica nasce senza un meccanismo interno di riciclaggio dei surplus commerciali fra i membri in surplus (la cosiddetta “core-Europe”) e quelli in disavanzo (la periferia). Unioni monetarie sostenibili, come le hanno definite Barba e De Vivo (2013) posseggono meccanismi interni redistributivi di reddito fra regioni diversamente avvantaggiate, come quelli che in Italia esistono fra Lombardia e Calabria. Solo questa decisione politica può rendere sostenibile una scelta tanto gravida di conseguenze quanto quella di rinunciare alla propria valuta, dunque alla possibilità di correggere la propria competitività attraverso aggiustamenti del cambio. Per questo mai unioni monetarie hanno preceduto quelle politiche, bensì viceversa (Goodhart 1998)4.
Inaspettatamente, un meccanismo di riciclaggio si è stabilito, sin ch’è durato, in forza del mercato attraverso il riciclaggio da parte delle banche del “core-Europe” dei surplus commerciali di quest’area a favore della periferia5. In verità uno degli scopi con cui, dai tempi del gold standard, i paesi periferici hanno aderito ad accordi di cambio fisso è la possibilità di finanziare la propria crescita attraverso l’importazione di capitali dai paesi centrali. Questi, d’altra parte, si sarebbero resi disponibili in quanto rassicurati dalla stabilità del cambio e dall’impegno alla disciplina di bilancio che l’impegno ai tassi fissi impone. Fra le decine di casi in cui le cose sono andate a finire male basti citare il ben noto caso dell’Argentina. Eppure così poco la storia insegna all’umanità che la crisi debitoria si è puntualmente verificata nel caso dell’UME (Cesaratto 2013a/b/c, Frenkel 2013). Ciò non di meno un meccanismo di riciclaggio dei surplus dei paesi centrali a favore della periferia ha funzionato sino al 2008. Certamente nulla ora è in vista che lo sostituisca e l’aggiustamento è tutto sulle spalle dei paesi indebitati, con dubbie possibilità di successo, peraltro6.
Ma quali le ragioni che hanno spinto i paesi europei a un’avventura tanto folle? Una è stata appena menzionata, quella di favorire l’afflusso di capitali. La giustificazione di fondo è però quella dell’importazione della disciplina dei più forti da parte dei paesi più deboli. Questo tentativo era già stato condotto col sistema monetario europeo. Lì però i prezzi erano apparsi esorbitanti, dato che la politica monetaria – ovvero la fissazione del tasso dell’interesse, una variabile fondamentale per l’economia - era sostanzialmente condotta dalla Bundesbank guardando alle esigenze tedesche e non dell’insieme dei paesi membri (Vianello, 2005 ).
4. Un’agenda nascosta?
L’accesso ai mercati internazionali dei crediti a tassi di interesse più favorevoli può dunque essere stato un motivo di adozione del gold standard o di sistemi di cambi fissi, e da ultimo di un’unione monetaria. Gli anni del gold standard (1880-1914 circa) videro una convergenza dei tassi di interesse calcolati come spread rispetto ai titoli britannici simile a quella che si è avuta nell’UME (su cui torneremo) (v. Bordo & James 2013, pp. 5, 21). L’adesione al gold standard,come quella all’UME attraverso il Trattato di Maastricht, implicava l’adozione di disciplina fiscale sia per evitare la tentazione di un indebitamento insostenibile del settore pubblico tentato da tassi più accessibili (moral hazard), sia perché il soccorso del settore pubblico sarebbe stato necessario in caso di difficoltà del settore privato (al cui indebitamento si guardava invece più favorevolmente), soccorso impossibile se il settore pubblico si fosse trovato nelle medesime difficoltà (ibid, pp. 9, 12). Ci si può domandare se in determinate occasioni la disciplina fiscale e più in generale di prezzi e salari implicata dall’adozione dei sistemi di cambio fissi non sia sta un fine a sé stante. Sulla scorta di un articolo pubblicato da The Guardian nel giugno 2012, Robert Mundell – l’economista conservatore canadese padre della teoria delle aree valutarie ottimali spesso usata criticamente verso l’euro - pare ora ritenere che la morsa dell’austerità a cui finalmente l’UME ha condotto realizzi lo scopo disciplinante originario dell’unione valutaria. In effetti quello che nelle esperienze dei cambi fissi è tipicamente accaduto (e che meglio svilupperemo in seguito) è che all’inizio l’accesso al credito internazionale conduce a periodi di crescita delle economie periferiche – dunque a tutt’altro che disciplina. E’ solo con la crisi che si afferma il redde rationem della disciplina. Un articolo di un economista della scuola Hayekiana (o “austriaca”)7, Jesus Huerta de Soto , per quanto farneticante, sostiene però apertamente il ruolo disciplinante che l’UME sta ora svolgendo sotto la sferza della crisi.
