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inchiesta

Un libro di scritti di Minsky

Francesco Garibaldo

minsky-aÈ uscita, per i tipi della casa editrice Ediesse, l’edizione italiana di una raccolta di scritti editi e inediti di Hyman Philip Minsky (1919-1996) pubblicata l’anno scorso negli Stati Uniti a cura del “Levy Economic Institute of Bard College”. Gli scritti, che spaziano dal 1965 al 1994, riguardano la lotta alla povertà, i problemi dello Stato Sociale e come raggiungere la piena occupazione.

Il lettore, oltre agli scritti di Minsky, dispone di tre saggi introduttivi che arricchiscono in modo significativo il contenuto di conoscenza del volume. Il primo saggio è stato scritto per questa edizione italiana da Riccardo Bellofiore e Laura Pennacchi; il secondo, la vera e propria prefazione, e il terzo, l’introduzione, sono stati scritti per l’edizione originale, rispettivamente da Dimitri Papadimitriou, presidente dell’Istituto Levy, e da Randall Wray, senior scholar dell’Istituto, oltre che professore di economia. Il saggio di Bellofiore e Pennacchi vuole aiutare i lettori italiani a “un possibile utile uso di Minsky oggi in Italia”, per usare le loro stesse parole. Il saggio di Papadimitriou illustra il contenuto dei sette capitoli del libro mentre quello di Wray contestualizza il volume nel dibattito statunitense.

Bellofiore e Pennacchi oltre a riassumere l’ipotesi dell’instabilità finanziaria di Minsky, e la conseguente spiegazione endogena delle ricorrenti crisi capitalistiche, rispondono a una domanda cruciale se si vuole applicare la sua ipotesi al nuovo capitalismo degli anni ottanta. Mentre, infatti, l’ipotesi di Minsky illustrata nei suoi scritti degli anni settanta, si basa sull’indebitamento delle imprese non finanziarie, le crisi degli anni duemila sono state caratterizzate principalmente dall’indebitamento delle famiglie e delle imprese finanziarie. Essi quindi riformulano l’ipotesi a partire dagli scritti di Minsky degli anni ottanta. In quegli scritti, infatti, si trova <<una lettura del capitalismo come caratterizzata da stadi diversi, una sorta di teoria non meccanicistica delle “onde lunghe”>>[1]. Si possono identificare quattro stadi: il capitalismo commerciale, dal seicento all’ottocento, quello finanziario, sino agli anni trenta del novecento e alla seconda guerra mondiale, il capitalismo manageriale, sino alla crisi della metà degli anni settanta, e lo stadio odierno del capitalismo basato sui gestori finanziari, i cosiddetti money manager, da cui la definizione adottata da Minsky di money manager capitalism. Gli scritti di Minsky di questo volume si riferiscono al capitalismo manageriale, ad eccezione dell’ultimo che si misura con il nuovo capitalismo. I diversi stadi o cicli sono identificabili analizzando il rapporto tra commercio e industria, il costo di produzione di beni capitali, “il rapporto tra commercianti e manager d’impresa, da un  lato, e istituzioni finanziarie e operatori sul mercato finanziario, dall’altro[2]. La differenza tra il capitalismo manageriale e quello dei gestori finanziari è profonda.

