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Tra ideologie e finzioni

Franca D'Agostini

<La logica di ciò che non esiste . Incontro con il filosofo Graham Priest, che ha inaugurato il «dialeteismo», ossia la prospettiva logica in base alla quale esistono contraddizioni che non comportano il collasso della razionalità. In questa pagina considera le ricadute politiche della sua teoria nella prospettiva di Marx e Engels: solo il pensare in termini di contraddizioni, porta a progettare azioni politiche efficaci

Da parecchio tempo la politica è orfana della grande teoria. Secondo alcuni è una buona cosa. Fine delle ideologie, inizio di qualcosa di nuovo: forse inizio dell'impolitico, o della politica pura, pragmatizzata, di puro provvedimento. O anche: inizio di movimenti spontanei, senza avanguardie intellettuali e senza leadership, come le rivolte nordafricane o gli indignados spagnoli. Secondo altri invece «con le ideologie abbiamo perso anche le idee», ovvero: «abbiamo perso la capacità di ragionare in grande», come ha detto di recente Gustavo Zagrebelsky. In realtà non è lontano il tempo in cui proprio il grande pensiero era sotto accusa, in quanto grand récit (per il postmodernismo militante) o in quanto generatore di società chiuse (per Karl Popper). Però è abbastanza facile vedere che la perdita del disegno complessivo ha portato la prassi, orfana della teoria, a smarrirsi nelle secche della politica personalizzata e consumistica: una trappola in cui, come sappiamo, è caduta anche la sinistra.

 

Questa seconda linea di ragionamento è condivisa da tutti coloro che, fedeli a un'idea di sinistra filosoficamente agguerrita, oggi ricorrono a Slavoj Zizek, o a Giorgio Agamben, o ad altri maîtres à penser, per illuminare un panorama politico intellettualmente desolante, o dare una «linea» alle rivolte spontanee. Ma naturalmente non sono questi eredi dell'ultimo marxismo europeo a colmare una lacuna che è strutturale, e probabilmente proviene da qualcosa di più profondo di un mero avvicendamento di figure intellettuali. In questa prospettiva è particolarmente interessante (e direi importante) tenere conto di che cosa ne è stato dell'idea di una logica della politica, che governava il «pensare in grande» di Marx, e dei suoi continuatori, e che era apertamente e dichiaratamente una logica della contraddizione. Proprio a questo tema era dedicato il convegno internazionale su «Contraddizioni: logica, storia, realtà» che si è tenuto la settimana scorsa alla Technische Universität di Berlino, organizzato dall'Innovationszentrum Wissensforschung di Günter Abel, e in cui sono intervenuti, tra gli altri, Wolfgang Welsch, Angelica Nuzzo, JC Beall, Robert Pippin, Achille Varzi, Gianni Vattimo, e il filosofo che meglio incarna oggi l'idea di una logica della contraddizione: Graham Priest.

Nato in Inghilterra, Priest ha insegnato a lungo in Australia, e oggi insegna alla City University di New York e a St. Andrews, in Scozia. È uno degli autori che negli anni '70 miravano a un aggiornamento della dialettica hegeliana (e marxista), che tenesse conto dei risultati della logica moderna. Insieme all'australiano Richard Routley, suo amico e maestro, ha lanciato il dialeteismo, ossia la prospettiva logica e filosofica in base alla quale esistono contraddizioni, ossia di-aletheie, doppie verità (in pratica enunciati veri, ma anche falsi): e queste contraddizioni sono logicamente accettabili, ossia non comportano una esplosione della logica e della razionalità.

In effetti, se ci si pensa, ammettere contraddizioni in modo indiscriminato è disastroso. Significa ammettere che le porte possano essere aperte e chiuse nello stesso tempo, che un comportamento giusto sia anche sbagliato, e che se un tizio dice 'le cose stanno così e però non stanno così' potrebbe avere ragione. Caos. Grande confusione intellettuale e morale. Non per nulla il linguaggio contraddittorio e ambiguo è tipico di chi vuole confonderci le idee e non farci capire un bel nulla. Se si accettano contraddizioni, dice un vecchio principio logico, tutto è permesso, e tutto è vero. Si sarebbe tentati di dire: i violatori del principio di non-contraddizione, Hegel per primo, erano forse pazzi e irresponsabili. Eppure, la questione non è così semplice. A volte le contraddizioni ci sono, inutile negarlo, e non vederle significa coprirsi gli occhi, negare l'evidenza. A volte capita di sentire persone che hanno opinioni opposte, ed entrambe sembrano aver ragione; a volte per rispettare una legge sono obbligata a violarne un'altra... Dunque come la mettiamo? Le contraddizioni ci sono o no?

