Print Friendly, PDF & Email

Massimo Recalcati, L'uomo senza inconscio

Eleonora de Conciliis

paul delvaux pygmalion1. Non è esagerato affermare che, con questo suo nuovo libro*, Massimo Recalcati (che abbiamo già avuto l’onore di ospitare nel settimo numero e poi nel terzo annuario della rivista Kainos dedicato al tema Fame/sazietà) tenti di formulare un’interpretazione complessiva, e filosoficamente assai interessante, del cosiddetto postmoderno o dell’ipermodernità – com’egli preferisce definire il nostro presente per indicarne il carattere convulso, “smarrito” e compulsivo verso il godimento d’oggetto. Si tratta di un testo in cui il riferimento, magistralmente esposto, alla pratica clinica, costituisce il pungolo imprescindibile e non solo il pretesto per un ripensamento radicale della teoria freudiana delle pulsioni e di quella lacaniana dell’inconscio come linguaggio e luogo del desiderio dell’Altro: lasciandosi inquietare dall’emergenza di inedite forme di disagio (non solo quelle che cura ormai da decenni, ovvero la bulimia e l’anoressia, ma anche altre sempre più epidemiche, come gli attacchi di panico, la depressione e gli stati-limite), ovvero dai nuovi sintomi psicotici che la società contemporanea produce in individui ormai disancorati – in termini lacaniani – da qualunque struttura significante in grado di tenere insieme Legge e desiderio, l’autore cerca di capire cosa stia diventando la psicoanalisi nell’epoca dell’evaporazione del Padre e nel vuoto lasciato dalla mancata soggettivazione compiuta in suo Nome (su ciò cfr. pp. 36 e sg.).

Nel deserto clinico di una nuova incapacità di accesso al simbolico, Recalcati disegna con preoccupazione uno scenario pulsionale che potremmo definire post-lacaniano e post-freudiano, ma non rinuncia ad utilizzare tutti gli spunti e le intuizioni che Lacan (egli stesso, in un certo senso, ‘padre ipnotico’ per i suoi allievi, cfr. p. 311) gli offre per descrivere il suo aldilà socio-politico (ad esempio incardinando la deriva psicotica del presente a ciò che Lacan chiamava “discorso del capitalista”, cfr. pp. 27-52), e soprattutto continua ad attribuire a Freud il merito di aver toccato, con la pulsione di morte, il nervo scoperto della civilizzazione (Kultur), il non-senso, per non dire l’ottusa béance da cui emerge ed a cui tende la fragile psichicità umana nel suo carattere oscuramente egoico e perciò anti-relazionale ed anti-erotico.