Quello manageriale è un capitalismo uscito irrobustito dalla crisi del ventinove e dalla guerra; è il capitalismo del Big Government che opera anche in disavanzo per controllare il ciclo economico, e del Big Labour che crea un pavimento alle dinamiche salariali e interviene sulle condizioni di lavoro, e, infine, con una banca centrale, una Big Bank, che opera anche come prestatore di ultima istanza. In questo capitalismo le famiglie risparmiano molto investendo in titoli di Stato, c’è un rigoroso controllo dei movimenti di capitale e un sistema di welfare. Il sistema di welfare oltre a prestazioni dirette di beni e servizi, quindi senza trasferimenti monetari, vede crescere, proprio nella cosiddetta guerra alla povertà di Kennedy e Johnson, i trasferimenti monetari. La gran parte di questi saggi di Minsky ha a che fare con la critica di questa strategia dei trasferimenti monetari cui è contrapposta l’idea della piena occupazione come il vero antidoto alla povertà. Il problema, quindi, è delineare se e come si può costruire la piena occupazione ed evidenziare tutte le conseguenze negative, specificatamente economiche, di una politica prevalentemente di trasferimenti monetari. Minsky ricostruisce le ragioni interne – la concorrenza inter-capitalistica, l’emergere di una burocrazia improduttiva oltre che, come notano Bellofiore e Pennacchi, “il conflitto distributivo, le tensioni monetarie e valutarie, l’erosione che scuota dall’interno i controlli dei capitali[3] – della crisi di quella fase capitalistica.

Il capitalismo dei gestori finanziari, a differenza di quello manageriale, ha un interesse decrescente sia verso gli obiettivi specificatamente imprenditoriali, o interni, dell’impresa sia verso la distribuzione dei dividendi per favorire, invece, il valore delle azioni e dei beni capitali in genere. È un capitalismo con una finanza sempre più speculativa e globale, dominato da orizzonti di breve termine; un capitalismo sempre più instabile. Nel nuovo capitalismo le famiglie sono incluse nel mondo dei mercati finanziari ed è attraverso il loro indebitamento che si cerca di sostenere la domanda. Il saggio ci fa percorrere i nuovi sentieri della crisi e dell’instabilità finanziaria sostituendo al debito privato delle imprese quello delle famiglie, con la mediazione dei gestori finanziari dei fondi. Parallelamente, alle politiche monetarie che si focalizzavano sul tasso di interesse si sostituiscono le politiche che stimolano gli andamenti dei corsi di borsa per rinforzare il meccanismo di crescita basato sul debito; solo così infatti, in un regime di bassi salari, si può produrre una domanda autonoma dal reddito da lavoro, poiché alimentata dalla rivalutazione degli stock nati dal risparmio. Vi è quindi necessità di una politica monetaria molto attiva. È quello che è stato definito un “keynesismo privatizzato” che per funzionare richiede a valle una trasformazione della struttura dell’impresa, della sua governance, delle forme della concorrenza tra le imprese e dei criteri di regolazione sociale del lavoro. Come ho avuto modo anche io di sostenere, assieme a Bellofiore, la crisi iniziata nel 2007 non è da sottoconsumo ma da sovrapproduzione; è per questa via, infatti, che si produce “l’esuberanza” degli investimenti fatti per sottrarre il mercato alle imprese competitrici e alla fine “scoppiano le bolle”, sviluppando una crisi da debito con tutti gli effetti noti.

Bellofiore e Pennacchi ricordano, poi, la critica di Minsky al keynesismo realizzato negli USA, che si tradusse in un sostegno generico, quando non militare o dello spreco, alla domanda, da un lato e trasferimenti monetari alle famiglie per combattere la disoccupazione, dall’altro. Tutta l’elaborazione di Minsky in questo volume è, infatti, basata sull’idea che “il sistema capitalistico rivela pecche radicali e mortali[4], tra le quali “l’incapacità di mantenere una stretta connessione col pieno impiego per periodi di tempo prolungati[5] e il fatto che “le condizioni che conducono alle crisi finanziarie sono generate endogenamente[6], e quindi “può essere “salvato” solo se si interviene attivamente e con decisione sui processi di mercato e sulla stessa composizione del prodotto, oltre che sul suo livello[7]. L’unica strada per Minsky è quella della realizzazione di quella situazione che lui definisce di pieno impiego stretto (il 2,5%); realizzazione che, non potendosi concretizzare in un capitalismo lasciato a sé stesso, richiede un intervento forte dello Stato nel ruolo di creatore di occupazione di ultima istanza. Non si tratta di un’occupazione generica come quella che potrebbe essere data da un programma non qualificato di opere pubbliche, ma di un’occupazione legata a programmi mirati che si misurino sia con orizzonti temporali brevi e medi che lunghi, quindi con obiettivi strategici. Né si tratta di sviluppare attività produttive che prescindono dalle competenze disponibili nella società come effettivamente è; è quindi rifiutata alla radice tutta la teorizzazione sull’occupabilitàcome responsabilità del lavoratore. Al contrario l’occupazione va creata dalle competenze esistenti, il che significa investire anche in settori meno dinamici, non necessariamente high tech e/o al limite superiore della capacità di generare alti profitti. Il problema è quindi, come si sosteneva negli anni settanta, per chi, per cosa e come produrre.

