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Dall'autorganizzazione alla comunizzazione

di R.S.

Una ristrutturazione della contraddizione tra proletariato e capitale


R S Dallautorganizzazione alla comunizzazione img 0Designare la rivoluzione come comunizzazione è dire questa cosa abbastanza banale, che l'abolizione del capitale è l'abolizione di tutte le classi, compreso il proletariato, e non la sua liberazione, il suo ergersi a classe dominante che organizza la società secondo i propri interessi. È dire che l'abolizione dello scambio, della divisione del lavoro, della merce, della proprietà, dello Stato, delle classi, non sono delle misure da prendersi dopo la vittoria della rivoluzione, ma le sole misure attraverso le quali larivoluzione può trionfare. È dire, inversamente, che non c'è “periodo di transizione”. Il proletariato non fa la rivoluzione per instaurare il comunismo, ma attraverso l'instaurazione del comunismo. In questo, tutte le misure della lotta rivoluzionaria saranno misure di comunizzazione. Al di qua, non vi è che la società attuale. Le sconfitte delle rivoluzioni tedesca e spagnola ne sono la triste verifica.

 La ristrutturazione del rapporto di sfruttamento, ossia della lotta di classe dopo l'inizio degli anni '70, la sparizione del “movimento operaio” e di una identità operaia confermata all'interno della riproduzione del capitale, hanno imposto ciò che non era altro che un obiettivo finale da raggiungere dopo la rivoluzione come il corso stesso di quest'ultima.

Con la ristrutturazione, tutte le caratteristiche del processo di produzione immediato (lavoro alla catena, cooperazione, produzione-manutenzione, operaio collettivo, continuità del processo di produzione, subappalto, segmentazione della forza di lavoro), tutte quelle della riproduzione (lavoro, disoccupazione, formazione, welfare), tutte quelle che facevano della classe una determinazione della riproduzione del capitale stesso (servizio pubblico, connessione dell'accumulazione ad un'area nazionale, inflazione strisciante, “ripartizione degli incrementi di produttività”), tutto ciò che rendeva il proletariato un interlocutore nazionale dal punto di vista sociale e politico, ovvero tutto ciò che fondava un'identità operaia a partire dalla quale si giocava il controllo della società come gestione ed egemonia, tutte queste caratteristiche sono laminate o sconvolte.

La situazione anteriore della lotta di classe, così come il movimento operaio, si fondava sulla contraddizione tra la creazione e lo sviluppo di una forza-lavoro impiegata dal capitale in modo sempre più collettivo e sociale da un lato, e le forme – apparse limitate – dell'appropriazione di questa forza-lavoro da parte del capitale, nel processo di produzione immediato come nel processo di riproduzione. Ecco la situazione conflittuale che si sviluppava come identità operaia, che trovava i propri segni e le proprie modalità di riconoscimento (la propria conferma) nella “grande fabbrica”, nella dicotomia tra impiego e disoccupazione, tra lavoro e formazione, nella subordinazione del processo di lavoro alla concentrazione dei lavoratori, nelle relazioni tra salari, crescita e produttività racchiuse all'interno di un'area nazionale, nelle rappresentazioni istituzionali che tutto ciò implica tanto nell'impresa quanto a livello dello Stato. Si aveva produzione e conferma, all'interno stesso della riproduzione del capitale, di un'identità operaia attraverso la quale si strutturava, come movimento operaio, la lotta di classe.

Ma non c'è ristrutturazione del modo di produzione capitalistico senza sconfitta operaia. Questa sconfitta è quella dell'identità operaia, dei partiti comunisti, del sindacalismo, dell'autogestione, dell'autorganizzazione e dell'autonomia. La ristrutturazione è essenzialmente controrivoluzione ed è tutto un ciclo di lotte che è stato sconfitto.

Si può parlare di auto-nomia solo quando la classe è capace di rapportarsi a se stessa in opposizione al capitale e di trovare, in questo rapporto, le basi e la capacità della propria affermazione come classe dominante. Si trattava della formalizzazione di ciò che esiste nella società attuale come base della società nuova, da costruire in quanto liberazione di ciò che esiste. L'autonomia era il progetto di un processo rivoluzionario che procedeva dall'autorganizzazione all'affermazione del proletariato come classe dominante della società, attraverso la liberazione e l'affermazione del lavoro come organizzazione della società. L'autonomia non è che la liberazione dell'operaio in quanto operaio. Adesso ci si accontenta di ripetere che l'autonomia esistente non è quella buona. Ora, è la capacità stessa, per il proletariato, di trovare, nel proprio rapporto con il capitale, la base per costituirsi in classe autonoma e in grande movimento operaio, che è sparita. L'autonomia e l'autorganizzazione hanno rappresentato un momento storico specifico all'interno della storia della lotta di classe, e non delle modalità di azione formali e più o meno atemporali. L'autoorganizzazione non designa una qualsiasi attività nella quale degli individui proletari si consultino direttamente per sapere ciò che stanno per fare insieme, essa è una forma storicamente determinata.

L'autonomia, come prospettiva rivoluzionaria da realizzarsi attraverso l'autorganizzazione, è paradossalmente inseparabile da una classe operaia stabile, ben localizzabile sulla superficie stessa della riproduzione del capitale, confortata nei propri confini e nella propria definizione da questa riproduzione, e riconosciuta in sé come interlocutore legittimo. Il suo soggetto è l'operaio ed essa suppone che la rivoluzione comunista sia la sua liberazione, quella del lavoro produttivo. Essa suppone che le lotte rivendicative siano il trampolino della rivoluzione e che all'interno del rapporto di sfruttamento il capitale riproduca e confermi un'identità operaia. Tutto ciò ha perduto ogni fondamento. L'autorganizzazione è la lotta autorganizzata con il proprio necessario prolungamento, l'autorganizzazione dei produttori; in poche parole, il lavoro liberato; in una sola parola, il valore.

L'autorganizzazione, come teoria e prospettiva rivoluzionarie, ha avuto un senso in quelle stesse e identiche condizioni che strutturavano il “vecchio movimento operaio”.

 

Amara vittoria dell'autonomia


Un piccolo passo indietro

Già nell'Italia del 1969, i settori operai in lotta furono incapaci di creare una “assemblea” in cui confluissero le diverse forme di autorganizzazione, e il movimento venne “recuperato” dalla CGIL e dai suoi Consigli di Fabbrica. Sempre in Italia, col movimento degli auto-convocati (febbraio-marzo 1984) per la “scala mobile”, vediamo l'autorganizzazione farsi difensiva, nel senso che essa esprime la difesa di una passata composizione di classe e di un passato rapporto della classe operaia al capitale, che la ristrutturazione sta per sopprimere. Per la medesima ragione, in Spagna, il movimento delle assemblee (1976, '77, '78) crea o rivitalizza delle strutture sindacali, proprio come l' “autunno caldo” olandese del 1983. Questo è, egualmente, il periodo in cui fioriscono tutti i tipi di “sindacati autonomi”.

È fondamentalmente un tipo storico di classe operaia ad essere rimessa in causa dalla ristrutturazione. Alla Renault, all'epoca degli scioperi del 1975, è lo stabilimento di Mans, là dove la forza-lavoro è la più stabile e il tasso di sindacalizzazione (40%) doppio rispetto alla media nazionale degli stabilimenti Renault, che lo sciopero è più duro e assume perfino degli aspetti di “lotta autonoma”. All'inizio degli anni '80, quando questo processo di sgrassatura arriva a “compimento”, colpendo principalmente gli effettivi costituiti da operai-massa immigrati e provocando un'enorme ondata di scioperi nel settore automobilistico, la violenza delle lotte non si formalizza mai in tentativi di formazione di organismi autonomi. “Vogliono ucciderci, ma noi siamo già morti”, questo è allora lo spirito della lotta. Se, negli anni 1983-84, è egualmente difficile qualificare lo sciopero dei minatori in Gran Bretagna come “lotta autonoma e autorganizzata”, è perché esso fu nei fatti uno sciopero senza rivendicazioni, senza programma, senza prospettive. L'essere classe non si definisce più che attraverso e presso il proprio avversario, nell'azione contro di esso. Il declino e la perdita di senso dell'autonomia non sono un semplice prodotto dell'arretramento delle lotte di classe. La “lotta” non è un'invariante storica, che esprime sempre lo stesso rapporto di classe. Il declino dell'autonomia non è il declino della “lotta”, è il declino di uno stadio storico delle lotte di classe.

