Pašukanis ieri e oggi. Una introduzione
di Carlo Di Mascio
Da Pašukanis e la critica marxista del diritto borghese, Phasar Edizioni, Firenze, 2013, pp. 268.
I.
Norberto Bobbio, in un saggio pubblicato nel 1954 dal titolo Democrazia e dittatura, osservava che gli enormi progressi, che l’Unione Sovietica stava in quel tempo compiendo in direzione di uno Stato fondato sul diritto, dovevano in gran parte essere ascritti alla cosiddetta «riscoperta del diritto», e ciò in particolare per merito della scuola facente capo a Vyšinskij, la quale, concependolo «come complesso di norme coattive imposte dalla classe dominante al fine di salvaguardare le relazioni sociali ad essa vantaggiose», si poneva in netta sintonia con quanto tracciato dalla più avanzata dottrina borghese di matrice kelseniana, tendente a considerare il diritto «come una tecnica speciale per la organizzazione di un gruppo sociale (qualunque esso sia)». Ma per Bobbio questi progressi dovevano ritenersi attribuibili anche ad un altro motivo, e cioè alla piena «sconfessione delle dottrine giuridiche estremistiche di Pašukanis e compagni, secondo cui il diritto era una sovrastruttura della società borghese e come tale destinato a scomparire con l’avvento della società socialista»1.
Ora, tralasciando qui le ragioni che all’epoca mossero il filosofo torinese a salutare favorevolmente l’allineamento del modello normativistico elaborato dal regime sovietico e dal suo più fiero interprete, lo scienziato giuridico di Stalin, Andrej Januar'evič Vyšinskij, allo schema kelseniano della dottrina pura del diritto2, ragioni per molti versi legate al fatto che è proprio in quel periodo, come è noto, che Bobbio si impegna ad introdurre in Italia l’opera di Kelsen, al quale egli riconosce, come più tardi sostenuto3, di aver dirottato l’interesse teorico dalla norma all’ordinamento giuridico, ovvero dalla frammentarietà alla sistematicità del diritto, e se anche alla «sconfessione»4 delle tesi di Pašukanis corrispose il suo brutale annientamento fisico e culturale per opera di quel regime alla fine degli anni trenta5, così da consentire che «accanto al regno della legge si instaurasse il regno del terrore, e cioè che la pratica desse ragione ai vari Pašukanis»6 - è bene premettere che cristallizzare la sua opera, come spesso avviene, sulla base di una ritenuta concezione del diritto da intendersi come mera sovrastruttura della società borghese, destinato ad estinguersi con il passaggio al comunismo, potrebbe risultare operazione riduttiva, e comunque non adeguatamente aderente con la sorprendente originalità e complessità della critica marxista che il giurista sovietico condusse nei confronti del diritto borghese7. Critica avviata - come sottolinea Umberto Cerroni che tradusse per la prima volta dal russo La Teoria generale del diritto e il marxismo8 - «con singolare efficacia e pertinenza scientifica», ed in particolare «senza indulgenza per le sommarie e semplicistiche ricerche sull’interesse di classe che muoverebbe questo o quel giurista nella formulazione delle proprie proposizioni scientifiche».9
Ma il commento di Bobbio che essenzialmente richiama l’annoso dualismo tra normativismo ed antinormativismo, o, forse, meglio ancora, tra legalismo ed antilegalismo, con tutto ciò che ne consegue sul piano delle effettive emergenze teoriche, non può essere sbrigativamente rimosso10. Esso merita attenzione nella misura in cui, seppure brevemente, venga collocato nell’ambito del peculiare contesto post-rivoluzionario nel quale maturarono le tesi di Pašukanis - si badi conformemente ad un avanzato modello di analisi teorica dei lavori di Marx, segnatamente l’Introduzione del 1857 ai Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica e il Capitale, riconnettendosi con scrupolosità alla loro problematica scientifica che egli tenta di utilizzare metodologicamente - e, successivamente, la loro attività di demolizione, quest’ultima peraltro posta in essere prescindendo disinvoltamente da quello stesso modello di analisi marxiana che viceversa si assumeva essere stato da lui gravemente inquinato. Ma a tal fine occorre immergersi in maniera sommaria nella specificità radicale della critica che Pašukanis con micrologica meticolosità muove al diritto borghese, non prima tuttavia di evidenziare le implicazioni teoriche che inevitabilmente lo portarono a discostarsi da certa ortodossia marxista protesa nella confusa impresa di adeguamento allo schema normativistico.
