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L’essenziale sull’essenziale, ovvero del nihil privativum

(poche brevi note)

Giuseppe Sottile

“This critique analyzes the working class as an integral element of capitalism
rather than as the embodiment of its negation”
, M. Postone

Ho letto con interesse ed una certa gioia alcuni passi del testo “L’essenziale sull’essenziale” (Gilles Dauvé & Karl Nesic), quegli accenni relativi a come dovrebbe immaginarsi una rivoluzione e società comuniste, privi come sono della incredibile indecenza terminologica marxista del secolo scorso. Intelligenza e vita si coniugano felicemente in questi autori.

Tuttavia restano alcuni punti che continuo a non intendere e su cui ho scritto qualcosa in passato. Si parla come al solito in maniera scontata di contraddizione capitale/lavoro (salariato), si sottintende dei proletari marchiati non si sa da quando come e perché dall’essere rivoluzionari, mentre da tutt’altro sembrano essere caratterizzati. Si concede in un punto del testo quanto segue: ““lotta” tra capitale e lavoro salariato non implica che queste due realtà si affrontino senza tregua, in forma larvata o violenta, all'interno dell'impresa o nelle strade, ma soltanto che esse sono legate da un rapporto di collaborazione obbligata e allo stesso tempo di inimicizia. Raramente due lottatori si combattono fino alla morte. Lottare, il più delle volte, significa essere forzati ad accettare il quadro all'interno del quale la lotta si svolge. Se il capitale ha bisogno del lavoro salariato, finché sussiste questo sistema, anche il lavoro ha bisogno del capitale.” E ancora poco oltre: ” Il problema, per i rivoluzionari, non è sapere se la lotta di classe esiste, ma chiedersi come, anziché auto-riprodursi, essa possa concludersi per mezzo di una rivoluzione.”

Dunque la “lotta” si assume comunque e mai si cita quella ben più sistematica nel tempo e nello spazio dei salariati contro se stessi, vale a dire della concorrenza da sempre e specie oggi spietata tra loro.

Il fatto che “i rivoluzionari al livello di lotta di classe nella teoria”, come diceva Althusser, non abbiamo scritto e documentato quasi nulla su questo fenomeno ben più importante del presunto altro, la dice lunga su quanto siano stati destinati ad esprimere solo un ruolo nell’establishment politico, ma potremmo dire, vichianamente, ossia con grande neutralità politica, quanto essi stessi conoscano solo ciò di cui essi stessi vivono.

Atteggiamenti rivoluzionari per il ‘900 almeno, io continuo a non vederne. Esemplificazioni a riguardo, di atteggiamenti manifesti, intendo, volti al superamento del sistema capitalistico , mi pare arduo trovarne (noi abbiamo parlato invece di sicuri fenomeni di “integrazione” e “de-integrazione”). Si potrebbe dire che se il boom economico del secondo dopoguerra fosse proseguito oltre avremmo assistito all’autentico significato dei ’60, ma purtroppo è cessato e ci siamo ritrovati le conseguenze del declino storico di un modo di produzione. E tuttavia occorre precisare che una eventuale esemplificazione non sarebbe sufficiente ad indicare una natura rivoluzionaria dei salariati o di loro settori: occorrerebbe una teoria (ch’io dubito vi sia in Marx). Come osservai a suo tempo circa la prassi dei salariati, Marx nel secondo volume del Capitale, ad es., (pp. 33-34) rileva come nella prima fase del ciclo del capitale monetario, L è una delle voci in cui si scinde D. Ora egli osserva che in questo passaggio il denaro perde il suo carattere di capitale monetario ed assume il carattere di semplice mezzo di circolazione, di pagamento, giacché dal lato del lavoratore quel D-L sta per L-D (=M-D). Il lavoratore percepisce un salario con il quale acquista merci atte a riprodurne la forza lavoro (si tratta bensì di consumo produttivo, ma non produce plusvalore - non è una attività che realizza plulavoro -, semmai ne consente la realizzazione; tradotto: non è una attività produttiva; ciò en passant ci consente di individuare un parametro per distinguere le attività produttive dai semplici consumi, per poi distinguere tra questi i riproduttivi della forza-lavoro dai non riproduttivi, ad esempio output militari, che infatti vanno considerati dal lato degli investimenti un costo per il sistema economico, ossia drenano plusvalore, di là dal fatto che le singole imprese implicate in tale genere di produzione estraggano plusvalore ed abbiano un profitto netto). Dal lato del suo comportamento sociale siamo in L-D-M (=M-D-M), ossia nell’ambito della circolazione semplice delle merci, in cui D è appunto solo mezzo di circolazione. Egli vende la sua forza-lavoro nel processo produttivo (L-D) e riceve un salario col quale ne acquista di altre fuori dal processo produttivo, diciamo nel tempo libero (D-M).