Allorché in Francia, a partire dai coordinamenti dei ferrovieri del 1986, l'autorganizzazione diviene la forma dominante di tutte le lotte, essa non è più in rottura con tutte le mediazioni attraverso le quali la classe è prodotta come classe del modo di produzione (rottura che libererebbe la sua natura rivoluzionaria), essa perde il proprio “senso rivoluzionario”: la transcrescenza dall'autorganizzazione della lotta alla gestione operaia della produzione e della società. L'autorganizzazione non è più che una forma radicale di sindacalismo. Ogni lotta rivendicativa di qualche ampiezza e di qualche intensità è ora autorganizzata e autonoma, autorganizzazione e autonomia sono divenute semplici momenti del sindacalismo (distinguendo il sindacalismo dall'esistenza formale di sindacati). Se gli organismi di lotta che si erano dati i portuali spagnoli negli anni '80 tentano di assicurarsi una sopravvivenza e arrivano acambiare forma, è perché non erano altro che organismi di difesa della condizione proletaria. È questa la continuità che spiega il passaggio dal primo al secondo momento. I teorici dell'autonomia vorrebbero che, in quanto tali, gli “organismi autonomi” inventino il comunismo, rimanendo in tutto e per tutto ciò che sono: organi della lotta rivendicativa. In quanto tali, la loro inclinazione naturale è invece la permanenza e dunque la “trasformazione” in organismi più o meno sindacali.

In tutti i discorsi attuali sull'autonomia, è patente constatare che è la rivoluzione ad essere scomparsa. Ciò che, fino ai primi anni '70, era la ragion d'essere stessa del discorso sull'autonomia, la sua prospettiva rivoluzionaria, oggi è divenuto pressoché indicibile. Difendere e valorizzare l'autonomia diviene un fatto autosufficiente e ci si guarda bene dall'articolare una prospettiva rivoluzionaria. Ora come ora, ci si accontenta di ripetere che l'autonomia esistente non è quella buona.

Attualmente, in maniera immediata, ovunque trionfino l'autorganizzazione e l'autonomia, si manifesta l'insoddisfazione verso di esse. Già nel 1986, in Francia, i coordinamenti dei ferrovieri avevano suscitato delle manifestazioni di grande diffidenza, proprio come nel 2003 la volontà di costituire dei coordinamenti più ampi, al di là dei collettivi locali. All'interno stesso dell'autorganizzazione attuale e trionfante, è ciò che va contro di essa che annuncia l'abolizione delle classi. Questa natura di liberazione della classe a partire dalla sua affermazione autonoma (avendo “rotto” i suoi legami sociali capitalistici), che è stata la definizione della rivoluzione nel precedente ciclo, è ora la ragione per cui l'autorganizzazione e l'autonomia esistono e sono vissute coscientemente come il limite di tutte le lotte attuali. In quanto prospettiva rivoluzionaria di liberazione dell'operaio in quanto operaio, l'autonomia è storicamente caduca, essa non è più altro che la difesa radicale della condizione proletaria.


Dell'autorganizzazione nelle lotte attuali

A partire dagli anni '80, l'autorganizzazione diviene la forma dominante di tutte le lotte, essa non è più in rottura con tutte le mediazioni attraverso le quali la classe esiste come classe del modo di produzione (rottura che libererebbe la sua natura rivoluzionaria), essa non è più che una forma radicale che accompagna il sindacalismo. Se vi sono attualmente delle lotte che rompono con tutte queste mediazioni, bisogna domandarsi se si può – nonostante tutto – chiamarle autorganizzate. Hanno esse qualcosa da autorganizzare? No, e sarebbe fermarsi alla superficie delle cose il credere che questo qualcosa sia la lotta stessa. Esse, oggi, non possono rompere con queste mediazioni, se non portando in seno la rimessa in causa dell'appartenenza di classe in quanto tale, ovvero rimettendo in questione la ragione stessa dell'esistenza delle mediazioni. Nell'attività del proletariato, l'essere classe diventa una costrizione esteriore oggettivata nel capitale. Essere una classe diviene l'ostacolo che la propria lotta in quanto classe deve oltrepassare; questo ostacolo possiede una realtà chiara e facilmente individuabile: l'autorganizzazione e l'autonomia.

Attualmente, in numerosi conflitti, come quello dei portuali della costa ovest degli Stati Uniti, il padronato cerca di stroncare i sindacati per la stessa ragione per la quale tenta di stroncare, quando si manifesta, l'autonomia operaia, giacché entrambi appartengono alla stessa epoca, alla stessa logica della riproduzione capitalistica. Ai nostri giorni, nelle poste del Regno Unito o nei porti della west-coast degli USA, la lotta autonoma degli operai si congiunge nel suo contenuto alla difesa delle grandi centrali sindacali, non per motivi di utilizzazione momentanea dei sindacati da parte dei lavoratori, ma per ciò che queste sono: dei grandi istituti di gestione dell'autonomia della forza-lavoro.

Lo sciopero selvaggio, anche laddove si accompagni alla formazione di organismi autonomi, non è più altro che un sostituto o un accompagnamento dell'azione sindacale. È diventato impossibile attendersi altro o sperare in una dinamica interna che sia il suo proprio superamento a partire da essa e non contro di essa.

In Italia, nel dicembre 2003, il movimento di sciopero degli autoferrotranvieri non ha fatto nascere alcuna organizzazione formale inter-depositi. Il responsabile del coordinamento dei conducenti di Brescia, aderente al coordinamento nazionale, si accontenta di dire che lo sciopero illegale era “la sola arma di cui disponevano i lavoratori” e che “se i sindacati hanno ripreso la nostra rivendicazione di 106 euro di aumento, è perché hanno ascoltato la base”; e aggiunge: “lo sciopero non è diretto contro i sindacati”. Infine, i tranvieri di Milano riesumano lo sciopero selvaggio con lo slogan “il sindacato siamo noi”. E, se i “sindacati di base” hanno interpretato alla perfezione il ruolo di valvola di sfogo della collera dei salariati, va detto che i salariati hanno pienamente accettato che essi giocassero tale ruolo.

Pensare che le lotte dure come quella degli autoferrotranvieri o dei metalmeccanici della FIAT di Melfi siano delle lotte propriamente autonomie, è allo stesso tempo totalmente falso e totalmente vero. Totalmente falso, se si ha in testa l'autonomia come primo atto della rivoluzione verso l'affermazione del proletariato e la liberazione del lavoro; totalmente vero, se si tiene conto dell'autonomia nella sua realtà attuale, come momento del sindacalismo. A Melfi, la lotta degli operai FIAT del maggio 2004 si è avviata con degli scioperi chiamati dai sindacati per il pagamento dei giorni di disoccupazione tecnica; rapidamente i lavoratori hanno superato questo quadro e hanno aggiunto a queste rivendicazioni l'organizzazione delle ore lavorative e i salari (aggiunte accettate dai sindacati). Lo sciopero è controllato dall'inizio alla fine dalla FIOM, anche nel momento del blocco dell'officina; gli operai delegano ai sindacati la ricerca di un'estensione della lotta agli altri stabilimenti FIAT e le redini della negoziazione. Quando l'accordo (nemmeno malvagio) è concluso, il tentativo dei Cobas di contestarlo fallisce. Gli operai non hanno costituito alcuna organizzazione autonoma, ma ciò non impedisce agli ideologi dell'autorganizzazione di concludere: “con la lotta degli operai di Melfi l'autonomia operaia in Italia ha raggiunto un nuovo traguardo”. L'autonomia non si dispiega e non raggiunge traguardi che nella testa dei militanti rimasti inchiodati al sogno di Mirafiori: una fabbrica “in mano agli operai”. Per farne cosa?

Roberto Maroni, all'epoca ministro del welfare del governo Berlusconi, in un'intervista al Corriere della Sera, dichiara: “Quando i sindacati si impegnano di fronte al governo a interrompere i blocchi [si riferisce a Melfi, ma anche agli scioperi di Alitalia e nei trasporti pubblici, nda] e ciò non si verifica, allora si pone un problema di rappresentanza. Il sistema attuale rischia di non essere in grado di gestire i conflitti. […]È venuto il momento di coinvolgere anche le organizzazioni autonome negli accordi, dato che sono più presenti e più attive tra i lavoratori”. Il discorso di Maroni è evidentemente interessante per ciò che propone, ma non è soltanto interessante, è anche vero. Maroni riconosce ciò che dovrebbe allietare il cuore del partigiano dell'autonomia: le forme di lotta autonome sono rappresentative. È “recupero”, è “manipolazione”, diranno gli ideologi, e invece no! Maroni è molto più lucido: il sindacalismo delle lotte rivendicative passa attraverso delle organizzazioni autonome; “riconosciamo queste organizzazioni come interlocutori”, dice il ministro.