Per restare alla definizione del diritto sovietico così come testualmente inteso da Vyšinskij, in parte riassunta nell’affermazione soprariportata di Bobbio, secondo cui «il diritto è un insieme di regole della condotta umana stabilite dal potere statuale in quanto potere della classe che domina la società, nonché delle consuetudini e delle regole di convivenza sanzionate dal potere statuale e attuate coercitivamente con l’ausilio dell’apparato statuale al fine di tutelare, consolidare e sviluppare i rapporti e l’ordinamento vantaggiosi e favorevoli alla classe dominante»11, ovvero ancora per restare ai commenti di Kelsen sul punto, dai quali Bobbio trae spunto, e cioè che «depurata da tutte le tautologie, i suoi pleonasmi e le sue contraddizioni, la definizione di Vyšinskij del diritto sovietico socialista appare la seguente: il diritto è un complesso di norme che esprimono la volontà della classe dominante, garantite dalla forza coercitiva dello Stato»12 - Pašukanis replicherebbe con una constatazione assolutamente oggettiva, ovverossia se il diritto viene definito come un sistema di rapporti sociali corrispondenti agli interessi della classe dominante a loro volta salvaguardati dalla coattività di un sistema di norme, di certo si riuscirebbe a catturare il contenuto di classe che il diritto assume, vale a dire la corrispondenza di esso con gli interessi della classe dominante, peraltro sotto forma di interesse generale, ma purtuttavia ciò non permetterebbe di comprendere il motivo per cui questo contenuto assume proprio la forma del diritto, né tantomeno perché il diritto è diventato quello che è, ovvero perché si è trasformato in istituti che coattivamente ne consentono l’applicazione, e quindi da dove scaturirebbe il postulato secondo cui tutti gli uomini devono nascere liberi ed uguali, o meglio, cosa ci sarebbe dietro l'uguaglianza formale.
Seguendo invece l’impostazione normativistica, che è poi quella della tradizione giuridica borghese che con Kelsen raggiungerà il suo più raffinato coronamento, la questione appare chiara, in quanto la stessa fornisce una costruzione del diritto dando l’idea che esso sia sempre stato così come è, sin dalle sue origini, che esso abbia in pratica riguardato indifferentemente tutte le epoche e gli stadi di sviluppo della società umana, cioè uno strumento dal contenuto variabile in base ai desiderata di chi detiene il potere, attraverso il quale imporre con la forza la propria volontà di classe, una tecnica quindi con la quale la classe dominante esercita il «controllo sociale generale»13, finendo con ciò per ridursi complessivamente ad essere rappresentato soltanto come norma giuridica, la quale appartiene ad un ordinamento giuridico che corrisponde allo Stato, organo esclusivo in grado di porre il diritto che a sua volta, riconoscendo e trattando gli uomini tutti come liberi ed uguali, viene fatto valere mediante l’apparato di coercizione.14 Ecco già qui affiorare un elemento decisivo nella indagine di Pašukanis volta ad elaborare una vera e propria teoria marxista del diritto, e nel contempo di accentuata diversificazione. Per Pašukanis il compito della teoria generale del diritto non deve consistere nel limitarsi soltanto alla descrizione e all’analisi formale e logica delle norme, ma piuttosto deve spiegare sulla base di quali interessi esse sono state prodotte, quale significato possiedono i rapporti da loro regolati nella realtà e quali sono le forze reali che garantiscono la loro applicazione nella prassi.
II.
Tale approccio metodologico, consistente nel ricercare una spiegazione materialistica della regolamentazione giuridica, per cui il diritto esprime prima che una norma uno specifico rapporto economico-sociale, e come tale va indagato, non poteva non entrare in contrasto con la nozione del diritto come mera espressione della volontà dello Stato-Partito che Vyšinskij elaborerà fedelmente alle prescrizioni di Stalin15, per giunta - sia detto per inciso - in maniera eccezionalmente contraddittoria, trattandosi di un diritto, come correttamente individuato da Kelsen, se del caso da applicare ad una società ancora «borghese», cioè divisa in classi contrapposte che «democraticamente» cercano di conquistare il potere, ma non ad una società che pretende di essere socialista, nella quale non ci sono più sfruttatori e sfruttati, e dunque dove non può più esserci una classe dominante16.