Minsky, come ricorda Randall Wray, ha una valutazione critica della strategia di crescita attraverso l’investimento privato, sin dall’inizio degli anni settanta, per i suoi possibili effetti macro-economici; essa, infatti, può portare a un “boom finanziato con il debito e quindi determinare l’instabilità del sistema finanziario[8]”; lui pensava all’indebitamento delle imprese private ma, come prima ricordato il ragionamento può essere riformulato per il nuovo capitalismo. Oltre agli effetti macro vi sono conseguenze sociali significative quali l’esasperazione delle diseguaglianze tra i lavoratori e i redditi ad alto capitale di chi investe. Inoltre dato che “ i redditi ad alto capitale avrebbero portato al consumo opulento dei ricchi e al consumo emulativo da parte dei meno abbienti creando il potenziale di un’inflazione spinta dalla domanda[9]. Il rischio inflattivo era specifico degli anni settanta quando i salari potevano crescere almeno nominalmente, dato che oggi il consumismo è a debito e quindi gli effetti sono quelli che vediamo in questo inizio del 2015; l’inseguimento tra consumo opulento e consumo emulativo rimane, invece, alla base del tentativo di sostenere la domanda. Infine, se si investe sull’high tech si selezionano specifiche competenze lavorative ampliando la diseguaglianza tra i salariati.

Tutto ciò pone non soltanto dei compiti diversi alle politiche economiche e industriali ma anche all’analisi economica. Minsky sostiene che:

“sarà necessario che l’analisi economica ampli i suoi confini di bisogni umani e di beni (diventi marshalliana), approfondisca la sua comprensione della distribuzione del reddito e della crescita in modo da integrare determinanti sociali e tecniche (diventi marxista), ed estenda la visione dei possibili modi di operare dell’economia capitalistica comprendendo le limitazioni della politica economica (diventi keynesiana).”[10]

Da questo programma Minsky ricava precise indicazioni che dopo quarant’anni sono di estrema attualità. In primo luogo che il PIL non è un indice di benessere ignorando che, ad esempio, le spese militari fanno parte del PIL ma non contribuiscono al benessere sociale, mentre lo fanno i beni pubblici. Si sopravvaluta, dice Minsky, “il consumo privato e si sminuisce il valore del consumo di beni pubblici. I costi e i benefici di organizzazioni sociali alternative non sono esaminati”.[11]

In secondo luogo che “ad un livello inferiore al pieno impiego, investimento e consumo sono complementari; al pieno impiego, investimento e consumo sono alternativi.”[12] Vi è quindi sempre un problema di priorità che non sono predefinite da alcun automatismo o funzione economica e, se si combinano crescita della domanda di consumo e dell’investimento privati, ciò comporta “una riduzione delle risorse reali destinate alla fornitura di beni di consumo pubblico[13] . I beni pubblici contribuiscono in modo molto significativo al tenore di vita e alla qualità della vita – ad esempio con il servizio sanitario pubblico – dei percettori di redditi medi e bassi; il valore di questi beni, a differenza dei trasferimenti monetari o di una crescita puramente nominale dei redditi – in una situazione di inseguimento inflazionistico dei redditi -, è intrinsecamente non inflazionistico. L’investimento pubblico, infine, è sicuramente produttivo, anche se “una passeggiata sicura in un parco non è inclusa nel PIL, a differenza di un programma televisivo”.[14]