La capacità di lotta di cui i lavoratori italiani sembrano dare prova, offre vaste prospettive per l'avvenire, allorché, costretti dalla situazione e dal corso delle lotte, i lavoratori – italiani e non – affronteranno la loro propria situazione di lavoratori, che l'autonomia formalizza oggi come forma avanzata di sindacalismo. Già l'autonomia, tale quale si è realmente manifestata a Melfi, si è rivelata incapace, per la sua stessa natura, di esprimere la rivolta contro il lavoro così presente nella lotta di questi operai.

L'autorganizzazione formalizza, nella lotta rivendicativa, l'inconciliabilità degli interessi tra classe operaia e classe capitalista, essa è il momento necessario dell'apparizione dell'appartenenza di classe come costrizione esteriore e la forma all'interno della quale muoverà i primi passi, contro di essa, la comunizzazione dei rapporti tra individui.

 

L'autorganizzazione è il primo atto della rivoluzione, il seguito si effettua contro di essa


Se l'autonomia come prospettiva rivoluzionaria è scomparsa, è perché la rivoluzione non può più avere altro contenuto se non la comunizzazione della società, ovvero, per il proletariato, la propria abolizione. Con un tale contenuto, diventa inadeguato parlare di autonomia, ed è poco probabile che untale “programma” passi per ciò che si intende abitualmente con “organizzazione autonoma”. È oggi, all'interno dell'autorganizzazione e dell'autonomia, contro di esse, che si produce la dinamica di questo ciclo di lotta, come uno scarto all'interno della lotta di classe in generale e dell'autorganizzazione in particolare, ovvero come uno scarto all'interno dell'azione in quanto in classe. L'attività di classe del proletariato è oggi sempre più internamente lacerata: scomparsa ogni liberazione e affermazione, non c'è azione di classe che rimanga tale e che non abbia il capitale come unico orizzonte; simultaneamente, nell'azione contro il capitale, è la propria esistenza come classe, che la classe si trova di fronte e che essa deve trattare come qualcosa da sopprimere. Tutte le lotte sono destinate a vivere questo scarto, questa lacerazione interna.


Dalle lotte rivendicative alla rivoluzione: una rottura

Se l'autorganizzazione come dinamica rivoluzionaria è divenuta obsoleta, è perché la relazione tra le lotte rivendicative e la rivoluzione è divenuta problematica. L'autorganizzazione è stata la forma più radicale di una relazione tra le due intesa come una transcrescenza, un processo graduale e continuo. L'autorganizzazione non è più altro che un surrogato o un accompagnamento dell'azione sindacale. È diventato impossibile attendersi altro o sperare in una dinamica interna che sia il suo superamento sulle proprie stesse basi e non contro di essa.

L' “autonomia delle lotte” come capacità di passaggio dalla lotta rivendicativa alla lotta rivoluzionaria è una costruzione ideologica che non prende in considerazione il contenuto del passaggio, si ferma ad un approccio formale della lotta di classe. Se il contenuto del passaggio è lasciato da parte, è perché l'autonomia impedisce di comprenderlo come rottura, salto qualitativo. Il “passaggio” non sarà allora che un'affermazione e una rivelazione della vera natura di ciò che esiste: il proletariato, tale qual è presso il capitale, trionfa nella rivoluzione, diviene il polo assoluto della società. Il “salto” non è allora che una formalità. Ovviamente, quando il proletariato si autorganizza rompe con una situazione anteriore, ma se questa rottura non è altro che la sua “liberazione”, la riorganizzazione di ciò che è, della sua attività senza il capitale, e non la distruzione della sua situazione anteriore, ovvero se rimane autorganizzato e non supera questo stadio, allora non può che essere infine sconfitto.

Nessuno può negare che la lotta rivoluzionaria si agganci alla lotta rivendicativa e sia prodotta da essa. La questione risiede nella natura del passaggio. Il solo contenuto “profondamente anticapitalista” che si opponga alla logica capitalista che una lotta possa avere, è l'attacco ai rapporti di produzione capitalistici, ovvero – per il proletariato – alla sua propria esistenza, alla riproduzione dello sfruttamento e delle classi. Una lotta rivendicativa che affronti tutto questo non è più una lotta rivendicativa, a meno che non si intenda per lotta rivoluzionaria la presa del potere sulla società, il proletariato che si fa classe dominante.

Nel corso della lotta, quello che era il soggetto dell'autonomia si trasforma e abbandona i suoi vecchi abiti, per riconoscersi unicamente nel suo esistere per il capitale, ciò che è l'esatto contrario dell'autonomia e dell'autorganizzazione che, per natura, hanno come orizzonte la liberazione del proletariato, la sua affermazione se non (per i nostalgici) la sua dittatura. Si può parlare di “dinamica” delle lotte, ma ciò porta a una impasse in rapporto all'autotrasformazione del soggetto, significa non vedere che in questa “dinamica” ciò che si abolisce è il soggetto che si autorganizza, e che questa “dinamica” non esiste che per abolirsi, come il soggetto che si autorganizza. Fintanto che il proletariato si autorganizza, non può farlo che all'interno delle categorie del capitale. Non si tratta di emettere una condanna normativa dell'autorganizzazione, ma di dire ciò che essa è, di dire che la rivoluzione non è una dinamica contenuta in essa che non aspetterebbe altro che di disvelarsi.

Questo cambiamento è una rottura. Non è una questione di definizione dell'autorganizzazione o dell'autonomia, si tratta di un processo sociale, un processo di rottura nella lotta di classe, l'autotrasformazione di un soggetto che abolisce ciò che lo definisce. Dire che si tratta di un flusso, di una dinamica, maschera la rottura come trasformazione del soggetto della lotta che si abolisce come proletario, che non è dunque più il soggetto che si autorganizza a partire dalla sua situazione di proletario.

Una lotta rivoluzionaria prende le mosse dai conflitti tra proletari e capitalisti su interessi immediati, e dal carattere inconciliabile di questi interessi: essa è, se si vuole, ancorata a questi conflitti; ma se ad un dato momento della lotta rivendicativa, i proletari – costretti e forzati dal loro scontro con la classe capitalista – non levano l'ancora, la loro lotta rimarrà una lotta rivendicativa e, come tale, andrà incontro alla vittoria, o più spesso alla sconfitta, purtroppo. Nel caso opposto, essi attaccheranno i rapporti mercantili, impadronendosi dei beni e dei mezzi di produzione, integrando nella produzione comunitaria coloro che il salariato non può assorbire, introducendo la gratuità, eliminando il quadro dell'impresa come origine dei prodotti, superando la divisione del lavoro, abolendo ogni sfera autonoma e l'economia in primo luogo, dissolvendo la loro autonomia per coinvolgere nei rapporti non mercantili così posti in essere, tutti i senza riserve e anche la gran parte della classe media, che il loro movimento avrà ridotto in miseria; in tal caso, saranno la loro precedente esistenza e associazione di classe e, come corollario, le loro rivendicazioni economiche, ad essere superate. Non si lotta contro lo scambio e la dittatura del valore che intraprendendo la comunizzazione.

Il proletariato abolisce il valore, lo scambio e tutti i rapporti mercantili nel corso della guerra che lo oppone al capitale, ed è là che risiede la sua arma determinante; integra attraverso delle misure di comunizzazione la stragrande maggioranza dei senza riserve, delle classi medie e delle masse contadine del Terzo Mondo (l'esempio delle lotte in Argentina deve fare riflettere, non per difendere l'interclassismo ma l'abolizione delle classi).

Presupporre che ogni lotta sul salario contenga una rivolta contro il salariato è presupporre questi due elementi come contenuti l'uno nell'altro, e non il secondo come superamento contraddittorio del primo. Una tale visione non può condurre oggi che al democratismo radicale. Il cittadinismo, l'altermondialismo, o meglio il democratismo radicale sono semplicemente il progetto del compimento delle lotte rivendicative, e in quanto tali esse non possono averne altri. L'evoluzione del tempo di lavoro sarebbe portatrice di un'emancipazione nel tempo libero; il salario minimo garantito diventa il passaggio progressivo ad un'attività benefica per l'individuo e per la società, ovvero l'abolizione dello sfruttamento all'interno del sistema salariale; la rivendicazione salariale diventa ripartizione della ricchezza; la critica della mondializzazione e della finanza sarebbe primaria rispetto a ciò che viene mondializzato (il capitale), il liberismo e la mondializzazione equivarrebbero allo sfruttamento.