A questo punto emerge la soluzione del dialeteismo. L'idea di fondo è: non tutte le contraddizioni sono «vere», ossia devono essere accettate. Nella maggior parte dei casi quando qualcuno ci dice qualcosa di contraddittorio semplicemente una delle due cose che dice è falsa. Quando siamo lacerati da assurde e nevrotiche idee, del tipo «devo e non posso», dobbiamo seriamente liberarcene. Ma in altri casi, i due termini in conflitto stanno lì di fronte ai nostri occhi ed esigono di essere ascoltati. In quei casi la politica migliore è accettare la contraddizione, guardarla in faccia, e ragionare servendosene. Ecco dunque l'idea dialeteista: imparare a ragionare, dunque ad applicare la logica, anche in situazioni contraddittorie (o apparentemente tali).

A lungo, come Priest stesso ha riconosciuto, il dialeteismo è stato considerato una prospettiva «poco rispettabile», specie nell'ambito della filosofia angloamericana. Anzitutto per i suoi chiari legami (più o meno espliciti e diretti) con posizioni di tipo hegeliano, e marxista: bestie nere per il mondo filosofico analitico. Ma anche per l'insormontabile difficoltà, da parte della filosofia più ortodossa, di accettare violazioni della legge logica fondamentale, il firmissimum principium di Aristotele. Oggi la situazione è cambiata, per varie ragioni. Non ultimo il fatto che l'intuizione originaria è stata sviluppata ampiamente e variamente, da diversi autori appartenenti alla scuola dialeteista fondata da Routley e Priest. Inoltre, specie nell'analisi dei paradossi, la prospettiva si è rivelata particolarmente brillante, e capace di portare chiarezza. Ma non soltanto: con il diffondersi di altre logiche della contraddizione (per esempio le considerazioni dei fisici sul comportamento delle microparticelle) il principio di non-contraddizione ha smesso di valere come principio capitale, tale da mandare a morte per colpa d'inconsistenza qualsiasi teoria, anche la più brillante e fedele all'evidenza. Ne parliamo con Graham Priest, che abbiamo incontrato alla Technische Universität di Berlino.


Quali sono le ricadute pratiche del «dialeteismo»? Ha qualche utilità effettiva, in ultimo, ammettere che ci sono contraddizioni, e che nonostante ciò possiamo ragionare? La logica e la razionalità funzionano bene lo stesso?

Il dialeteismo è un argomento che riguarda anzitutto la logica pura, per esempio i paradossi, come quello del mentitore. Alcuni pensano che le vere contraddizioni si verifichino solo in questo dominio astratto, e perciò ritengono che il dialeteismo sarebbe solo una parte della matematica, e una parte molto lontana dalle circostanze pratiche. Ma anche se fosse così, la questione non è ovvia: anzitutto perché la matematica ha importanti applicazioni nella pratica. Se si pensa alla storia del pensiero occidentale, si vede bene che la legge di non contraddizione era profondamente insediata in tutta la nostra logica, e gli scienziati si sono sempre sentiti vincolati a rispettarla con ogni mezzo. Ma ora con i nostri strumenti logici siamo in grado di maneggiare e capire e usare sensatamente teorie contraddittorie, e non è escluso che si finisca per considerare queste teorie semplicemente vere. Già adesso abbiamo molte branche della matematica che sono inconsistenti: la teoria dei numeri, la topologia, l'algebra lineare, la teoria degli insiemi. Ed è facile ipotizzare - perché no? - che in un prossimo futuro si possano trovare applicazioni di questi risultati in fisica. Nella storia è capitato spesso così: la matematica si è sviluppata autonomamente, e solo più tardi si sono scoperte le sue applicazioni.


Dal punto di vista politico, quale ricaduta potrebbe avere l'idea di accettare e ragionare in presenza di contraddizioni?

Credo che il modo più ovvio per vedere le ricadute politiche del dialeteismo sia considerarle nella prospettiva del marxismo. Notoriamente, Marx e Engels pensavano che per avere una comprensione profonda della società occorresse vederla come contraddittoria. E che se non si considerino accuratamente queste contraddizioni, e non si pensi in termini di contraddizioni, non si possa progettare un'azione politica efficace. C'è però un problema interessante: quando Marx e Engels parlano di contraddizioni, intendono letteralmente le contraddizioni dei logici, o non piuttosto qualcosa d'altro? A volte, io credo che si riferiscano letteralmente alle contraddizioni. Per esempio, se pensiamo all'analisi delle nozioni di valore di scambio e valore d'uso che Marx fa all'inizio del primo libro del Capitale, è piuttosto chiaro che intende letteralmente la contraddizione logica: 'p e non-p'. Non soltanto: un gran numero di esempi che Engels dà nell'Anti-Dühring sono di questo tipo. Certo, molte tra le cose che Engels descrive come contraddizioni non sono realmente tali. Spesso si trova nel marxismo uno slittamento tra conflitto sociale e contraddizione logica. Gli esponenti del tardo marxismo, nell'Unione Sovietica e anche nel mondo occidentale, hanno perciò tentato di reinterpretare i testi originari escludendo le contraddizioni nel senso logico. Ma è una mossa sbagliata. Una cosa che il dialeteismo può fare è chiarire meglio la questione, se possibile, rileggendo i testi di Marx ed Engels, e restituendone una interpretazione più accurata.