Ma, a ben vedere, entrava in contrasto pure con le tesi di Stučka, per il quale invece solo l'introduzione del criterio della lotta di classe avrebbe potuto consentire alla giurisprudenza di divenire scienza, per cui se «il diritto è un sistema (o ordinamento) di rapporti sociali corrispondenti agli interessi della classe dominante e tutelato dalla forza organizzata di questa classe»17, la semplice sostituzione degli interessi della classe operaia con quelli della classe borghese è sufficiente per costruire un ordinamento giuridico socialista - e, a questo punto, anche con lo stesso Kelsen che concependo asetticamente il diritto come una tecnica di organizzazione sociale18, assolutamente neutrale perché indistintamente valevole, come ci ricorda Bobbio, «tanto per un ordinamento giuridico liberale quanto per uno comunista»19, si induce a rappresentarlo, riprendendo una lucidissima descrizione di Marco Cossutta, come «un «recipiente» aperto a qualsivoglia contenuto, un oggetto a disposizione di chiunque abbia la forza per conquistarlo»20, il cui unico obiettivo non è altro che quello di predisporre l’impianto giustificativo, filosofico e politico-giuridico, che ha permesso di costruire l’economia di mercato come ordine degli scambi dei beni e delle ricchezze in maniera autonoma dagli altri ambiti collettivi21, e dunque, in ultima istanza, di legittimare il potere, a tal punto che lo stesso Kelsen «non può utilizzare gli argomenti della dottrina pura per criticare l’imperativismo sovietico poiché entrambe le teorie si fondano sugli stessi postulati»22.
In effetti Pašukanis coglie in particolare che la teoria kelseniana, riducendo il diritto alla legalità puramente normativa, finisce per eludere la dimensione sociale, o meglio, per escludere l’analisi delle condizioni sociali che rendono possibile l’efficacia della forma giuridica, impedendo così di comprendere la struttura dei rapporti di forza presente nell’economia degli scambi. Ecco perché diversamente da una certa nozione assegnata al pensiero di Pašukanis, sulla scia della concezione generale che il marxismo ha avuto del diritto, e cioè che esso corrisponderebbe a un riflesso dei rapporti di produzione o degli interessi della classe dominante, o ancora ad un mero prodotto ideologico - il diritto ha invece una sua consistenza autonoma legata da un lato agli effetti propri della forza della forma, e dall’altro ai fondamenti sociali di questa stessa forza23, derivandone che il diritto per Pašukanis non è una sovrastruttura della società borghese, ma è la struttura stessa senza la quale essa non esisterebbe.
Ora sia ben chiaro, anche Pašukanis è convinto che in fondo la riduzione del diritto a tecnica di organizzazione sociale, nel condurre ad un formale trattamento eguale degli individui, costituisce un abile espediente con cui la borghesia si è organizzata, con ciò, di fatto, provvedendo solo a garantire unilateralmente la propria sopravvivenza. Ma la questione che egli ritiene preminente è comprendere come mai ad un certo punto della storia chi ha il potere deve ricorrere al diritto per esercitarlo, rilievo questo poi non tanto dissimile da quello che Marx si pose, il quale si chiedeva perché mai si fosse giunti ad istituire il lavoro salariato, anziché proseguire con il regime di schiavitù.