Coloro che parlano in continuazione di dinamica delle lotte accantonano del tutto questo momento essenziale: il proletariato in quanto soggetto della rivoluzione si abolisce come soggetto dell'autonomia. Se il proletariato si abolisce, non si autorganizza. Chiamare il movimento nel suo complesso “autorganizzazione”, significa essere ciechi di fronte al suo contenuto.

Si può sempre sostenere che l'autorganizzazione sia il flusso stesso di questa trasformazione che interviene nella lotta di classe. Si sarà così in primo luogo fatta sparire la rottura, inoltre si sarà dissociato ciò che nell'attività rivoluzionaria è omogeneo: la coincidenza del cambiamento delle circostanze e dell'attività. Dunque il proletariato si organizza ma non si autorganizza, in quanto il motore di questa autotrasformazione è prima di tutto la produzione di ciò che esso è come una costrizione esteriore: la sua ragion d'essere fuori di sé. Quando, nel corso della lotta, il proletariato è costretto a rimettere in causa ciò che è, allora non c'è più autorganizzazione, poiché il corso della lotta non conferma più alcun soggetto preesistente tale quale sarebbe fuori dalla lotta. La lotta può essere allora indipendente da ogni partito, sindacato, istituzione, ma non sarà per questo autorganizzata, giacché non troverà il suo principio in se stessa come una messa in forma di ciò che il proletariato è in quanto tale. Non si può, dunque, parlare di autorganizzazione della lotta, poiché parlare di autorganizzazione delle lotta è parlare di autorganizzazione del soggetto.

Continuare a parlare di autorganizzazione come di un flusso o di un'evoluzione di rotture, significa fare confusione e annacquare il contenuto stesso della rottura.

Si può parlare di “autorganizzazione della lotta”, ma ciò non impedisce che nelle lotte i proletari ritrovino tutte le divisioni del salariato e dello scambio e nessuna forma organizzativa adatta a scavalcare tali divisioni, ciò che è possibile solo col cambiamento di contenuto della lotta; ma allora ci troviamo di fronte alla rottura che consiste nel riconoscere nel capitale la propria necessità in quanto classe (all'esterno di sé), che è il contrario di tutte le “auto-logie”.

L'unità del proletariato

Nessun movimento rivoluzionario si potrà qualificare come autonomo o autorganizzato, se il proletariato si abolisce e non si autorganizza. L'attività è sempre organizzata, ma non sempre autorganizzata (riproduzione/liberazione del soggetto presupposto). Riconoscersi come classe non sarà un “ritorno presso di sé” ma una totale estroversione, il riconoscimento di sé come categoria del modo di produzione capitalistico. Ciò che siamo come classe è immediatamente il nostro rapporto al capitale.

Il proletariato non è sparito, né è divenuto una pura negatività, ma lo sfruttamento non mette più in movimento una figura sociale omogenea, centrale e dominante della classe operaia, in grado di avere coscienza di sé come soggetto sociale, nel senso abitualmente inteso, di fronte al capitale.

Integrata in una totalità altra, e avendo perduto la sua centralità in quanto principio organizzatore del processo di lavoro, la grande fabbrica delle grandi concentrazioni operaie non è scomparsa, ma non sisitua più al cuore del processo lavorativo e del processo di valorizzazione, molto più diffuso. È divenuta elemento di un principio organizzativo che la trascende. Nella contraddizione tra proletariato e capitale, non c'è più nulla di sociologicamente dato a priori, come poteva essere “l'operaio-massa” della grande fabbrica. Il carattere diffuso, segmentato, polverizzato, corporativo dei conflitti è la necessaria contropartita di una contraddizione tra le classi che si situa a livello della riproduzione del capitale. Ma non trattandosi di una somma di elementi giustapposti, bensì di una configurazione storica della contraddizione tra proletariato e capitale, un conflitto particolare, dotato di caratteristiche proprie, attraverso le condizioni nelle quali si svolge, attraverso il periodo nel quale appare, può trovarsi nella condizione di poter polarizzare l'insieme di questa conflittualità che fino a quel momento appariva come irriducibilmente diffusa e diversificata.

Per unirsi, gli operai devono frantumare il rapporto attraverso il quale il capitale li “raggruppa”. Non si può desiderare allo stesso tempo l'unità del proletariato e la rivoluzione comunista, cioè questa unità come presupposto della rivoluzione, come sua condizione. Non vi sarà unità che con la comunizzazione, è solo quest'ultima che, attaccando il salariato e lo scambio, unificherà il proletariato; in altri termini, non vi sarà unità del proletariato che nel movimento della sua abolizione. Le agiografie delle lotte rivendicative parlano al vento di “unità”, senza poter precisare in nessun modo la forma concreta che essa riveste, a meno che non si tratti dell'unità formale della politica o delle forme di organizzazione che vanno a pettinare ciò che è diviso e che rimarrà tale fintanto che la classe permane nella lotta rivendicativa. Questa unità è ciò che bisognerebbe sempre aggiungere alle lotte.

Gli operai si fanno classe rivoluzionaria rivoluzionando i rapporti sociali, ovvero tutto ciò che essi sono all'interno delle categorie dello scambio e del salariato. Nelle lotte salariali non si vedranno apparire né le “forze” né un “progetto”, ma l'impossibilità di unificarsi senza attaccare la propria esistenza come classe nella divisione del lavoro e in tutte le divisioni del salariato e dello scambio, senza rimettersi in causa come classe, senza impegnarsi in una prassi rivoluzionaria. La sola unificazione del proletariato è quella che esso realizza abolendosi. Le misure comunizzatrici intraprese in un punto “qualunque” (certamente in modo quasi simultaneo in una moltitudine di luoghi) del pianeta capitalista avranno questo effetto unificatore, oppure saranno schiacciate.


Superare l'autorganizzazione

Marx, come tutti i rivoluzionari, vedeva un salto, una negazione, ma la differenza rispetto ad oggi è che l'associazione permanente permetteva di intravvedere la possibilità di una continuità organizzativa da una fase all'altra. Attualmente, i partigiani dell'autonomia cercano nella difesa del prezzo della forzalavoro o in determinate forme di lotta un “qualcosa”, dei “germi”, delle “potenzialità” di rivoluzione. In questa attesa di una dinamica delle lotte, sarebbe la lotta che genererebbe da se stessa un'altra lotta. Ma le “lotte” sono soltanto momenti dell'attività dei proletari che questi ultimi superano e negano, non sono fenomeni che si concatenano gradualmente, come se una lotta portasse in sé i germi di un'altra lotta. Insomma, il legame tra le “lotte” lo effettua negativamente il soggetto che si trasforma. Questo legame non è evolutivo.

L'autorganizzazione presuppone che la definizione della classe operaia le sia inerente, e passare dal soggetto all'attività non cambia nulla in questo. Non si tratta di scannarsi sul senso delle parole, ma ciò che si vuole vedere in un'autorganizzazione più o meno rivoluzionaria, o alle prese con la rivoluzione, è totalmente differente dall'autorganizzazione realmente esistente; c'è una rottura, ed è questa rottura che deve interessarci. Se si sfuma questa rottura, allora si conserva in un modo o nell'altro il vecchio schema dell'autonomia. Ma non si sfugge ad un'incoerenza: da una parte affermare che la rivoluzione è abolizione delle classi; dall'altra esercitarsi su uno schema che valorizza l'autorganizzazione come processo rivoluzionario. L'autorganizzazione può essere questo processo nella misura in cui è il “rifiuto delle mediazioni”, ma – oltre a essere, questa, la solita solfa dell'ultra-sinistra – ciò che annuncia la rottura non è il rifiuto delle mediazioni, bensì la rimessa in causa di ciò che fa sì che esista una qualsiasi mediazione: essere una classe. Non si tratta di individui indefiniti che “imparano” a “governarsi da soli” al di fuori di ognimediazione. È contro ciò che avranno “appreso” governando se stessi, cioè la loro propria posizione di classe in questa società, che i proletari dovranno fare la rivoluzione.