Huerta de Soto (2012, p.3, mia traduzione) cita la difesa che l’economista austriaco Ludwig Von Mises (1881-1973) fece del gold standard come strumento disciplinante:
Questa posizione sarebbe condivisa dagli economisti austriaci (ibid, p. 4, mia enfasi):
Huerta de Soto sottolinea come l’UME abbia per la prima volta esposto dei paesi sovrani a una crisi finanziaria e di bilancia dei pagamenti avendo al contempo rinunciato allo strumento di una politica monetaria autonoma (il che significa l’impossibilità di sostenere bilancio pubblico e banche emettendo moneta e di svalutare la propria moneta), tutti strumenti utilizzati nelle tradizionali crisi di bilancia dei pagamenti in regimi di cambi fissi e di gold standard (ibid, p. 4):
E infatti l’UME sarebbe addirittura superiore al gold standard in quanto i Paesi non possono (facilmente) sfuggirvi (ibid, p.5). De Soto si fa così beffe dei sogni europeisti dei Jacques Delors – ancor oggi un mito della sinistra europeista più impenitente - che hanno visto nella moneta unica la premessa dell’Europa politica, mentre ora essa sta mettendo in crisi l’Europa sociale - con gioia dell’Opus Dei di cui de Soto è membro, viene da pensare9:
Se Huerta de Soto è chiaramente un fanatico, tale non appare uno dei padri dell’UME e ministro del Tesoro dell’ultimo governo di centro-sinistra, il quale una decina d’anni fa additava l’esempio di Francia e Germania descrivendo quali comportamenti implicava la nuova Europa. Scriveva Tommaso Padoa-Schioppa (Corriere della Sera, 26 agosto 2003) richiamandosi alle prediche inutili di Luigi Einaudi che quei paesi da tempo hanno scelto la strada del “lasciar funzionare le leggi del mercato, limitando l'intervento pubblico a quanto strettamente richiesto dal loro funzionamento e dalla pubblica compassione”. E così prosegue:
La dice lunga che chi scrive abbia udito persona organica alla sinistra radicale, e membro della già citata compagine governativa, definire Padoa Schioppa un “sant’uomo”. L’euro è dunque fallito? No, è proprio ora che esso, come si trovò a dichiarare Mundell, sta dispiegando tutta la forza devastatrice osannata dal “sant’uomo”.
5. Esistono vie d’uscita?
Dando per scontato il fallimento delle politiche dell’austerità espansiva, le ipotesi alternative di uscita dalla crisi sono riconducibili a due. Una via keynesiana che potrebbe evolvere nel tempo verso forme di federalismo; la rottura dell’UME. Nel mezzo della discussione di queste soluzioni esamineremo criticamente il piano di investimenti presentato dai sindacati tedeschi (DGB 2012).