E dunque, proprio come Marx analizza denaro, merce e capitale, intesi come espressione storica di determinati rapporti sociali di produzione, così Pašukanis ritiene di affrontare il diritto, alla stregua di una forma storicamente determinata di regolamentazione quale espressione di precisi rapporti sociali tra gli individui che solo nella società capitalistico-borghese raggiunge il suo massimo livello di sviluppo e perfezionamento, con ciò ricavando in particolare che il diritto non è una categoria valida per tutte le società che si sono succedute storicamente, seppure a rigore non prive di regole sociali24. Pašukanis avverte insomma che la forma giuridica costituisce un momento dialettico del processo capitalistico, realmente operante nella società borghese e che, pertanto, non può essere confusa con un semplice meccanismo ideologico con cui il dominante inganna il dominato. Essa, in altri termini, appare del tutto strutturale alla realtà borghese che si fonda sulla merce, e della cui forma essa costituisce un prodotto, nonché sullo scambio, su una economia mercantile che per esistere e perpetuarsi necessita di individui liberi ed uguali in grado di collocarsi sul mercato, ciascuno come possessore di merci, aspetti questi pressoché sconosciuti al mondo romano (che ammetteva la schiavitù) o feudale (che prevedeva solo privilegi) che, pur conoscendo forme di regolamentazione, non presentano le caratteristiche di uguaglianza formale che il mondo borghese invece è stato in grado di dispiegare. E’ quindi l’analisi della merce che Marx sviluppa, che permette di definire i rapporti di produzione capitalistici, in quanto è per essa che si rende comprensibile il rovesciamento della legge della proprietà privata in legge dell’appropriazione capitalistica.
Non solo. Da questa inestricabile implicazione di forma merce e forma giuridica ogni individuo subisce una trasformazione nel diritto borghese moderno, diventa «mera incarnazione di un astratto e impersonale soggetto di diritti, un puro prodotto dei rapporti sociali»25. Pašukanis si accorge che la libertà dello scambio, la sicurezza della proprietà, la resistenza all’ingerenza sempre più consistente dello Stato, fondano il soggetto giuridico, ancorandolo alle necessità del mercato. Il diritto deve quindi garantire la continuità tra l’homo juridicus e l’homo oeconomicus, sulla base del principio in forza del quale l’esercizio delle libertà singole ed il loro soddisfacimento non deve compiersi a scapito dei bisogni e dei desideri degli altri. Ma ecco, appunto, perché nella società borghese avviene questo profondo sconvolgimento, vale a dire perché i rapporti sociali assumono un carattere giuridico, o meglio, perché ad un certo punto della storia occorre che questi rapporti non siano più brutalmente fondati sul puro dominio e sfruttamento, ma richiedono la necessità di una mediazione giuridica?
III.
E’ perché, ci dice Pašukanis, ad un certo punto la crescita dell’accumulazione capitalistica ha unificato la società attorno al valore-lavoro, ma l’ha fatto attorno ai suoi due poli estremi, quelli della concretezza e dell’astrattezza. In questa prospettiva Pašukanis approfondisce bene l’insegnamento di Marx, facendolo proprio quando, in particolare, questi osserva che lo scambio tra due merci presuppone il riferimento ad una terza cosa che non è né una merce né l’altra, ma ha tuttavia qualcosa in comune con entrambe, e cioè il lavoro umano, che in essa si oggettivizza. Anche nel lavoro compare una duplicità analoga alla merce, dal momento che dal punto di vista del valore d’uso il lavoro si presenta come lavoro concreto che consiste nella particolare operazione di trasformazione della natura, mentre dal punto di vista del valore di scambio ciò che conta è il lavoro astratto, cioè il lavoro umano spogliato da ogni determinazione qualitativa, il lavoro in quanto fonte di valore. In altri termini, è con l’introduzione della forza-lavoro26come merce assolutamente specifica, in grado di creare un valore superiore a quello da essa posseduto nel momento dello scambio, che, in quanto oggetto di vendita, richiede la presenza di individui liberi, capaci a loro volta di stipulare un contratto, conseguendone quindi che chi compra e chi vende il lavoro devono trovarsi sullo stesso piano, devono cioè essere soggetti da un punto di vista giuridico perfettamente uguali27.