Il processo rivoluzionario è quello dell'abolizione di ciò che autorganizzabile. L'autorganizzazione è il primo atto della rivoluzione, il seguito si effettua contro di essa. Quando il rapporto contraddittorio tra proletariato e capitale si situa a livello della riproduzione, contiene la rimessa in causa del movimentonel quale il primo si riproduce come classe. È là che si trova il contenuto e la posta in gioco dell'odierna lotta di classe.
 

L'annuncio

Nel passaggio dalle lotte rivendicative alla rivoluzione, non si può avere che una rottura, un salto qualitativo, ma tale rottura non è un miracolo, e nemmeno la semplice constatazione da parte del proletariato che non c'è altro da fare se non la rivoluzione, di fronte allo scacco di tutto il resto. “ One solution, revolution” è l'insulsaggine speculare a quella della dinamica rivoluzionaria delle lotte rivendicative. La rottura si produce positivamente attraverso lo svolgimento del ciclo di lotte che la precede e si può dire che ne faccia ancora parte. Tale rottura si annuncia nella moltiplicazione di momenti di scarto, all'interno della lotta di classe, tra la rimessa in causa da parte del proletariato della propria esistenza come classe nella sua contraddizione col capitale da un lato, e la riproduzione del capitale – che implica il fatto stesso di essere una classe – dall'altro. Questa scarto è la dinamica di questo ciclo di lotte, esso esiste in modo empiricamente constatabile.

Due elementi riassumono l'essenziale dell'attuale ciclo di lotte:

− la sparizione di un'identità operaia confermata all'interno della riproduzione del capitale, ovvero la fine del movimento operaio e, come corollario, il fallimento dell'autorganizzazione e dell'autonomia come prospettiva rivoluzionaria;

− con la ristrutturazione del modo di produzione capitalistico, la contraddizione tra le classi si situa a livello della loro rispettiva riproduzione. Nella sua contraddizione al capitale, il proletariato si rimette esso stesso in causa.

La possibile esistenza di una corrente comunizzatrice risiede nello scarto esistente all'interno dell'agire in quanto classe, che l'autorganizzazione (quale che sia) formalizza e ratifica: uno scarto in rapporto al contenuto stesso dell'autorganizzazione. Agire in quanto classe significa oggi, da un lato, non avere altro orizzonte che il capitale e le categorie della sua riproduzione; dall'altro, e per le stesse ragioni, essere in contraddizione con la propria riproduzione di classe, rimetterla in causa.

Le lotte rivendicative presentano delle caratteristiche che sarebbero state impensabili una trentina d'anni fa.

Nel corso degli scioperi del '95 in Francia, nelle lotte dei sans-papier, dei disoccupati, dei portuali di Liverpool, nelle lotte alla Cellatex, all'Alstom, alla Lu, alla Marks & Spencer, nella sollevazione sociale argentina, nell'insurrezione algerina etc., questa o quella caratteristica della lotta appare come limite nel corso della lotta stessa, poiché è contro questa caratteristica specifica (servizi pubblici, richiesta di lavoro, difesa dello strumento di lavoro, rifiuto della delocalizzazione, della sola gestione finanziaria, recupero dell'officina, autorganizzazione etc.) che il movimento va a cozzare, spesso nelle tensioni e negli scontri interni dell'arretramento, ciò che è riconducibile al fatto di essere una classe e di rimanerlo; fatto che, contrariamente al periodo precedente, risulta impossibile volgere positivamente, quale annuncio dell'affermazione della classe.

Non si tratta, il più delle volte, di dichiarazioni roboanti o di azioni “radicali”, ma di tutte le pratiche di “fuga” o di diniego dei proletari di fronte alla propria condizione. Nelle lotte suicide alla Cellatex, nello sciopero di Vilvoorde e in tante altre situazioni, ciò che colpisce è che il proletariato non sia in nulla separato dal capitale e che non possa restare in questo nulla (che esso reclami la propria riunione con il capitale non sopprime l'abisso che apre la lotta, il riconoscimento e il rifiuto di se stesso da partedel proletariato in questo abisso). È l'inessenzializzazione del lavoro che diviene l'attività stessa del proletariato, in maniera tragica nelle sue lotte senza prospettiva immediata (lotte suicide) e in attività autodistruttrici, così come nella rivendicazione di questa inessenzializzazione, ad esempio nelle lotte dei disoccupati e precari dell'inverno 1998. Quando si manifesta – come in occasione degli scioperi nei trasporti italiani o tra gli operai della Fiat di Melfi – il fatto che l'autonomia e l'autorganizzazione non sono altro che la prospettiva di questo nulla, è là che si costituisce la dinamica di questo ciclo di lotte e si prepara il superamento della lotta rivendicativa a partire dalla lotta rivendicativa. Il proletariato si trova di fronte la sua propria definizione in quanto classe, la quale si autonomizza, diviene estranea in rapporto ad esso. Le pratiche autorganizzative ed il loro divenire ne sono il segno patente.

Mettere la disoccupazione e la precarietà al cuore del rapporto salariale; definire la clandestinità come la situazione generale della forza-lavoro; porre – come all'interno del Movimento di Azione Diretta – l'immediatezza sociale dell'individuo come fondamento, già esistente, dell'opposizione al capitale; portare avanti delle lotte suicide come quelle della Cellatex e altre simili della primavera e dell'estate del 2000 (Metaleurop – con qualche riserva –, Adelshoffen, la Société Française Industrielle de Contrôle et d’Equipements, Bertrand Faure, Mossley, Bata, Moulinex, Daewoo-Orion, ACT -ex Bull); rinviare l'unità della classe ad un'oggettività costituita presso il capitale – questi, per ciascuna di queste lotte, sono contenuti che costruiscono la dinamica di questo ciclo all'interno del corso di queste stesse lotte. Nella maggior parte delle lotte attuali compare la dinamica rivoluzionaria di questo ciclo di lotte, che consiste nel produrre la propria esistenza come classe presso il capitale, dunque rimettersi in causa come classe (non c'è più alcun rapporto a sé); questa dinamica trova il suo limite precisamente in ciò che la definisce come dinamica: agire in quanto classe. Noi siamo, teoricamente, le vedette e i promotori di questo scarto che – all'interno della lotta del proletariato – è la sua propria rimessa in causa, e ne siamo praticamente gli attori allorché vi siamo direttamente coinvolti. Noi esistiamo in questa rottura.

I collettivi

La moltiplicazione di collettivi e il ricorrere di scioperi intermittenti (gli scioperi della primavera 2003 in Francia, lo sciopero dei lavoratori delle poste inglesi) rendono palpabili – nel loro tentativo di smarcarsene – che l'unità della classe è un'oggettivazione che non esiste che presso il capitale. Non si tratta di giudicare questi fenomeni alla luce di una visione normativa che non vi vedrebbe che un'incompiutezza, un mancato raggiungimento del loro proprio progetto di unificazione della classe, necessaria alla sua affermazione. In queste lotte, è l'esteriorizzazione dell'appartenenza di classe che si annuncia come una caratteristica attuale, presente, della lotta in quanto classe. In tutti questi movimenti, intendere la segmentazione come una debolezza da superare con l'unità, significa porre una questione formale e rispondervi in maniera altrettanto formale. La diffusione di questi movimenti, la loro diversità, la loro discontinuità costituiscono il loro interesse e la loro stessa dinamica. “Spingersi più in là”, non significa sopprimere la segmentazione nell'unità, che sarebbe una risposta formale forse già caduca; non si tratta di perdere la segmentazione, le differenze. “Spingersi più in là” equivale, in altre circostanze, alla contraddizione tra queste lotte di classe nella loro diversità e l'unità della classe oggettivata presso il capitale. Non si tratta di dire che più la classe è divisa e meglio è, ma che la generalizzazione di un movimento di scioperi non è sinonimo della sua unità, ovvero del superamento delle differenze – considerate come puramente accidentali e formali. Si tratta di iniziare a comprendere ciò che è in gioco in questi movimenti diffusi, segmentati e discontinui: la creazione di una distanza in rapporto a questa unità “sostanziale” oggettivata presso il capitale. Questa estrema diversità, conservata e perfino approfondita in un movimento più generale in contraddizione con il capitale, e quest'unità oggettiva che esso rappresenta, è forse una condizione dell'articolazione tra le lotte quotidiane e la comunizzazione. Fatti simili sono, attualmente, una determinazione inaggirabile della lotta di classe. L'unità della classe non può più costituirsi sulla base del salariato e delle lotte rivendicative, come una precondizione alla sua attività rivoluzionaria. L'unità del proletariato non può più essere che l'attività nella quale esso si abolisce, abolendo tutto ciò che lo divide. Sarà una frazione del proletariato che, superando il carattere rivendicativo della propria lotta, prenderà delle misure comunizzatrici, e che avvierà allora l'unificazione del proletariato – che non differisce da quella dell'umanità, o piuttosto dalla sua creazione come insieme di relazioni che gli individui stabiliscono fra loro attraverso la propria singolarità. La tendenza di fondo che costituisce, in ogni lotta di qualche importanza e durata, la creazione di “collettivi” che non rientrano nel campo dell'autorganizzazione o dell'autonomia, rinvia alla sparizione dell'identità operaia. Questi organismi non sono, come l'autonomia, una migliore organizzazione/sopravvivenza della classe, rispetto alle sue forme rappresentative istituzionali – alle quali lasciano ciò che appartiene loro (ai sindacati quel che è dei sindacati) – ma la creazione di una distanza rispetto a queste forme, che ha per contenuto una distanza dalla classe stessa; una distanza posta contro un'unità della classe esistente come qualche cosa di oggettivo all'interno della riproduzione del capitale. I nostalgici del Gran Partito e dell'unità dei grandi battaglioni della classe operaia, si cullano nell'illusione che questa segmentazione sia subita; essa è più spesso voluta, costruita e rivendicata. La natura della segmentazione e dei collettivi, è – all'interno della lotta di classe – un'attività di estraneazione del proletariato in rapporto alla sua propria definizione come classe. Come potrà costruirsi, in un movimento generale di lotta di classe, una “unità” che non sia un'unità, ma un'interattività? Dobbiamo ammettere come estremamente positivo il fatto che le caratteristiche del nuovo ciclo di lotte non siano, per noi, già date, se non in proporzione alla lotta quotidiana ordinaria.