Ora, si comprende perché sembra che i comportamenti collettivi ed individuali dei salariati portino questi a pensare che caratteristica normale e quasi naturale della società nella quale vivono sia quella indotta da quanto descritto, ossia da questa appendice del ciclo del capitale monetario, in cui per essi la forza-lavoro è una merce come le altre che una volta venduta contro denaro-capitale consente uno scambio equivalente con altre merci: ossia che la merce da loro venduta valga tanto denaro quanto merci equivalenti e ciò come segno distintivo dell’economia interamente monetaria, in cui la merce è la forma generale della ricchezza. Il risultato pratico è che tutt’al più essi giungono a ritenere giusto o naturale spingersi solo fino a chiedere la “giusta mercede” (la famigerata coscienza sindacale).

Il primo momento del ciclo del capitale monetario, quello in cui il capitalista attraverso l’investimento in M (Pm + L) trasforma il capitale monetario in capitale-merce e produce la famosa domanda o consumo dei lavoratori di cui sopra, ed in cui attraverso il processo produttivo (…P…) fa sì che quanto acquistato produca plusvalore dunque sia superiore a quanto pattuito in forma di valore espresso nel salario, questo primo momento si diceva non ha determinato alcunché dal lato del comportamento dei lavoratori: essi ritengono naturale farsi pagare quanto dovuto ed oltre ciò pare mai andranno. Questa è stata sinora la sociologia del lavoratore.

Nel documento si ammette che “il lavoro ha bisogno del capitale”.

Su di un piano statico io penso si tratti di una identità, del tipo che dire eminenza grigia rettiliana della finanza e dire Draghi sono la stessa cosa. O d’una equivalenza: il lavoro salariato come sistema non vi sarebbe senza il capitale come rapporto di produzione; dato l’uno si ha l’altro ed inversamente. Sul piano dinamico si tratterebbe d’un processo che non implica elementi incompatibili, che lo rendono inconsistente.

Queste due considerazioni (sociologica ed economica, assieme ad altre, certo) potrebbero bastare a spiegare perché contadini ed operai si siano bellamente fatti massacrare in due guerre mondiale dalla rivoluzione che avrebbero dovuto compiere e come mai si facciamo massacrare oggi tra fabbriche chiuse, sale da gioco, richieste “paradossali” d’un lavoro salariato ad ogni costo che “non v’è più” ed innumerevoli crimini e misfatti tra i loro desiderata. Essi in un certo senso sono i veri conservatori, assieme a tutto il popolo di sinistra, quando si rivendica una scuola pubblica, mentre si tratterebbe di abolire l’attuale sistema dell’istruzione pubblica e privata; quando si rivendica una sanita pubblica pienamente garantita, efficiente etc., mentre si tratterebbe, in prospettiva, di vivere facendo il più possibile a meno di farmaci, ospedali e quant’altro, ossia rivoluzionare il nostro modo di vivere etc.

Se la faccenda può leggersi più che ragionevolmente così, possiamo porre la questione del superamento del capitalismo in un altro modo, poiché tale questione rimane intatta in tutta la sua drammaticità, ora più di prima.

Citiamo gli autori del documento:

“Una cosa è certa: le forze produttive, da sole, non hanno mai fatto “saltare” i rapporti di produzione”*; “Il problema non è quello di individuare un grado massimo di miseria, che una volta raggiunto, darebbe inizio al Grande Giorno, o un massimo di alienazione che spingerebbe gli individui a sollevarsi contro un universo privo di senso; né si tratta di credere a un pericolo, al contempo ecologico e umano, tanto terribile da costringere infine gli uomini ad abbattere il mostro. Non esiste alcun nesso di causa-effetto (né di proporzionalità) tra il grado di gravità di una situazione e la risposta rivoluzionaria dei proletari. Per amore e per forza, essi hanno accettato gli orrori dell'industrializzazione, Verdun, Auschwitz, Hiroshima, e molte altre infamie e sofferenze. Non vi è alcuna ragione perché la minaccia della distruzione della vita sulla Terra, o di uno sprofondamento nella barbarie, basti, questa volta, a innescare la rivoluzione comunista. Non c'è una soglia di intollerabilità oltre la quale i proletari cesserebbero di subire le false soluzioni e imporrebbero quella giusta.”;