Ma, come Marx sottolinea, questa libertà di vendere e comprare, che il mondo borghese mette in capo, appare estremamente ambigua, perché se per un verso essa è sintomatica di una non appartenenza diretta dei lavoratori ai mezzi di produzione «come gli schiavi, i servi della gleba, ecc.», per l’altro non può nascondere la circostanza che i mezzi di produzione sono stati espropriati a chi li possedeva, tanto è vero che «il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione fra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro»28. Ne consegue allora che per risolvere questo determinato dilemma, la società capitalistico-borghese - al culmine dello sviluppo delle forze produttive, per impedire che lo sfruttamento possa riemergere come nelle forme cosiddette precapitalistiche - è costretta ad intervenire mediando giuridicamente, affidandosi cioè ad un «ordine artificiale che consenta di trasformare la guerra civile in dialettica ordinata di interessi rappresentati»29, permettendo insomma al capitalista, a colui che ha il potere in quanto proprietario di denaro e mezzi di produzione, di poter in qualsiasi momento e per qualsiasi situazione controversa che attenti ai suoi diritti, fatto unico nella storia del dominio dell’uomo sull’uomo, di proteggersi non con la bruta forza, bensì richiamandosi al diritto statuito e agli apparati preposti a renderlo effettuale, insomma di poter compiere una serie di azioni perché esiste un sistema di diritti che glielo concede30.
Di qui il sofisticato riprodursi di un meccanismo giuridico in cui il potere economico dipende dai diritti giuridici normativamente posti e riconosciuti validi, in grado di far apparire il sistema dello scambio fondato su una uguaglianza che è solo formale, ma che invece dimostra di essere oggettivamente legato alla disuguaglianza. Questa è la funzione della mediazione giuridica che si regge strettamente sulla capacità di costruire il soggetto come «proprietario» del proprio lavoro, e quindi capace di cederlo attraverso un contratto di natura patrimoniale, ma che poi non vede - o fa finta di non vedere - la contraddizione esistente tra «contratto» di lavoro ed estorsione del lavoro vivo che genera plusvalore, contraddizione che si materializza in quella «pacifica giustificazione» che supporta e legittima l’azione di chi compra il lavoro di colui che per sopravvivere è costretto a venderlo, quest’ultimo anche a condizioni ingiuste, ma che liberamente accetta perché nessuno lo ha costretto31. E’ dunque lo svelamento del regime della forma-scambio - nel quale ciò che il compratore dà al venditore in cambio di quanto produce con la sua forza lavoro, è eccezionalmente inferiore rispetto al valore del prodotto - che consente di sagomare attraverso l’appropriazione la prassi dell’espropriazione, sicché ciò che doveva costituire un rapporto alla pari tra uomini e cose, altro non è invece che un rapporto di classe, un rapporto cioè che vede alcuni uomini (capitalisti) dominare «pacificamente» su altri (operai), con i primi che, appunto, si appropriano, senza retribuirla, di una parte considerevole del lavoro dei secondi, mediante il salario che serve solo a mantenere questi ultimi in vita, sostentando la loro forza lavoro perché questa continui ad essere venduta al capitalista alle stesse «giuste ed eque» condizioni contrattuali32.
Ed è attraverso questo singolare percorso marxiano, in base al quale nel valore di scambio delle merci persiste un elemento immateriale e soprasensibile, espressione dell'incapacità dei produttori di appropriarsi dei loro stessi prodotti, che Pašukanis giunge a definire lucidamente quella che è la profonda anomalia dell’eguaglianza formale, la quale fa invece emergere le diseguaglianze sostanziali senza riuscire però a superarle nell’ambito di quel sistema che la scienza giuridica borghese ha pazientemente coltivato, giungendo a concepirlo come regolato dalla norma generale ed astratta, ma senza alcun tipo di nesso con la realtà sociale, il cui compito è quello di organizzare strutturalmente la conflittualità sociale, e tutto ciò perché esso si fonda su una grande finzione, cioè sulla proprietà, attraverso la quale si è fatto in modo di immaginare la persona come proprietaria del proprio lavoro33. Di qui l’importanza di costruire un soggetto, sì «portatore di diritti e di valori», capace di credere di avere il dominio di sé e del mondo, di poter decidere della propria esistenza, che stipula contratti e si accorda come meglio crede, ma nella realtà completamente astratto, e dunque assoggettabile affinché, privato di ogni resistenza e reso innocuo, continui ad essere perennemente in balìa dell’autonomia della sfera economica34.