È possibile usare il «dialeteismo» per leggere la politica attuale? Quale ruolo potrebbe avere un'analisi «dialeteista» del presente politico e sociale?

Non ho mai analizzato la situazione politica, e non ho mai pensato in realtà che il dialeteismo possa essere particolarmente utile in una simile impresa. Ci sono sicuramente conflitti che possono essere compresi in un'analisi delle vere contraddizioni, per esempio questioni connesse al riscaldamento globale, o alla povertà mondiale. Ma non penso che siano situazioni in cui per qualche proposizione p, si dà il caso che p sia vera, e sia anche vera non-p. Le persone possono avere credenze inconsistenti. Ma il fatto che abbiano visioni contraddittorie non significa che siano vere. Quando il capitalista ci dice che ciò che sta facendo non sta distruggendo il pianeta, semplicemente dice il falso.


Lei ha descritto la metafisica, ossia la concezione della realtà, che fa da sfondo alla sua logica, in un libro molto bello, che si intitola «Towards Non-Being» (Verso il non essere, 2005). Qui lei sostiene che alla base del «dialeteismo» si colloca un'idea sostenuta dal pensatore austriaco Alexius von Meinong nella prima metà nel Novecento, e fieramente avversata dai filosofi più convenzionali: l'idea che «ci sono cose che non esistono». Altrimenti detto: gli oggetti inesistenti hanno il diritto di essere pensati razionalmente, considerati, descritti. Può dirci qualcosa di questa teoria?

È del tutto naturale pensare che alcuni oggetti non esistano. Per esempio si può avere paura di qualcosa, ammirare, desiderare qualcosa, leggere su qualcosa, anche se queste cose che desideriamo temiamo leggiamo non esistono. Alcune delle cose di cui abbiamo paura o di cui leggiamo esistono, naturalmente. Ma il carattere tipico delle relazioni intenzionali, ossia appunto il temere, desiderare, credere, e così via, è che queste relazioni possono sussistere anche se gli oggetti a cui si rivolgono non esistono affatto. Così molte persone, e io stesso, abbiamo cercato di analizzare come funzionano gli oggetti inesistenti, in particolare in contesti intenzionali. Non è mera speculazione. Capire il tipo di realtà che è caratteristico di ciò che non esiste può essere importante. Per esempio, un'analisi degli oggetti inesistenti fornisce un rendiconto delle realtà di finzione, per esempio quelle che leggiamo nei romanzi. E spiega come funzionano. Ora nella filosofia politica le ideologie sono finzioni. Il mondo non funziona in un certo modo, ma noi creiamo - la classe dominante crea - una sorta di romanzo sul funzionamento del mondo e naturalmente lo usa per i suoi fini strategici. Capire le finzioni significa in definitiva capire le ideologie.


Una domanda di «politica della filosofia». Queste tesi, e le tesi «dialeteiste» in generale, sono tipicamente non-ortodosse, in contrasto con le linee più canoniche della filosofia analitica. Dobbiamo dedurne che lei ha una certa simpatia per le posizioni di rottura o di minoranza?

Certamente, una grande quantità del lavoro che ho fatto in logica e in metafisica consiste nell'attaccare le posizioni ortodosse. In quel senso il mio lavoro è stato sovversivo di posizioni tradizionali. Alcuni dei miei colleghi d'altra parte hanno sostenuto che la logica classica generalmente dà supporto a posizioni filosofiche conservatrici. Una ragione di ciò è che puoi usarla per criticare teorie come il marxismo. Se la logica confuta la visione del fatto che ci sono contraddizioni, il marxismo va gettato via. Karl Popper ha usato questo argomento in La società aperta e i suoi nemici. E questa è probabilmente una delle ragioni per cui alcuni marxisti hanno cercato di interpretare tutto il discorso di Marx in termini di tendenze conflittuali, e non in termini di contraddizioni, sbarazzandosi della logica che faceva da sfondo al marxismo. L'attacco di Popper è stato sicuramente molto influente, in certi ambienti.


La relazione tra questioni logiche e questioni politiche che si stabilisce in questo modo è sicuramente in contrasto con la tendenza, piuttosto diffusa nella filosofia politica recente, a ritenere che la razionalità politica non sia propriamente logica, che in ambito politico non si debba fare questione di verità e razionalità, ma piuttosto, di accordo, e ragionevolezza.

In realtà è importante utilizzare gli strumenti della logica, e della considerazione razionale, per esaminare ciò che avviene nell'ambito politico, e anzitutto in relazione a ciò che i politici dicono. Spesso i politici dicono qualunque cosa, unicamente per scopi strategici. E spesso hanno ragioni illogiche per le loro posizioni. Questo deve essere evidenziato. Penso sia estremamente importante che i filosofi, i quali sono allenati all'analisi delle ragioni, facciano questo lavoro.

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