Dal punto di vista teorico, il libro oscilla tra, da un lato, una ferma volontà di conservare l’impianto concettuale freudo-lacaniano, e con esso lo stile terapeutico (nonchè etico-politico) della talking-cure analitica, oggi massicciamente insidiata non solo dall’abuso di psicofarmaci ma anche da terapie, prima fra tutte quella cognitivo-comportamentale, più veloci e concorrenziali perchè più rispondenti alle esigenze prestazionali della società ipermoderna, e dall’altro lato la necessità di adattare la psicoanalisi a forme di de-soggettivazione che minano alla base i due pilastri fondamentali della teoria: il desiderio e l’inconscio. Il titolo del volume di Recalcati indica infatti coraggiosamente, e senz’alcun paludamento ‘di scuola’, qual è la posta in gioco per coloro che, pur rimanendo fedeli a Freud e Lacan, non sono resi ciechi da questa fedeltà ma vedono con chiarezza il rischio di supefluità epocale corso oggi dalla psicoanalisi: se la società contemporanea, soffocando l’individuo nei gadget (realizzando cioè una gadgettizzazione della vita e con essa una regressione cinico-narcististica della soggettività: cfr. l’ironica epigrafe lacaniana e pp. 33 e sg.), fa il vuoto intorno al processo di soggettivazione ‘classico’, basato sull’articolazione dei tre registri (simbolico, immaginario e reale) e mostra l’obsolescenza della clinica della nevrosi (ancora borghesemente legata alla rimozione del desiderio imposto dalla Legge del Padre), se soprattutto viene meno la domanda di cura come domanda di sapere e/o di senso sulla propria sofferenza, allora la psicoanalisi sembra perdere il territorio su cui esercitare il proprio residuo potere della parola, la propria residua presa sulla realtà, trovandosi di fronte allo svaporamento socio-culturale, più che del Padre edipico, delle due irrinunciabili invenzioni teoriche su cui Freud ha costruito l’intera economia dell’apparato psichico: 1) il desiderio, inteso non tanto come energia pulsionale inconscia (rivalutata da Deleuze nel ’68 in chiave anti-freudiana) quanto come singolarità irriducibilmente differenziata capace di innescare la soggettivazione rispetto all’Altro, e 2) l’inconscio, inteso non tanto come “strapotere dell’Es”, magma o serbatoio pulsionale, quanto piuttosto come risultato del meccanismo di rimozione e a sua volta luogo del desiderio dell’Altro, in una soggettivazione linguisticamente strutturata. L’uomo senza inconscio, la nuova figura ipermoderna che emerge dal difficile trattamento di anoressie, bulimie, attacchi di panico, depressioni, stati borderline e “identificazioni solide” a massa (cioè conformismo gregario tipico di quello che Recalcati giustamente definisce “totalitarismo postideologico”: il nostro attuale totalitarismo soft), è la figura di un individuo – non di un soggetto – che non ha più alcun interesse alla cura analitica (definita non a caso da un paziente dell’autore “aria fritta”, cfr. p. 146) come lento processo di auto-esplorazione (secondo il motto freudiano Wo Es war, soll Ich werden), un individuo che non rivolge all’Altro nessuna domanda di senso sulla propria sofferenza, ma, come acutamente rileva lo stesso Recalcati, satura proprio col sintomo psicotico la mancanza di articolazione linguistica della domanda, il cronico e mortifero senso di vuoto che traduce l’assenza di un processo di soggettivazione, dunque l’inesistenza, o meglio la nuova insensatezza del desiderio inconscio. Questo individuo, a giudizio di chi scrive fondamentalmente stupido, è il protagonista di quelle che la Kestemberg chiama ‘psicosi fredde’ (cfr. E. Kestemberg, La psychose froide, Paris 2001), nelle quali cioè non vi è un dispendioso e temerario delirio che (come accadeva al Presidente Schreber) isola dalla realtà sociale, ma un comportamento coattivo che aderisce perfettamente all’imperativo ottuso di godimento che questa realtà impone: il comando ‘Godi!’ (su ciò cfr. anche l’altro lacaniano, innominato da Recalcati ma a mio avviso spettralmente presente nel suo discorso: S. Žižek, Il godimento come fattore politico, Milano 2000) innerva sia la condotta mortale dell’anoressico-bulimica, sia la sex addiction del borderline, sia la dipendenza euforica del cocainomane, sia, infine, la strategia furbesca del leader che non incarna più il Padre, nemmeno nella sua caricaturale e paranoica versione totalitaria (Hitler e Stalin), ma rispecchia ormai senza residui la stessa ottusità e inconsistenza psichica dell’elettore-consumatore.

Il riguardo etico per il paziente, la deontologia del clinico, la comprensibile preoccupazione di dover realizzare una politica sociale dell’analisi in grado di frenare l’emorragia dell’utenza che fugge (stupidamente, appunto) verso forme di terapia usa-e-getta – cioè verso una gadgettizzazione della cura di cui il sociologo Alessandro Dal Lago ha di recente fotograto lo scimmiottamento filosofico nella moda del counseling: cfr. A. Dal Lago, Il business del pensiero, Roma 2007 – impediscono forse a Recalcati di sferrare fino in fondo il suo attacco critico alla società ipermoderna, traendo tutte le conseguenze implicite nella sua lucidissima diagnosi relativa allo svaporamento dell’inconscio desiderante; prelevando alcune tracce da un testo che appare malinconicamente legato al desiderio di “difendere il soggetto dell’inconscio” (cfr. 275), proverò quindi in queste pagine a porre allo stesso Recalcati alcune questioni teoriche e politiche che il libro suscita ma lascia inevase, se è vero che una recensione non ha solo il compito di invitare alla lettura (cosa che raccomandiamo soprattutto in virtù dello straordinario background speculativo adoperato dall’autore), ma anche lo scopo di dialogare a distanza con chi, scrivendo, obbliga il lettore a ragionare su ciò che vive, svegliandolo kantianamente da ogni sonno dogmatico, e benjaminianamente da ogni spettacolo onirico o fantasmagoria della merce.