5.1. La via Keynesiana
La prima strada è quella tradizionalmente Keynesiana che propugna un nuovo assetto delle politiche macroeconomiche europee con il coordinamento delle politiche fiscali e monetarie in senso espansivo. Si tratta dunque di: (i) riformare le istituzioni europee creando una autorità che coordini la politica fiscale – un Eurogruppo rafforzato; (ii) assegnare alla BCE l’obiettivo della piena occupazione accanto a quello della stabilità dei prezzi. Una seria unione bancaria, che preveda meccanismi di prevenzione e di risoluzione delle crisi finanziarie a livello europeo va a completare tale quadro. La garanzia della BCE sui debiti sovrani potrebbe comportare una significativa riduzione della spesa per interessi per i paesi periferici consentendo loro di stabilizzare il rapporto debito pubblico/Pil (senza assurde riduzioni) in maniera compatibile con politiche moderatamente espansive; Germania e gli altri paesi centrali dovrebbero adottare invece politiche di bilancio più marcatamente espansive volte ad assorbire col rilancio della domanda interna i surplus commerciali (lasciando anche un po’ correre l’inflazione interna). Proposte come l’europeizzazione di parte dei debiti pubblici (i famosi eurobond) possono ben far parte di questo pacchetto10. La questione è che la Germania non è assolutamente interessata a fare da traino al resto dell’Europa abbandonando i presupposti del proprio modello mercantilista – contrazione della domanda interna e stabilità di prezzi. Non solo i tedeschi si chiedono, inoltre, quanto politiche espansive centrate sulla Germania non vadano a beneficio di paesi extra-Europei invece che della periferia dell’UME. L’Italia potrebbe avvantaggiarsi di tale pacchetto più che il resto della periferia, ma deve essere chiaro alla sinistra nostrale che la ripresa dei consumi dei lavoratori va affidata alla ripresa dell’occupazione piuttosto che ad aumenti dei salari nominali e reali, almeno sino a che la produttività non riprenda a crescere in maniera sostenuta. Che poi parte dell’espansione germano-centrica vada a beneficio dell’economia globale non sarebbe un gran danno. Sarebbe, anzi, un contributo a un rilancio coordinato della domanda globale, con la rinuncia europea al mercantilismo, sì da sollevare gli Stati Uniti dal ruolo di mercato di ultima istanza, ruolo che essi ricoprono con sempre più fatica – come evidenzia Varoufakis nel suo volume.
Un progresso nella direzione del pacchetto keynesiano sarebbe un buon segnale verso una evoluzione federale dell’Europa in cui venisse costituito un bilancio pubblico comune, dell’ordine del 5%, con finalità redistributive fra i paesi membri e di stabilizzazione del ciclo, come previsto dal piano Mac Dougall del 1977. Perché ciò accada, sarebbe ancor più necessario che l’Italia si ricollocasse su un sentiero di crescita sì da permanere – nonostante il perenne giogo del suo mezzogiorno – fra i paesi contributori netti. E’ in quest’ambito che vanno collocate le proposte di piani d’investimenti europei in nuove tecnologie, infrastrutture, ambiente, di cui ci andiamo ora ad occupare.
5.2. I piani di investimento
Il mio giudizio sulle proposte della DGB (2012) non è propriamente entusiasta. Il pericolo politico che vedo è che ci si rifugi in immaginifici piani Marshall di investimento tralasciando il fatto che l’Eurozona avrebbe necessità di misure macroeconomiche di più rapido impatto, inclusa una seria unione bancaria, e nel lungo periodo di una revisione dei trattati, sebbene le condizioni politiche per questo non vi siano, come diremo più avanti11.
Alcune critiche pertinenti al Piano DGB sono state avanzate dal Keynes blog (24/6/2013). Il Piano sceglierebbe “di confermare l’assenza delle leve fiscali e monetarie che caratterizzano la fragile impalcature dell’euro” proponendo la via “seducente” di un “Piano Marshall per l’Europa”. Cosa ci può essere di più condivisibile – si domandano gli estensori – “di una azione orientata a stimolare gli investimenti nella produzione di energia sostenibile, nella riduzione dei consumi energetici, in settori industriali e servizi sostenibili, in istruzione e formazione, in ricerca e sviluppo, in infrastrutture di trasporto moderne, in città e comuni a basse emissioni e nell’efficienza delle pubbliche amministrazioni.”? Molta della domanda generata andrebbe tuttavia a favore delle imprese tedesche, mentre la Tobin tax – che gli estensori vedono come fonte primaria di finanziamento del piano - fu pensata dal suo proponente come un “granello di sabbia” nei meccanismi della speculazione piuttosto che come fonte di risorse per il settore pubblico. Essi denunciano, infine, come il piano destini “un’inezia” a interventi di “stabilizzazione della congiuntura”. Chiosando queste critiche, il Piano può risultare di difficile gestione, vale a dire appare complicato pensare la costituzione di un’autorità europea in grado di gestire una mole così grande di progetti in campi così disparati e in tempo utile per intervenire sulla crisi. Allo stadio sembra assente uno studio input-output degli effetti della spesa sui diversi sistemi produttivi nazionali, avvalorando il sospetto che i vantaggi possano confluire fondamentalmente sull’industria tedesca (si dovrebbero, per esempio, includere clausole che obblighino investimenti industriali nella periferia per chi riceve finanziamenti). Siamo inoltre sicuri che il settore privato, che il piano coinvolge, sia sensibile al sostegno di investimenti finalizzati a tanti nobili obiettivi (riconversione ecologica ecc.) in una situazione in cui le aspettative deprimono gli investimenti, specialmente nella periferia?