Infine, il surplus della ricchezza sociale prodotta è una proprietà privata delle imprese? Oppure, dato che “il sistema finanziario è anche lo strumento attraverso il quale le imprese private si appropriano del surplus sociale[15], ne consegue, nell’idea di come bisognerebbe riformare il capitalismo, secondo Minsky, che

i manager delle grosse società di capitali sono essenzialmente servitori pubblici e i detentori di un’ampia parte della ricchezza accumulata sono essenzialmente amministratori fiduciari pubblici. La gestione civile e l’uso sociale delle aggregazioni di capitale devono diventare la spinta fondamentale della riforma”.[16]

Ecco quindi le basi della sua riflessione, che tuttavia non fa parte degli scritti di questo volume, sulla socializzazione degli investimenti. Essa è l’unica strada che consenta di mantenere uno stato di piena occupazione stretta, senza generare tensioni e instabilità attraverso la realizzazione di:

Un’economia dove i settori guida sono socializzati, dove i consumi collettivi soddisfano una grossa quota di bisogni privati, dove la tassazione dei redditi e della ricchezza tende a ridurre le disparità economiche, dove esistono leggi che limitano la possibilità di speculare sulla struttura delle passività”. [17]

Nel considerare queste indicazioni di Minsky è bene ricordare il ruolo da lui assegnato alla discussione pubblica e democratica:

Per essere precisi, la preoccupazione principale dei politici, a corte, è l’avere accesso alla mente del principe. E, se l’economia è troppo importante per lasciarla agli economisti, è certamente troppo importante per lasciarla agli economisti-cortigiani. I temi economici devono divenire un serio argomento pubblico, e tema di discussione se debbano essere prese nuove direzioni. Riforme significative non possono essere realizzate da un’élite di consiglieri e amministratori che è essa stessa l’architetto della situazione esistente. A meno che l’opinione pubblica non comprenda la ragione del cambiamento, essa non accetterà il suo costo; la conoscenza è il fondamento della legittimità per una riforma.”[18]

 


[1] Bellofiore, R.; Pennacchi, L. – Crisi capitalistica, socializzazione degli investimenti e lotta all’impoverimento – introduzione all’edizione italiana di Minsky, H., P. – Combattere la povertà. Lavoro non assistenza. Ediesse, Roma,2014, p. 21

[2] Ibidem, p. 21-22

[3] Ibidem, p. 23

[4] Ibidem, p. 25

[5] Minsky, Pieno impiego e crescita economica come obiettivi di politica economica. Alcune riflessioni sui limiti del capitalismo(1944), capitolo settimo di Minsky, H., P. – Combattere la povertà. Lavoro non assistenza. Ediesse,  Roma,2014, p. 245

[6] Ibidem, p. 251,

[7] Bellofiore, R.; Pennacchi, L. – Crisi capitalistica, socializzazione degli investimenti e lotta all’impoverimento, op. cit., p.25.

[8] Randall Wray, L. – Introduzione all’edizione originale, in Minsky, H., P. – Combattere la povertà. Lavoro non assistenza. Ediesse, Roma,2014, p. 61

[9] Ibidem, p. 61

[10] Minsky –Dove hanno sbagliato l’economia americana e gli economisti (1972), capitolo quinto di Minsky, H., P. – Combattere la povertà. Lavoro non assistenza. Ediesse, Roma,2014, p. 185

[11] Ibidem, p. 186

[12] Ibidem, p. 189

[13] Ibidem, p. 189

[14] Ibidem, p. 193

[15] Ibidem, p. 198

[16] Ibidem, p. 198

[17] Minsky, H., P. (1975)– Keynes e l’instabilità del capitalismo – Bollati Boringhieri, 2009, p. 216

[18] Minsky, H., P. (1986)– Stabilizing an unstable economy –McGraw-Hill, 2008, p. 321

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