D’altronde in questo scenario, Pašukanis non potrebbe essere più chiaro quando sottolinea che la nozione di indipendenza degli individui ed il loro carattere privato che la società del capitale elabora, ha avuto l’effetto di ribaltare radicalmente le classiche determinazioni che in particolare il giusnaturalismo aveva coltivato fino a quando le necessità del capitale non ne hanno modificato gli originari obiettivi35, sicché non si tratta più di una indipendenza in sé degli individui, ma di un'indipendenza soltanto formale36, nel senso che oramai l'indipendenza degli individui costituisce la forma che assume la loro dipendenza sociale in una fase determinata del processo sociale di produzione:
«caduto in servitù dei rapporti economici che si costituiscono alle sue spalle nella forma della legge del valore, il soggetto economico riceve, per così dire, in compenso - come soggetto giuridico - un raro dono: una volontà giuridicamente presunta che lo fa assolutamente libero ed eguale tra gli altri possessori di merci come lui. «Tutti debbono esseri liberi e nessuno deve violare la libertà dell’altro…Ogni uomo possiede il proprio corpo come libero strumento della sua volontà» (Fichte). Ecco l’assioma da cui procedono i teorici del diritto naturale. E questa idea della persona isolata e chiusa in sé, questo «stato di natura» da cui scaturisce un Widerstreit der Freiheit ins Unendliche, corrisponde pienamente al modo di produzione mercantile nel quale i produttori sono formalmente indipendenti l’uno dall’altro e non sono tra loro connessi se non da un ordine giuridico artificialmente costruito. Questa condizione giuridica (…) non è altro che il mercato»37.
Ma se così è, se dunque in questo modo viene meno ogni possibilità di pensare agli individui, quand’anche dotati di diritti, in grado di resistere all’ordine giuridico capitalistico, perché in esso completamente sussunti, a tal punto che può dirsi che solo il diritto, con la sua logica disincarnata e formale, è in grado di esclusivamente dare forma alla vita, sino a «configurarla» in tutti i suoi aspetti38 - come fare a conciliare quel diritto soggettivo - che la migliore tradizione giuridica borghese ha pazientemente elaborato, come autonomia di volontà che si dispiega nel reale sprigionando libertà ed uguaglianza, e che per Pašukanis costituisce il fondamento di ogni rapporto sociale a tal punto da coincidere con esso – e che invece viene gradualmente soppiantato dal concetto di rapporto giuridico e, successivamente, da quello di istituto?39
E’ questa la contraddizione che ha contrassegnato il cammino della società capitalistico-borghese, tesa a determinarne le specifiche mediazioni per garantire la propria sopravvivenza, a fronte di un antagonismo sempre crescente e sempre da normalizzare all’interno dei processi di accumulazione. Ciò è accaduto attraverso l’abile recupero dell’autorità, trasformando il diritto in puro comando e disciplina, in quel diritto pubblico (diritto penale, diritto amministrativo, diritto costituzionale), che come avverte Pašukanis, nulla ha a che fare con la forma giuridica, e dello Stato, il quale non genera diritto, ma solo garanzia del processo giuridico di normalizzazione, e che si costituisce come scudo coercitivo esterno, come involucro protettivo, come dispositivo di regolamentazione sociale subordinato alle logiche di sviluppo del capitale. Da qui, peraltro, anche un’anticipazione teorica di straordinaria rilevanza nel discorso di Pašukanis, e cioè che in fondo il formalismo giuridico, nella scienza del diritto pubblico, altro non è che la formalizzazione di decisioni (e lotte) politiche, con ciò venendo meno il grande sogno, in particolare kelseniano, di fare della scienza giuridica la vera scienza politica, per cui
«il diritto statuale diviene in genere oggetto di elaborazione giuridica, come diritto costituzionale, cioè con la comparsa di forze tra loro in lotta (…) La stessa cosa vale per il diritto amministrativo. Il suo contenuto giuridico si riduce alle garanzie dei diritti degli esponenti della gerarchia burocratica, da una parte, e il popolo, dall’altra. Al di fuori di ciò il diritto amministrativo o, come lo si chiamava, il diritto di polizia costituisce una variegata commistione di regole tecniche, di formule politiche e via dicendo»40.