Attività che producono l'oggettivazione dell'esistenza e dell'unità della classe

Questa unità di classe – anche come sciopero generale, nella visione “classica” della cosa – è entrata nell'età del sospetto. Quando gli scioperanti della primavera del 2003, in Francia, hanno reclamato lo sciopero generale, non hanno chiesto ai sindacati ciò che essi stessi non stavano facendo ma che avrebbero voluto fare, hanno chiesto ai sindacati qualcosa d'altro rispetto a ciò che stavano facendo. Ed ecco un movimento “di base”, “spontaneo”, “autorganizzato”, il quale non vede altro esito che nello sciopero generale richiesto a dei sindacati da cui si distanzia quotidianamente. Non c'è per forza una contraddizione (e in ogni caso è cosi che le cose sono andate), ma è difficile presentare l'appello ai sindacati come la semplice continuazione del movimento di sciopero. Stranamente, questo movimento non chiama lo sciopero generale quando è in fase montante, ma quando è ormai certo il suo declino, ciò che mette il carattere dello sciopero generale sotto una strana luce. Sono le loro stesse azioni che gli scioperanti non sono riusciti a controllare. Quindici giorni prima, la diversità e l'interazione delle loro attività erano il filo rosso attraverso il quale la classe esisteva di fronte a se stessa come distinzione in rapporto alla sua unità e alla sua esistenza oggettivata nella riproduzione del capitale. L'unità della classe esiste sempre e comunque, essa è un'unità oggettiva nella riproduzione del capitale, e fare appello ai sindacati era semplicemente riconoscere questa unità allo stesso livello al quale esiste, come un'ipostasi.

Algeria: “Quando mi si parla delle Aarchs, ho l'impressione che si parli di qualcosa che mi è estraneo”

Il movimento insurrezionale partito dalla Cabilia si è autorganizzato nelle aarchs nello stesso momento in cui si manifestava la sua insoddisfazione di fronte alle forme di autorganizzazione che si era dato. Queste ultime assumevano, nel movimento stesso della loro instaurazione, le caratteristiche del democratismo radicale.

Dal momento che l'insurrezione algerina della Cabilia, malgrado o a causa della sua grande violenza, si è limitata a attaccare le istituzioni dello Stato, ma ha lasciato intatti i rapporti di produzione, di scambio e di distribuzione poiché non erano il suo obbiettivo e non aveva i mezzi per attaccarli (malgrado poche marginali modificazioni legate alla solidarietà e al mutuo appoggio che caratterizzano tutti i periodi in cui il quadro sociale abituale viene sconvolto), questa insurrezione doveva autorganizzarsi. Dunque, la sua autorganizzazione non è stata che il sintomo di rapporti sociali rimasti immutati e della individuazione di un obbiettivo limitato: la liberazione della società da uno Stato “corrotto” e “corruttore”. È allora da questa stessa limitazione che nascono le forme d'organizzazione che l'insurrezione si dà, ovvero forme di autorganizzazione. Ma simultaneamente le sommosse non trovano prospettive rivendicative, se non di una generalità tale (la fine della hogra) da renderle insensate. L'autorganizzazione è stata vissuta come esteriore e insoddisfacente nel momento in cui è era la forma e il contenuto necessario della lotta.

I “giovani selvaggi”

Si tratta del rifiuto di tutto l'ordine del sistema produttivo capitalistico, da parte di consistenti frazioni di giovani operai. Questo rifiuto non lascia spazio alle seduzioni o alle sanzioni dell'integrazione né alle costruzioni ideologiche in stile “autogestione”. Una tale situazione non ha nulla in comune con ciò che si poteva osservare negli anni '70 negli Stati Uniti o in Europa. Le “vittime collaterali” dei “giovani selvaggi” sono le favole sulla cooperazione che collega i lavoratori tra loro (per se stessi), trampolino dell'autorganizzazione e dell'autonomia rivoluzionarie.

Argentina : una lotta di classe contro l'autonomia

Ricordiamo l'essenziale: il grande periodo dell'autonomia delle lotte in Argentina, alla fine degli anni 1960 e all'inizio dei '70, si conclude a causa delle trasformazioni intervenute nel modo di sfruttamento, nella composizione della classe operaia, nelle modalità della sua riproduzione, e globalmente a causa della trasformazione della natura della riproduzione del capitale argentino nella sua articolazione al capitalismo mondiale.

L'autorganizzazione sono qui le fabbriche autogestite dai lavoratori e la gestione da parte del movimento dei piqueteros dei planes trabajar (anche le ore di lavoro sono effettuate in seno al movimento). I casi di occupazione con ripresa della produzione e appello all'acquisto dell'impresa da parte dello Stato, rappresentano il vero contenuto attuale dell'autonomia (l'autonomia della classe operaia sono il lavoro e il valore).

Ciò che è successo di essenziale in Argentina, è che tutte le forme di autorganizzazione, di autonomia, di recupero, tutte le forme assembleari hanno immediatamente incontrato i propri limiti sotto la forma di una contraddizione interna che le trattava come perpetuazione della società capitalista. Proprio per questo, abolire il capitale è negarsi come lavoratori e non autorganizzarsi in quanto tali, è un movimento di abolizione delle imprese, delle fabbriche, dei prodotti, dello scambio (sotto qualsiasi forma).

Ci si autorganizza come disoccupati della Mosconi, come operaie della Bruckman, come abitanti delle bidonvilles..., ma facendo questo, quando ci si autorganizza ci si scontra immediatamente contro ciò che si è – che, nella lotta, diviene ciò che deve essere superato. Ciò che appare in questi conflitti, è che i lavoratori che difendono la loro situazione presente rimangono all'interno delle categorie del modo di produzione capitalistico, che li definisce. L'unificazione è impossibile senza essere precisamente l'abolizione dell'autorganizzazione, senza che il disoccupato, l'operaio della Zanon e l'occupante smettano di essere disoccupato, operaio della Zanon o occupante. O c'è unificazione – ma allora si tratta dell'abolizione stessa di ciò che è autorganizzabile – oppure c'è autorganizzazione, ma allora l'unificazione è un sogno che si perde nei conflitti che la diversità delle situazioni implica.

Nella difesa dei suoi interessi immediati, il proletariato è portato ad abolirsi poiché la sua attività nella “fabbrica recuperata” non può più rimanere rinchiusa nella “fabbrica recuperata”, né nella giustapposizione, nel coordinamento, nell'unità delle “fabbriche recuperate”, né in alcunché di autorganizzabile.