Infine, circa le cause della crisi, il documento si limita a sottolineare le responsabilità degli “operatori finanziari”. E’ questa una spiegazione di comodo della crisi che evita di additarne le cause di fondo nel peggioramento della distribuzione del reddito a sfavore dei lavoratori, per cui lo sviluppo del credito al consumo è stato funzionale a sostenere la domanda aggregata, e per ciò che riguarda l’Europa, nella creazione stessa dell’Euro. Certo, un altro Euro sarebbe possibile, ma ciò sembra incompatibile con le caratteristiche di fondo del modello tedesco, e i sindacati tedeschi sono parte di quel modello. Naturalmente non si tratta di dubitare della buona fede e della solidarietà sincera dei sindacati tedeschi. Si deve, tuttavia, riflettere sui fatti. Ad essere generosi si può ipotizzare che il sindacato tedesco sia combattuto fra la Scilla di un rilancio della domanda interna tedesca attraverso il sostegno dei salari minimi nei settori penalizzati e con una politica fiscale espansiva, e la Cariddi di mettere in difficoltà la macchina esportatrice, non da oggi la vacca sacra della politica tedesca (Wallich 1955, p. 244). La Germania nel suo insieme non è interessata ad assumere la leadership politica ed economica dell’Europa, il suo è un “mercantilismo provinciale”, come lo definisce Varoufakis (2013, p. 251), e in provincia spesso si vive bene. Questo è un fatto, ed è anche la tragedia europea.
5.3. La rottura dell’euro
Por termine al folle esperimento implica passaggi assai complessi (v. anche Levrero 2012). La premessa è che l’Unione Europea va salvaguardata e che, dunque, la rottura dovrebbe essere negoziata e pacifica. Questo complica quello che è, forse, il problema più complesso da risolvere. Scelte democraticamente prese e negoziazioni internazionali implicano processi politici assai lunghi e pubblici i quali, tuttavia, sono incompatibili con la stabilità finanziaria. Al primo vago accenno che forme di rottura dell’UME sono all’ordine del giorno politico si scatenerebbe infatti una enorme speculazione volta a spostare i capitali finanziari dai paesi con (futura) moneta debole verso quelli con (futura) moneta forte. Il che vorrebbe dire la fine immediata della moneta unica nel peggiore dei modi possibili. L’unica strada percorribile sarebbe di accordi presi un venerdì sera almeno da un consesso di paesi che contano, da ratificarsi nel week end nei parlamenti nazionali.
Banche e mercati sarebbero destinati a rimanere chiusi, tuttavia, anche per alcuni giorni successivi durante i quali verrebbero adottate misure volte ad assicurare una transizione dolce verso le monete nazionali. Gli accordi dovrebbero definire un quadro di risoluzione per i rapporti di debito-credito, ora denominati in euro, una volta effettuato il passaggio a monete nazionali. Ma come si fa ad assicurare la segretezza prima del citato vertice? Dato che questo è impossibile, è più realistico ritenere che a tale vertice si arrivi in seguito a un grave evento scatenante, come una crisi politico-finanziaria di prima grandezza in Italia o Spagna, tale da indurre alla chiusura dei mercati prima del vertice. Una volta sancita la rottura – che potrebbe sostanziarsi in un ritorno generalizzato alle monete nazionali, in un’uscita della Germania e dei suoi satelliti, o in una uscita di uno o più paesi periferici – i paesi che adottano una nuova moneta avrebbero il diritto (lex monetae) di rinominare tutti i titoli del debito pubblico e privato nella nuova moneta – a meno che il contratto sottostante non specifichi la rinuncia a tale prerogativa. Alcune forme di debito con l’estero, come quelle intrattenute attraverso la BCE con le altre banche centrali andrebbero rinegoziati. Tutti i pagamenti interni per via elettronica (che includono le carte di credito) –i soli possibili per alcuni giorni – verrebbero automaticamente rinominati nella nuova moneta, mentre in attesa della stampa delle nuove banconote, le banche rilascerebbero banconote in euro ma con una stampigliatura con scritto, ad esempio 10€ = 10 nuova-lira.