Per Pašukanis l’astrazione diritto, ossia la norma che ordina la società borghese41, è il processo che sancisce l’espulsione dell’individuo concreto dalla sua esistenza concreta42. Il diritto privato così si ricompone entro il diritto pubblico43 per modellare, secondo una linea prefissata, la forma del comando sociale del capitale.44 E’ questo il paradossale progetto borghese che continuamente deve smentire se stesso e i propri ideali di società costituita da individui liberati ed autoresponsabili, in quanto pretermette l’autonomia nei suoi fondamenti programmatici come momento imprescindibile, salvo poi essere costretto nella pratica a riesaminare e a correggere completamente questa autonomia45, bloccando ogni apertura alla sua dirompente potenza costitutiva, e ciò mediante l’abile aggancio a valori universali, il cui solo fine è quello di occultare il comando innalzato ad inesorabile sistema normativo46.
IV.
Ma se questo è il quadro, se cioè «il diritto pubblico ed il diritto borghese in generale sono sempre e solamente figure dell’appropriazione privata e che il diritto è in realtà sempre l’autoriconoscimento e la potenza armata della società borghese»; se dunque «il regime di legalità non è una sovrastruttura dell’economia liberista ma una macchina che funziona all’interno di questa, che per il liberalismo organizza direttamente la produzione e i mercati»;47se cioè la forma-merce è oramai penetrata nei nostri stessi esseri a tal punto che possiamo dirci soggetti giuridici ancor prima di saperlo; se ogni concreto essere umano può quindi muoversi esclusivamente nell’ambito di una schematizzazione di totale egemonia ordinativa, frutto della mistica di quel «processo reale di giuridicizzazione dei rapporti umani»48 in cui tutto è pervaso e ricomposto dalla forma giuridica, a partire dalla sessualità sino all’identità, dal dolore al cibo, dall’aria alla salute, dalla nascita alla morte, sino allo scontrino che viene consegnato alla cassa e che, a ben vedere, rappresenta «il vero paradigma della valorizzazione sociale espressa nel contratto, con la giovane proletaria imbellettata che vi sta dietro»49, il tutto a vantaggio di una generale circolazione denaro-reddito, destinata a riprodurre la ricchezza capitalistica e a cui il lavoratore, semplice mezzo e strumento, liberamente vi contribuisce con il proprio salario, a sua volta equa espressione di un altrettanto libero rapporto contrattuale50, e così via discorrendo all’infinito, assumendo con ciò, come Pašukanis ritiene citando Adorackij, che nessuna società come quella borghese ha tanto bisogno dell’idea del diritto51 – non può non derivarne come la critica di Pašukanis finisca per presentare anche un significato politico molto preciso52, che di certo non si colloca in una semplicistica riduzione nell’economicismo, bensì nel concepire la transizione dal capitalismo al comunismo come un totale rivoluzionamento non solo dei rapporti economici, ma anche dei complessivi rapporti di autorità, potenza, controllo e dominio53.
In questa ottica appare chiaro e conseguente che il totale rivoluzionamento non possa darsi se non mettendo in crisi qualsivoglia principio di legalità, ovvero esaltando quell’antilegalismo che rifiuta ogni formalismo perché volto ad imbrigliare il nascente processo rivoluzionario che, contraddistinto dalla necessità del movimento, si sarebbe inevitabilmente invischiato nella palude imperativistica e normativistica, così finendo per reiterare all’interno della teoria marxista del diritto le medesime contraddizioni della scienza giuridica borghese, nonché «la capacità di mistificazione di quest’ultima».54 E così fu. La rivoluzione contro il diritto borghese che avrebbe dovuto rovesciare, come prospettava Lenin, «l’angusto orizzonte giuridico borghese», che costringe a calcolare con la durezza di uno Shylock: - non avrò per caso lavorato mezz’ora di più di un altro, non avrò guadagnato un salario inferiore a un altro?»55, che cioè avrebbe dovuto spazzare via quel mercante borghese tutto immerso nell’astratta razionalità del calcolo che lo fa diventare capitalista e speculatore, si trasformerà in una rivoluzione mediante il diritto sovietico, cioè mediante la riedizione del diritto borghese come diritto basato ancora sullo scambio di lavoro salariato, sullo scambio legato alla legge del valore, su uno Stato in cui la dittatura del capitale continua a prevedere il dominio di classe, con ciò, in particolare, convalidando la tesi di Pašukanis, secondo cui le categorie giuridiche fondamentali «non dipendono dal contenuto concreto delle norme giuridiche nel senso che esse conservano il loro significato anche se questo contenuto materiale concreto varia»56.