2. Nell’Introduzione, Recalcati riconosce con Lacan lo statuto non ontologico e non garantito dell’inconscio (cfr. p. IX), ma per attribuirgli, sempre con Lacan, uno statuto “etico” e non per consegnarlo alla sua radicale consistenza storica, restituendo così quest’invenzione teorica di Freud alla sua genealogia processuale, ovvero legando l’inconscio esclusivamente alla civiltà occidentale come suo prodotto specifico, e per di più caratteristico di una specifica classe sociale, la borghesia – l’unica in grado di ripiegarsi su di sè per formulare allo psicoanalista, che in termini nietzscheano-foucaultiani rappresenta una moderna figura pastorale, la domanda di sapere sulla propria sofferenza psichica. Nel constatare con allarme una possibile “estinzione del soggetto dell’inconscio” (ibidem), dunque dello psiconanalista come Altro sacerdotale, destinatario di tale soggetto nel medio del setting, che sempre in termini foucaultiani rappresenta una variante della confessione cristiana (per tutto ciò cfr. M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità I, Feltrinelli, Milano 1993), Recalcati ipotizza che tale estinzione possa essere solo un’eclissi temporanea, e non il risultato inevitabile dello stesso processo genealogico che ha visto la comparsa del soggetto dell’analisi, proprio grazie al partage conscio/inconscio (non dissimile dal partage cartesiano ragione/follia istituito dalla filosofia moderna come pratica paranoica di separazione dall’Altro). Se l’inconscio, pur essendo parte di una struttura significante, non è l’Essere, esso non esiste al di qua o al di sotto della sua produzione economico-linguistica, ma si configura soltanto come contenuto rimosso, luogo metaforico o risposta ad un’interrogazione di senso relativa ad un ben determinato periodo storico e ad una ben determinata organizzazione psico-sociale: il capitalismo moderno, così com’è stato descritto da Marx, Weber e ovviamente dal Freud del Disagio della civiltà. In questa ottica, anche i tre registri lacaniani non sono affatto eterni, ma rispondono ad un preciso funzionamento psichico, che attribuiva la sovranità disciplinare sull’individuo al simbolico e al linguaggio – in una parola, alla cultura – in cui rendeva possibile articolare la domanda-offerta di senso. Con il tramonto del pastorato psicoanalitico, l’“individualismo atomizzato” (p. XI), compulsivo e cinico-narcisistico della società ipermoderna, che rende vetusto o addirittura liquida il meccanismo della rimozione (oggi nessuno sembra rimuovere più nulla: l’ipervisibilità mediatica coincide con l’assenza di qualunque censura psichica), mostra con inequivocabile chiarezza la superfluità di un livello inconscio da indicare come terminus ad quem al di sotto della volatilizzazione dell’esperienza e dell’accelerazione maniacale del tempo (cfr. p. XII), caratteristiche della nuova clinica della psicosi e dell’anti-amore (cfr. XIII). In questa clinica completamente desertificata e priva di identità soggettive ‘forti’, con cui Recalcati fa i conti nella sua pratica terapeutica soprattutto attraverso l’enorme difficoltà di stabilire il transfert (cfr. pp. 285 e sg.), l’inconscio non svolge più alcuna funzione “sovversiva”, ma soltanto una mortifera, direi ironica funzione “dissipativa” (cfr. su ciò pp. 292-94): il già diagnosticato indebolimento patologico del vecchio soggetto borghese lascia il posto a individualità apatiche (molto peggio che depresse), non più animate dal presunto “indistruttibile” (p. 5) desiderio nevrotico, ma dominate da nuove forme di psicosi più o meno compatibili con la struttura sociale del turbo-capitalismo; sono queste individualità, che oscillano tra la liquida “sregolatezza pulsionale” del borderline (agito coattivamente da un “Es senza inconscio”, p. XV) e la s(t)olida “iperidentificazione conformistica” o “normotetica” del nuovo gregge plasmato da un altro grande pastorato, quello mediatico (formato da tanti piccoli “Io senza inconscio”, ibidem), ad essere le nuove, inconsapevoli vittime della pulsione di morte. L’unico, letterale in-conscio che questi individui mostrano di possedere è quello dell’ignoranza su di sè e sulle cause remote della sofferenza che infliggono, oltre che a se stessi, a coloro che li circondano.