La prima decisione che il governo dovrebbe prendere riguarda la fissazione del nuovo tasso di cambio. Per l’Italia verrebbe da suggerire l’antica politica della stabilità del cambio verso il dollaro (in cui è quotato il petrolio) e di una flessibilità controllata verso il marco tedesco. Naturalmente una svalutazione dell’ordine del 20/30% verso il marco sarebbe fisiologica, ma rigidi controlli sui movimenti dei capitali dovrebbero contribuire a una successiva stabilizzazione del cambio. Il secondo indirizzo che il governo dovrebbe prendere riguarda la stabilizzazione dell’inflazione a livelli moderati lasciando sopratutto alla ripresa dell’occupazione il sostegno dei consumi. Tassi di interesse sufficientemente bassi e la ripresa della crescita dovrebbero consentire la stabilizzazione del rapporto debito pubblico/Pil e al contempo una moderata espansione fiscale. Non si passerebbe dunque al regno del bengodi, e il paese si ritroverebbe coi problemi di sempre, ma almeno non alla mercé di altri e con qualche speranza, se decide di coltivarsela.
6. Conclusioni
Scettici ci sentiamo dunque nei confronti di piani di investimento europei, quali quelli evocati dal piano della DGB, che si rivelano fragili sia dal punto di vista del finanziamento che degli obiettivi. Quando nei riguardi dei primi sentiamo invocare la “Tobin tax” (e in qualche misura anche la patrimoniale) ci viene in mente il classico coniglio nel cappello. Circa i secondi, il Piano Marshall americano si riprometteva di rimettere in marcia apparati industriali in buon parte pre-esistenti, mentre obiettivi come la riconversione ecologica appaiono begli ideali piuttosto che obiettivi fattivamente perseguibili in pochi mesi ripagandosi, per giunta, in pochi anni. Non è chiaro poi, nel disegno della DGB in che senso il suo piano condurrebbe all’attenuazione degli squilibri commerciali infra-europei. A meno che la DGB pensi – ma c’è da dubitarne –a un perenne sostegno da parte dei paesi centrali di forme di lavori pubblici nei paesi periferici (una classica forma di riciclaggio dei loro surplus commerciali a favore, da ultimo, delle loro esportazioni) o a vincoli di investimenti estero in loco per le imprese tedesche. Affidare la ricomposizione delle contraddizioni di quest’Europa a un mero piano Marshall ci appare dunque assai riduttivo. Il Piano Marshall, quello vero, fu infatti parte di quel meccanismo guidato dagli Stati Uniti di riciclaggio dei propri surplus globali illustrato da Varoufakis. Non sembra che i pur volenterosi sindacati tedeschi si pongano in tale prospettiva, né in quella di una riforma profonda della costituzione economica europea e di quella tedesca di cui sono parte organica.
Circa le altre due, la via Keynesiana è certamente desiderabile, mentre la rottura dell’euro – di per sé ancor più desiderabile - è quella più densa di incognite. Tuttavia, ambedue ci appaiono per ora non nell’ordine delle cose, a meno di un incidente di percorso – come una grave crisi politica in Italia che conducesse a una crisi di fiducia sul debito sovrano italiano - che portasse dritti al secondo esito (ma nelle peggiori condizioni). Alla prima prospettiva si contrappongono gli interessi del capitalismo tedesco interessato, peraltro, alla costituzione di un esercito industriale di riserva nella periferia europea. Al momento quella che Varoufakis definisce la kossovizzazione della periferia europea appare dunque come la prospettiva più probabile. La periferia diventerebbe un semi-protettorato europeo, con redditi nazionali crollati di decine di punti percentuali, terra di malavitosi e di emigrazione. Solo una forte ribellione sociale guidata con autorevolezza può evitare tale esito.