Senonché, a fronte di quella marxiana-leniniana liberazione dei rapporti tra gli individui concreti dalla mediazione giuridica e la loro ricostituzione come rapporti di reciprocità, di cooperazione, di comune ricerca collettiva del comune, a fronte della impossibilità «di passare attraverso gli istituti del capitale per distruggere lo sfruttamento»57, seguirono invece il formalismo ed il normativismo kelseniano sposati da Stalin e Vyšinskij, che servirono da prezioso stratagemma tecnico ad una «legalità socialista» che non esitò a porre «un freno alla tensione rivoluzionaria, tracciando nella panoramica sovietica delle precise sfere di giuridicità non violabili dalla spinta rivoluzionaria»58. Pašukanis, in aderenza agli assunti marxiani59, pagherà con la vita il convincimento che il comunismo comporta un estenuante processo di liberazione che nulla ha a che fare con un ordine sociale, e che pertanto nessun diritto socialista o proletario può mai darsi; che, inoltre, il capitale per la propria affermazione non ha bisogno di alcuna forma specifica di Stato che indifferentemente può essere democratico o totalitario60; pagherà la rozzezza del potere costituito sovietico che non poteva comprendere la sua modernità61, e cioè che la transizione non può chiudersi nella pura formalità giuridica, bloccando ogni varco all’organizzazione autonoma degli individui, e poi nella feticizzazione del lavoro, nella rigida istituzionalizzazione costituzionale, nel «controllo sociale generale», e che il diritto, come la cultura, è solo un mezzo che serve a neutralizzare i conflitti e non un momento di comune ricerca del comune62, per cui è e resta sempre borghese nella sua forma, del tutto strutturale ad un tipo di società condizionata da un assetto economico di per sé squilibrato, in quanto fondato sull’uguaglianza della disuguaglianza dei possessi.
Per Pašukanis, come per Marx e Lenin, c’è l’assoluta semplicità di una contrapposizione e di un dominio, e dunque la necessità radicale e non procrastinabile di rovesciarlo63. «Nella conoscenza della comunità proletaria», come altrove ha affermato Antonio Negri, a cui va il merito di aver dedicato al pensiero di Pašukanis l’unico lavoro64sin qui prodotto dalla cultura marxista del Bel paese capace di individuare e restituirgli quella freschezza rivoluzionaria inutilmente opacizzata da letture revisionistiche - «non può esserci «norma», ma solo «patto», solo accordo e convenienza pratica. Non c’è obbligatorietà (…) La norma è solo spettro di un comando che vuol farsi reale incutendo paura»65. Solo rigettando tutte le fatiscenti categorie di norma e potere, che la scienza giuridica ed economica borghese ha sperimentato storicamente come esclusivi momenti di accesso alla realtà, è forse possibile liberare quel potenziale umano, non più egemonicamente inserito all’interno di schemi preordinati messi a disposizione dal sistema, ma che pretende di procedere sulla base delle sue capacità e del suo volere, costruendo forme condivise di regolazione del vivere in comune, lasciando emergere l’autonomia privata come questione pratica e punto di avvio di un’autoregolamentazione di interessi, rispetto alla quale il suo riconoscimento costituisce il frutto di comuni e collettive pratiche costituenti66.
Autorità, norma, potere, controllo, dominio, disciplina, coercizione, tutti concetti che accompagnano la forma giuridica di cui la società del capitale ha bisogno per estendere e legittimare il proprio controllo in ogni dove dello spazio sociale, costituendo quella «appropriazione, omogeneizzazione»67della realtà in cui «il capitale è la totalità del lavoro e della vita»68, ed in cui tutta l’esistenza concreta degli uomini in carne ed ossa si compie all’interno di una immensa fabbrica tesa a realizzare unicamente il vero obiettivo della società del capitale, lo sfruttamento del plusvalore. Ma chissà, «se incominceremo ad eliminare - nella pratica e non soltanto nelle dichiarazioni - questi concetti operando senza di essi, sarà questo il segno migliore che i ristretti orizzonti del diritto borghese si stanno finalmente dissolvendo dinanzi a noi»69.