È per questo che, nelle pagine di Recalcati, il fantasma di Freud ritorna più attuale che mai ad illuminare il fondo oscuro e melmoso della storia: laddove la merce ha colonizzato il desiderio, demitizzandolo con la sua iper-realtà e trasformandolo in squallido, ripetitivo godimento d’oggetto (col quale va indicato non solo il partner non-umano asessuato, sia esso droga o computer, ma anche il partner umano serializzato, ridotto a catena metonimica di un significante inesistente), laddove l’impoverimento del linguaggio ha ridicolizzato ma non abolito la forma vuota dell’istanza edipica (che Recalcati giustamente stigmatizza come “rigurgito” dei vari fondamentalismi teo-con), laddove la scelta anoressico-bulimica alza di fronte all’Altro il muro osceno del corpo magro (icona cadaverica del presente), l’opacità del Todestrieb sembra essere l’unica risposta terribilmente ironica, benchè olofrastica e monadica, che questi individui-mai-stati-soggetti ripetono all’infinito all’indirizzo dello psicoanalista, il quale però cerca con tutti i mezzi linguistici a sua disposizione di arginare il “collasso del simbolico” (p. 16), di riavviare la soggettivazione e di rimettere in moto il processo o la costruzione di un apparato psichico sufficientemente ‘sensato’, non più attraverso la vecchia “ortopedia disciplinare dell’Io” (cfr. XVI), ma almeno grazie alla “testimonianza” di un Altro che funga da interlocutore etico del paziente (su ciò cfr. le vibranti pagine 42-44).

Ora, la questione è la seguente: siamo sicuri che sia possibile opporre, a questa deriva storicaepsicotica della soggettivazione che lo stesso Recalcati definisce “mutazione antropologica” (p. 6), una batteria concettuale etico-terapeutica plasmata in un’epoca di grande vigore psichico del soggetto, quando cioè la nevrosi costituiva ancora un ragionevole prezzo libidico pagato alla società civile, e questa, ancora lungi dal configurarsi come un ipermercato subculturale delle pseudo-identità, offriva a coloro che effettuavano il sacrificio pulsionale (=la sublimazione) dei potenti e affascinanti percorsi di soggettivazione politici, culturali, esistenziali, ecc.? Il carattere sempre più marcusianamente desublimato e bionianamente infra-temporale (cfr. pp. 7-9) dell’individuo contemporaneo, dell’afasico uomo senza inconscio e quindi senza pensiero, non impone forse di ri-disegnarne l’apparato psichico con categorie più povere, dunque più adeguate alla miseria della realtà? Ad esempio, l’espressione “clinica del vuoto” (cfr. pp. 11 e sg e M. Recalcati, Clinica del vuoto: anoressie, dipendenze e psicosi, Milano 2002), con cui Recalcati ha così efficacemente etichettato la propria recente pratica analitica, insistendo sulla presenza, nei pazienti, dei gesti complementari ed elementari (infantilmente narcisistici) dell’odio e della difesa, presuppone che ci sia ancora una domanda di cura indirizzabile verso il sapere e non verso il consumo di farmaci, cioè verso la guarigione immediata come semplice scomparsa del disturbo, e soprattutto che tale domanda sia recepita da una clinica dell’ascolto e non del profitto. Recalcati in altre parole non sembra ipotizzare che la mutazione antropologica, proprio in quanto frutto di una “metamorfosi sociale” (p. 12) possa investire alla lunga anche il terapeuta, oltre che il paziente. Allo stesso modo il fondo psicotico dei nuovi sintomi, proprio in quanto ‘fondo’ microfisico e non forma conclamata, macrofenomeno, non è affatto relegato o ristretto ad una minoranza malata, ma tende ad investire epidemicamente l’intera società e quindi a penetrare in maniera subdola in tutti i settori della medesima: politica, cultura, sapere accademico, ecc.