Il movimento d'azione diretta

Erigendo la negazione delle classi a modo di vita e, da qui, a presupposto della lotta di classe, il movimento di azione diretta approda a una serie di vicoli ciechi: il capitale come dominio e come simbolo, la questione insolubile della propria estensione, il riferirsi ai bisogni, ai piaceri, ai desideri, a un sé umano “autentico”. Tale impasse appare nel corso delle sommosse, nella loro auto-limitazione (il loro carattere auto-referenziale) e perfino nel loro “recupero” verso obbiettivi che non sono loro propri, come in Québec, a Praga e anche a Genova. Eppure questa esclusione reciproca, che è costitutiva del movimento di azione diretta, tra essere proletari e produrre rapporti sociali differenti, è divenuta, in questo ciclo, uno dei modi in cui esiste, già da ora, la dinamica di questo ciclo di lotte. Anche se i rapporti immediati tra individui nella loro singolarità finiscono per non esistere in altro modo che come alternativa, il movimento d'azione diretta annuncia il contenuto della rivoluzione comunista: la rimessa in causa da parte del proletariato, contro il capitale, della propria esistenza come classe.

Le lotte “suicide”: caducità dell'autonomia

Abbiamo già evocato la lotta alla Cellatex e quelle che seguirono. Nel dicembre 2002-gennaio 2003, lo sciopero all'ACT di Angers (materiale informatico, filiale Bull) è portato avanti parallelamente da un'alleanza intersindacale e da un comitato di lotta “decisamente aperto, emanazione della base” (cfr. «Echanges», n. 104). Tre linee di fabbricazione vengono momentaneamente rimesse in attività, ciò chenon impedisce poi che i prodotti finiti vengano bruciati. È interessante riprendere la cronologia degli avvenimenti. La fabbrica viene occupata in seguito all'annuncio, il 20 dicembre, della liquidazione definitiva dell'ACT (dopo molteplici manovre e discussioni dilatorie). La fabbrica è occupata, ma nessuno sa a quale scopo. Il 10 gennaio, il comitato di sciopero accetta di assumersi la fabbricazione di alcune schede elettroniche destinate a un produttore di attrezzature italiano. Il 22 gennaio, le 200 schede vengono spedite, il 23 altre schede prelevate dagli stock vengono bruciate, il 24 gli occupanti vengono sgomberati senza riguardo. I salariati licenziati della Moulinex che, nello stesso periodo, danno fuoco a un capannone della fabbrica, si inscrivono egualmente nella dinamica di questo nuovo ciclo di lotte, che rende l'appartenenza di classe del proletariato il limite della sua azione di classe.

Se nella forma, ma anche nella sostanza, il caso Cellatex ha potuto fare scuola (la violenza è una vecchia storia nella lotta di classe), è perché la dinamica all'opera in questo tipo di lotta risiede nel fatto che il proletariato è nulla in sé, ma un “nulla” pieno di rapporti sociali, cosicché – contro il capitale – non ha altre prospettive se non la propria sparizione.

Le rivolte del novembre 2005 in Francia e la lotta anti-CPE

Per il fatto stesso di non aver rivendicato nulla, il contenuto della rivolta di novembre fu il rifiuto delle cause stesse della rivolta; i rivoltosi hanno attaccato le loro proprie condizioni, hanno preso a bersaglio tutto ciò che li produce e li definisce. Se così è stato, ciò non ha nulla a che vedere con un preteso radicalismo intrinseco ai "tipi delle banlieues", ma si deve alla congiunzione di due fattori: da una parte, la situazione particolare di questa frazione del proletariato, e dall'altra il fatto che, in termini generali, la rivendicazione non è più ciò che era in passato. I rivoltosi rivelano e attaccano la situazione del proletario odierno, di questa forza-lavoro mondialmente precarizzata; ciò che rendeva immediatamente caduca – quand'anche una tale rivendicazione sarebbe potuta essere pronunciata – la volontà di essere un “proletario normale”.

Questa intricazione tra rivendicazione e rimessa in causa di se stessi in quanto proletari – che è caratteristica di questo ciclo di lotte, e che si riassume nell'appartenenza di classe come limite generale di questo ciclo – è stata portata al parossismo nel corso delle rivolta di novembre, a causa della particolarità dei suoi attori. La rivendicazione è scomparsa.

Ciò che in questo testo viene definito “scarto”, lacera ciascuna di queste lotte prese separatamente, ma i suoi termini possono essere egualmente considerati in relazione a lotte differenti in una stessa fase della lotta di classe (la rivolta di novembre e la lotta dei tranvieri marsigliesi o dei marittimi della SNCMnello stesso periodo). È solo una questione di scala.

Tre mesi dopo, la lotta anti-CPE si è trovata messa a confronto con il proprio allargamento rivendicativo, ma la posta in gioco di tale allargamento è stata la rimessa in causa della rivendicazione, della sua stessa pertinenza. La semplice presenza necessaria dei rivoltosi di novembre, o la semplice realtà della rivolta scoppiata tre mesi prima, incarnavano l'esistenza stessa di questa contraddizione. Importante, per quanto minoritaria, la “convergenza” ha avuto luogo, e ha rappresentato la dinamica stessa del movimento, in qualche modo inscritta nel suo codice genetico (la “base oggettiva”); ma questa dinamica non è stata un semplice allargamento rivendicativo, bensì una rimessa in causa della rivendicazione... e soltanto questo ha mandato in porto la rivendicazione.

La lotta anti-CPE è stata un movimento rivendicativo nel quale la soddisfazione della rivendicazione è divenuta inaccettabile per esso in quanto movimento rivendicativo.

Comunizzazione

L'attuale ciclo di lotte annuncia che il momento estremo della lotta rivendicativa può essere definito come quello in cui la contraddizione tra proletariato e capitale si tende a tal punto, che la definizione di classe diviene una costrizione esteriore, un'esteriorità che esiste semplicemente perché esiste il capitale. L'appartenenza di classe viene esteriorizzata come costrizione. Ecco il salto qualitativo nella lotta diclasse. È qui che c'è superamento e non transcrescenza. È qui che si può passare da un cambiamento nel sistema ad un cambiamento di sistema.

La fase ultima dell'implicazione reciproca tra le classi è quella in cui il proletariato si impadronisce dei mezzi di produzione. Se ne impadronisce, ma non se ne può appropriare. L'appropriazione effettuata dal proletariato non può essere tale, giacché non può compiersi che attraverso l'abolizione del proletariato in quanto classe, nella quale esso si spoglia di tutto ciò che lo mantiene nella situazione sociale anteriore. La prassi rivoluzionaria è la coincidenza del mutamento delle circostanze e della trasformazione di sé.

Nel comunismo non c'è più appropriazione, poiché è la nozione stessa di “prodotto” a essere abolita. Ovviamente, si avranno oggetti (ma le nozioni di oggettività e soggettività sono esse stesse da ridefinire) per produrre e altri per il consumo diretto, altri ancora per entrambi. Ma parlare di prodotti e porsi la questione della loro circolazione, della loro ripartizione e della loro “cessione”, ovvero concepire un momento dell'appropriazione, presuppone dei luoghi di rottura, di “coagulazione” dell'attività umana: il mercato nelle società mercantili, il deposito e la “presa nel mucchio” in certe concezioni del comunismo. Il prodotto non è una cosa semplice. Parlare di “prodotto” è presupporre che un risultato dell'attività umana appaia come in sé concluso di contro a un altro risultato o a un ambiente di altri risultati. Non è dal prodotto che bisogna partire, ma dall'attività.

Nel comunismo l'attività umana è infinita poiché non è segmentabile. Ha dei risultati concreti o astratti, ma questi risultati non sono mai dei “prodotti” per i quali si porrebbe la questione della loro appropriazione o della loro cessione in una modalità qualsivoglia. Questa attività umana infinita sintetizza ciò che si può dire del comunismo. Se possiamo parlare di attività umana infinita riguardo al comunismo, è perché il modo di produzione capitalistico ci mostra già – certo contraddittoriamente e non come una sorta di “lato buono” – l'attività umana come un flusso sociale globale continuo, e il “general intellect” o “l'operaio collettivo” come forza dominante della produzione. Il carattere sociale della produzione non prefigura nulla, non fa altro che rendere contraddittoria la base del valore.

La necessità di fronte alla quale si trova la rivoluzione comunista non consiste nel modificare la divisione tra salario e profitto, ma nell'abolire la natura di capitale dei mezzi di produzione accumulati. È l'insufficienza del plusvalore in rapporto al capitale accumulato che sta al cuore della crisi dello sfruttamento; se non ci fosse al centro della contraddizione tra proletariato e capitale la questione del lavoro produttivo di plusvalore, se fosse solo un problema di distribuzione e se tutti i conflitti sul salario non fossero l'esistenza di questa contraddizione, la rivoluzione non sarebbe che un pio desiderio. Non è dunque attraverso un attacco alla natura del lavoro come produttivo di plusvalore che la lotta rivendicativa viene superata (si tornerebbe a un problema di distribuzione) ma attraverso un attacco ai mezzi di produzione in quanto capitale.