“Il comunismo non verrà a risolvere un bisogno: ieri il bisogno per i proletari di vivere, di rompere il ciclo infernale della miseria e della guerra, al quale oggi si aggiungerebbe quello di salvare la vita sul pianeta. Una rivoluzione, e a maggior ragione una rivoluzione comunista, non tratta un problema come farebbe un tecnico seduto alla sua scrivania. Essa non nasce né dal solo desiderio, né dall'imperativo di rispondere a delle urgenze storiche. Esiste ed esisterà sempre più di una sola risposta a una crisi o a una catastrofe, sia pur essa planetaria e fatale, e la rivoluzione comunista non è che una delle risposte possibili. Altre soluzioni si presenteranno e si combineranno: la riforma, la dittatura, la fuga in avanti militarista. I proletari non hanno fatto la rivoluzione quando il capitalismo “si accontentava” di sfruttarli in tempo di pace e massacrarli in tempo di guerra; saremmo ingenui se credessimo che faranno la rivoluzione ora che il capitalismo minaccia non più soltanto i proletari, ma la vita in quanto tale. Come se fosse sufficiente un cambiamento di traiettoria della catastrofe annunciata a innescare un processo rivoluzionario... Affinché la soluzione comunista venga tentata e abbia la meglio, la gravità del problema non basta: sarà necessario anche che se ne provi il desiderio. La vostra domanda ha il merito di ricordare che la critica del capitalismo non si può limitare al capitalismo. Ciò che si tratta di sopprimere, è qualcosa di più dello sfruttamento del lavoro da parte del capitale. Il capitalismo integra e riassume, a modo suo, alcuni millenni di dominio dell'uomo sull'uomo, supera alcune vecchie contraddizioni (in particolare per mezzo della democrazia) e ne moltiplica altre. La potenza del sistema industriale (quello che alcuni chiamano la mega-macchina) rende oggi drammaticamente realizzabile il sogno di una domesticazione universale – ivi inclusa quella di altri uomini – e addirittura la possibilità dell'auto-creazione dell'uomo. Tuttavia, come abbiamo scritto nella risposta alla domanda n. 4 del vostro questionario, il mondo attuale, etichettato erroneamente come “post-industriale”, riposa sul rapporto capitale/lavoro, e non ci sbarazzeremo dell'alienazione-reificazione-dominazione-domesticazione se non mettendo fine al salariato, che continua a determinare l'evoluzione umana, oggi ancor più che nel 1867.”


La questione dunque potrebbe ridursi ad un contrasto sì (non contraddizione, espressione che, come la famigerata “lotta di classe”, andrebbero abrogate per decreto o riportate tra le espressioni emblematiche di come non si parli mai del mondo se non in funzione di come si vive), ma tra processo di riproduzione del capitalismo e processo di riproduzione della nostra specie nel capitalismo, nonché gli effetti del primo sull’ambiente (qui è questione mi pare appena indagata, certo solo sollevata, ora in ambito eco socialista e eco anarchico, dai tempi di Podolinsky). Nel primo processo i salariati operano in modo da tenere in piedi la baracca, sicché i veri rivoluzionari sono quegli agenti del capitale che rappresentano in pectore politiche e politiche economiche volte al peggioramento delle condizioni di vita dei più; nel secondo si misura il grado di tenuta della nostra specie all’imbarbarimento in corso, che potrebbe mostrare di perdurare in via indefinita, ossia il capitalismo risolversi in una gestione capitalistica della miseria accettata dai più**. Da ora in poi, recessioni e débâcle finanziarie potrebbero misurare solo i loro effetti sulla interazione di questi due processi e quanto l’uno sia solo funzione dell’altro, o non ad esso interamente riconducibile.

Qui possiamo solo constatare come altra riproduzione della nostra specie stia nell’assenza di tutti i tratti salienti di questa, come bene fanno i nostri due autori.

* Su ciò rimanderei al notevole lavoro di Postone sul “marxismo tradizionale” dal titolo Time, Labour and Social Domination, unico testo a me noto in cui teoreticamente si mostra come in Marx non si esponga una teoria del proletariato come classe rivoluzionaria.

**Nella misura in cui le forze produttive sono un prodotto dei rapporti di produzione capitalistici e inversamente questi ultimi suppongono la meccanizzazione della produzione-distribuzione, il contrasto più che all’interno di questo sistema-processo (in cui esistono i salariati) e per quanto esso sia stato e sia tellurico, dovrebbe essere rintracciato tra questo processo e le nostre capacità sociali acquisite di resistervi, nonché naturali, nella misura in cui questo sistema possiede capacità di influire sull’ambiente naturale e sulla natura umana finora ignoti.


A cura del Partito delle Api Operaie per l’Alvearismo

www.contra-versus.net

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