Il mutismo compiaciuto dei pazienti postmoderni (non solo la falsa euforia delle anoressiche e dei borderline, ma anche la triste “alopecia della parola” nascosta nella somatizzazione – su cui cfr. le belle pp. 263-273 –, la desolazione dei depressi e l’angoscia di coloro che vengono presi dal panico) sembra fare segno verso un irreversibile sprofondamento del simbolico, e con esso della stessa traducibilità della sofferenza psichica in un linguaggio condiviso e condivisibile, un linguaggio duale oltre che plurale, cioè affettivamente oltre che politicamente strutturato. La paura di godere e di soffrire dell’altro e con l’altro (l’altro reale, non il filtro significante del desiderio dell’Altro) isola questi individui in un godimento tanto solipsistico quanto mortifero, ma soprattutto li espone ad una nuova forma di fragilità psichica ormai ben visibile negli adolescenti (chi scrive insegna da tredici anni), che tende a lambire con sempre maggiore pervasività anche il mondo degli adulti, in conseguenza della precarizzazione e della ‘liquidità’ descritte da Zygmunt Bauman: l’esperienza del legame (non dell’amore, che lacanianamente resta un ideale inautentico e una sorta di narcisismo mascherato: su ciò cfr. il famoso Seminario VII) è vissuta come un’esperienza di soffocamento e di limitazione della libertà personale (libertà, si diceva, di godimento compulsivo dell’oggetto serializzato in catena metonimica), al punto che ogni forma di temporalizzazione che ecceda il consumo immediato dell’altro – in termini kierkergaardiani: ogni scelta – si rovescia per l’individuo in una fonte di frustrazione e di insoddisfazione. Non si comprende come, in tale situazione, l’analista possa far risorgere nell’individuo la potenza soggettivante del senso, più che del desiderio, come possa inoculargli in forma dolcemente terapeutica (e non processuale, pedagogica, politica) la forza necessaria ad esistere autonomamente come essere finito e mortale, senza porsi sotto l’ombrello di un qualunque pastorato, cristallizzandosi nella comoda nicchia di una identificazione gregaria.

3. Il problema della crisi, o meglio della estenuazione postmoderna del processo di soggettivazione come indebolimento-inebetimento epocale dell’umano, non è, a giudizio di chi scrive, un problema terapeutico, etico-psicoanalitico, traducibile in termini di eclissi del desiderio ed estinzione dell’inconscio, ma un problema socio-politico che investe, in termini foucaultiani, l’esercizio del potere-sapere in forme pastorali inedite e mediocrizzate. L’opportuno riferimento di Recalcati alla biopolitica (in particolare ai corsi foucaultiani al Collège de France nei quali la difesa ossessiva della vita – cioè il paradigma di immunizzazione teorizzato di recente anche da R. Esposito – viene indicata come virus d’appoggio della pulsione di morte) dev’essere dunque orientato verso una comprensione del lato ottusamente irredimibile della ‘popolazione’, ossia della massa di individui che, proprio in quanto individualmente socializzati, godono nel non soggettivarsi, rivolgendo una mediocre domanda di cura ad un’élite medica che finisce col colludere con la loro stessa fragilità psichica. In altre, più nietzscheane parole, la psicoanalisi, coi suoi tempi lunghi e con la sua dura, virile insistenza sull’impossibilità di una guarigione, appartiene ad una dimensione ancora aristocraticamente borghese della soggettivazione moderna, laddove il post- o ipermoderno sembra aver inaugurato una dimensione grottescamente ebete e volgare del godimento d’oggetto: il conservatore Lacan e l’intellettuale Adorno (come ricorda l’autore, fu lui ad intuire, in Minima moralia, l’idiozia della “monade di godimento”: cfr. pp. 200-201) concordavano nel considerare terribilmente kitsch il volto ‘popolare’ assunto dal capitalismo dopo la seconda guerra mondiale e il boom economico. Ecco perchè allo psicoanalista non resta che deplorare, con un certo moralismo, “l’ideologia ipermoderna del benessere” (cfr. pp. 53 e sg.); egli non può che registrare l’incapacità, da parte dell’individuo ipermoderno, di dare “valore alla parola” (cfr. pp. 146 e sg.), cioè di assumere responsabilmente e criticamente (intelligentemente) la propria differenza singolare – il proprio desiderio di esistere come unico, der Einzelne –, ripiegando su sintomi psicotici socialmente governabili ed economicamente profittevoli (si pensi ai giganteschi guadagni dell’industra farmaceutica grazie all’abuso dei medicinali prescritti e consumati come gadget psichici). Questa incapacità sempre più diffusa di storicizzare se stessi – i propri legami, la propria sessualità, ecc. –, cioè di gestire il tempo, non è politicamente neutra, ma funzionale ad un’organizzazione infantile ed infantilizzante della società, in cui persino la pulsione di morte entra, ad esempio come spettacolo, nel meccanismo inanalizzabile del godimento.