L'attacco contro la natura di capitale dei mezzi di produzione è la loro abolizione in quanto valore che assorbe lavoro per valorizzarsi, è l'estensione della gratuità, la distruzione anche fisica di certi mezzi di produzione, la loro abolizione in quanto impresa nella quale si definisce ciò che è un prodotto, ovvero abolizione del quadro dello scambio e del commercio; è lo sconvolgimento dei rapporti tra i settori della produzione in cui si materializza lo sfruttamento e il suo tasso, è la loro definizione, il loro assorbimento nei rapporti inter-soggettivi individuali; è l'abolizione della divisione del lavoro quale essa si inscrive nello zoning urbano, nella configurazione materiale degli edifici, nella separazione tra città e campagna, nell'esistenza stessa di qualcosa chiamato officina o luogo di produzione. “I rapporti tra individui sono congelati nelle cose, perché il valore di scambio è di natura materiale” (Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica). L'abolizione del valore è una trasformazione concreta del paesaggio nel quale viviamo, è una geografia nuova. Abolire dei rapporti sociali è una faccenda alquanto materiale.

La produzione di rapporti nuovi tra gli individui coincide allora con le misure comuniste adottate come necessità imposte dalla lotta. L'abolizione dello scambio e del valore, della divisione del lavoro, della proprietà, non sono altro che l'arte della guerra di classe, allo stesso modo che Napoleone condusse la sua guerra in Germania attraverso l'introduzione del codice civile. I rapporti sociali anteriori si sciolgono in questa attività sociale nella quale non c'è differenza tra l'attività di scioperanti e insorti e la creazione di rapporti altri tra gli individui, rapporti nuovi all'interno dei quali gli individui considerano ciò che è come un flusso ininterrotto di produzione della vita umana.

La distruzione dello scambio sono operai che attaccano le banche dove hanno depositati i loro risparmi, e altri operai che sono così costretti a cavarsela facendone a meno; sono i lavoratori che si trasmettono e trasmettono alla comunità le loro attività direttamente e senza mercato; sono i senza casa che occupano gli alloggi, “obbligando” così a produrre gratuitamente gli operai edili, i quali attingeranno liberamente dai magazzini, forzando la classe intera a organizzarsi per andare a procurarsi il cibo presso i settori ancora da collettivizzare etc. Intendiamoci, non esiste alcuna misura che, in se stessa, presa isolatamente, rappresenti “il comunismo”. Distribuire beni, fare circolare direttamente mezzi di produzione e materie prime, utilizzare la violenza contro lo Stato – non c'è nessuna di queste cose che non possa essere opera, in talune circostanze, di una frazione del capitale. Ciò che è comunista non è la “violenza” in sé, né la “distribuzione” della merda che ci lascerà in eredità la società di classe, né la “collettivizzazione” di macchine che succhiano plusvalore; è la natura del movimento che mette in relazione queste azioni, che le sostiene, facendone dei momenti di un processo che non può che comunizzare sempre più o essere schiacciato.

Le attività militari e sociali sono indissolubili, simultanee e compenetrate le une nelle altre. Non si può fare una rivoluzione senza mettere in atto delle misure comuniste, senza dissolvere il lavoro salariato e comunizzare l'alimentazione, l'abbigliamento e l'alloggio, senza procurarsi tutte le armi necessarie (quelle distruttrici, ma anche le telecomunicazioni, il cibo etc.), senza integrare i senza riserve (compresi quelli che noi stessi avremo reso tali), i disoccupati, i contadini in rovina, gli studenti squattrinati e senza legami. Parlare di una rivoluzione condotta da una “categoria” che rappresenta il 20% della popolazione e che sta facendo “scioperi” per chiedere allo Stato di soddisfare i propri “interessi”, è una barzelletta.

La classe capitalista e le sue innumerevoli costole periferiche poggiano su un groviglio complicato, formalistico, burocratico, vulnerabile al più alto grado, fatto di legami finanziari, di crediti, di obbligazioni. Senza questi legami, la sua coerenza interna si sfalda. Questa classe non è una comunità fondata su un'associazione materiale, è un conglomerato di concorrenti incentrato sullo scambio. Lo scambio è la comunità astratta (il denaro). Perciò tutte le misure di comunizzazione dovranno essere un'azione energica per lo smantellamento dei legami che uniscono i nostri nemici e i loro supporti materiali, una distruzione rapida, senza possibilità di ritorno. La dittatura del movimento sociale di comunizzazione è il processo d'integrazione dell'umanità nel proletariato sul punto di scomparire. La stretta delimitazione del proletariato in rapporto alle altre classi e la sua lotta contro ogni produzione mercantile, sono al tempo stesso un processo che costringe le fasce della piccola borghesia salariata, della “classe dell'inquadramento sociale”, a raggiungere la classe comunizzatrice, che è dunque definizione ed esclusione e, al contempo, smarcamento e apertura, cancellazione delle frontiere e deperimento delle classi. Non è un paradosso, ma la realtà del processo nel quale il proletariato si definisce, nella pratica, come movimento di costituzione della comunità umana. Il movimento sociale in Argentina, giacché vi si è confrontato, ha posto il problema dei rapporti tra proletari occupati (salariati), disoccupati, esclusi e classe media. Non vi ha apportato che delle soluzioni estremamente parcellari, tra le quali la più interessante è senza dubbio l'organizzazione territoriale. In tale situazione, i denigratori radicali dell'interclassismo e i propagandisti dell'unanimità nazionale e democratica, sono i militanti di due differenti sconfitte. La rivoluzione, che in questo ciclo di lotte non può essere altro che comunizzazione, supera il dilemma tra le alleanze di classi leniniste e democratiche e “il proletariato solo” di Gorter.

Il solo modo di superare i conflitti tra disoccupati e occupati, tra qualificati e non-qualificati, è di porre subito in essere, nel corso della lotta armata, delle misure di comunizzazione che sopprimano la base stessa di queste divisioni (ciò che, in rapporto alla questione, nelle fabbriche recuperate in Argentina non è stato fatto se non molto marginalmente, accontentandosi più sovente – come alla Zanon per esempio – di qualche redistribuzione caritatevole ai gruppi di piqueteros). Ai giorni nostri, nei paesi sviluppati, da un lato la stragrande maggioranza della classe media non ha più alcun fondamento materiale per la propria posizione sociale; il suo ruolo di inquadramento e di direzione della cooperazione capitalistica è essenziale ma permanentemente precarizzato, la sua posizione sociale dipende da un meccanismo molto fragile di prelevamento di frazioni di plusvalore; ma dall'altro lato, per queste stesse ragioni, la sua prossimità formale al proletariato la porterà a presentare nelle lotte di quest'ultimo delle “soluzioni” gestionarie alternative, nazionali o democratiche, che possano preservare la sua posizione. Essa potrebbe trovarsi a proprio agio nel democratismo radicale, che esprime oggi i limiti delle lotte. Non ci saranno soluzioni miracolose data l'assenza di rivendicazioni unificanti, e la classe si unificherà soltanto mandando in frantumi il rapporto in seno al quale le rivendicazioni hanno un senso: il rapporto di capitale. La questione essenziale che dovremo risolvere sarà come estendere il comunismo, prima che venga soffocato nella morsa della merce: come integrare l'agricoltura per non dover scambiare con i contadini; come tagliare i legami scambisti dell'avversario per imporgli la logica della comunizzazione dei rapporti e dell'impossessamento dei beni; come dissolvere, attraverso la rivoluzione, la paura della rivoluzione.

I proletari non “sono” rivoluzionari come il cielo “è” blu, giacché “sono” salariati e sfruttati, e nondimeno sono la dissoluzione della condizioni esistenti. Trasformando se stessi a partireda ciò che sono, si costituiscono in classe rivoluzionaria.


[tratto da "Meeting. Revue Internationale Pour la Communisation", n.3, giugno 2006]

Una differente versione di questo testo, modificata e rielaborata: Théorie Communiste, L'auto-organisation est le premier acte de la révolution, la suite s'effectue contre elle, supplemento a “Théorie Communiste”, n. 20, 2008. [NdT]

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