In una simile situazione psicotica di insufficienza mentale (“debilità” la chiamava Lacan coniando il concetto di “olofrase”, cfr. cit. a p. 150) degli (im)pazienti, bisognerebbe forse smettere di mitizzare le possibilità resistenziali del desiderio e di avere per loro quella vecchia, amorevole preoccupazione del supposto-sapere, che porta appunto narcisisticamente a supporre un soggetto nascosto, e in attesa, nel vuoto linguistico del sintomo; l’impossibilità, da parte di questi individui naiv o new age (cfr. p. 322), di rimanere soggettivamente fedeli al proprio desiderio, deriva dal fatto che non c’è più in essi alcun desiderio. Si tratta di ‘persone’ che non hanno in sè alcuna soggettivazione virtuale, ma soltanto la superficiale, falsa, vile ed edonistica stupidità della maschera (su ciò cfr. le splendide pagine 177-191). Non è dunque condivisibile l’ottimismo di Recalcati sulla possibilità etica di “produrre il soggetto”, di “ricostruire un soggetto dell’inconscio” (cfr. nota 26 a pp. 216-217) là dove non c’è mai stato: se il desiderio è stato, come del resto l’inconscio, un prodotto culturale della modernità e un correlato linguistico dell’analisi, non si vede come possa ri-prodursi in condizioni storiche di afasia psichica. Forse l’unico compito proponibile non è etico-terapeutico, cioè ripiegato sul passato, o su chi appare già devastato dalla stupidità del postmoderno, ma pedagogico-politico, cioè rivolto ad un futuro costruibile: invece di vagheggiare una nuova “alleanza del soggetto con il proprio desiderio” (p. 234), quasi rimpiangendo la vecchia clinica della nevrosi, bisognerebbe piuttosto assumere fino in fondo il carattere sacerdotale della psicoanalisi e quello altrettanto pastorale dell’iper-consumo. Se la pulsione di morte sembra aver colonizzato l’Occidente come finale ironico, nichilistico della soggettivazione, come versione grottesca e oscena della mortalità che ha sostitutio la versione paranoico-delirante prodotta dai totalitarismi, non resta che lavorare con il linguaggio per produrre, a lungo termine, una nuova cultura e, grazie ad essa, individui non più assoggettati e castrati, cioè totalmente svincolati del vecchio binomio Legge-desiderio: forse al di là del pastorato non c’è il desiderio, o l’inconscio, o il Nome del Padre, e neppure la foucaultiana cura di sè (versione comunque aristocratica del soggetto), ma qualcuno che, parlando e morendo in un reale depurato da ogni ottusa tirannide d’oggetto (la Cosa-madre ovvero, per chi scrive, il mostro teorico del lacanismo), saprà fare a meno di tutti questi (ancora troppo umani perchè troppo maschili) fantasmi dell’Altro.

*Massimo Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica piscoanalitica, Raffello Cortina Editore, Milano 2010, pp. 336, euro 26,00, ISBN: 978-886030-302-8

Add comment

Submit