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il rasoio di occam

Governo tecnico o governo politico? Una falsa alternativa

di Giuseppe Duso

Le difficoltà che si incontrano nel distinguere il “governo tecnico” da quello “politico” sono la spia di difficoltà ancora più grandi, quelle che riguardano il processo di legittimazione del governo. È perciò la stessa categoria del governo che deve esser ripensata, fuori da ogni sua riduzione a “potere esecutivo” e dentro un modo diverso di intendere il comando e la dimensione politica dei cittadini

In relazione alla situazione politica che si è determinata nell’ultimo anno si può tentare un esperimento inconsueto. Non tanto cioè di dare per scontato che si è trattato di una situazione eccezionale e che è ben diverso un governo “tecnico” da uno “politico”, e nemmeno di giudicare l’operato di questo governo tecnico (cosa che si può e si deve fare), ma piuttosto di trarre motivo da questa esperienza per una riflessione critica sulla modalità diffusa di pensare la politica, condivisa anche da coloro che si contrappongono nella lotta politica. Il piano in cui si dà la lotta culturale e politica e la forma della democrazia rappresentativa devono essere accettati come inevitabili e necessari, oppure emerge l’esigenza di nuove categorie per pensare la politica?

Possiamo partire dalla definizione di “governo tecnico” che è stata usata, sia pure con giudizi diversi, per indicare una tale vicenda politica. In questa espressione il termine “tecnico” vuole segnalare la presenza diretta nel governo delle competenze e conoscenze necessarie a risolvere i problemi che ci assillano. L’identificazione del governo con queste competenze e saperi non appare tipica della forma democratica, al punto che spesso si sente parlare di una “sospensione della democrazia”. Cosa significa ciò? Che di norma si pensa che il governo che non è tecnico, ma è invece “politico”, può essere privo delle conoscenze necessarie a governare i processi e a risolvere i problemi? Si è tentati di rispondere di no; ma in realtà, anche se sembra ovvio che nei ministeri e nel personale amministrativo ci sia competenza tecnica, si è costretti ad ammettere che tale sapere non è ritenuto necessario per la guida politica, in quanto si pensa che questa debba essere determinata dalla scelta della linea di fondo e dei valori che connotano una politica in luogo di un’altra.

Ciò porta ad una situazione ricorrente, accolta senza indignazione, di ministri che hanno la più totale mancanza di competenza, di sapere e di esperienza in relazione alle tematiche del ministero che devono guidare.

Ma è pensabile che l’aggettivo “tecnico” assorba totalmente in sé il sostantivo a cui si riferisce, il quale ha un indubbio significato politico? O non sta nelle cose che governare comporta trovare una via, fare delle scelte, avere dei punti di riferimento? Questa realtà dell’agire governativo non è dunque irriducibile alla presunta oggettività di un sapere, astratto dalle situazioni e dalla sfera della prassi? Allora non siamo di fronte ad un mero esercizio di sapere, non ci muoviamo all’interno di discipline scientifiche, magari addirittura accademiche (si dice “il governo dei professori”), ma si tratta del governo degli uomini e delle cose, cioè di una prassi che non può che essere politica. Ma allora, se governare è in ogni caso prassi politica, anche se riguarda un cosiddetto governo tecnico, in cosa si differenzierebbe da quest’ultimo un presunto “vero” governo politico? Quale è il preciso significato di “politico” contrapposto a “tecnico”?

Dal momento che la riflessione che tentiamo di fare riguarda i concetti fondamentali con cui si pensa la politica, si deve riconoscere che, per comprendere il significato che si attribuisce nel dibattito corrente al termine “politico”, bisogna partire da lontano, cioè dalla nascita del dispositivo moderno con cui si concepisce la politica, avvenuta in quel laboratorio concettuale che è il giusnaturalismo moderno. In esso si è negato che sia razionale il fatto che tra gli uomini si ponga inevitabilmente la relazione tra chi governa e chi è governato: questo era il problema su cui per secoli si sono differenziate le diverse concezioni politiche, tese a determinare le modalità secondo le quali un governo poteva essere buono e giusto. Nelle dottrine del diritto naturale una tale relazione è stata considerata irregolare e irrazionale e, sulla base dei nuovi concetti di uguaglianza e di libertà, si è costruito nella teoria il concetto di potere legittimo (la sovranità moderna). Da allora non è più la virtù e la capacità di chi governa ad essere decisiva, ma piuttosto la sua legittimità, consistente nel fatto che la persona che esprime il comando necessario alla vita in comune degli uomini è il risultato della volontà di coloro che dovranno ubbidire. Unica legittimità dell’autorità è di essere il risultato di un processo di autorizzazione, di essere da tutti voluta.

Dunque ciò che caratterizzerebbe il termine politico come contrapposto a tecnico sarebbe da una parte un’ottica complessiva e generale sulle finalità del governo, svincolata da ciò che i processi stessi e le cose mostrano di richiedere (aspetto tecnico) e legata ad una Weltanschauung, una visione del mondo teoricamente elaborata come presupposto (una ideologia?), e dall’altra (soprattutto) quel processo di autorizzazione che caratterizza ancora ciò che si suole indicare come “legittimazione democratica”. Il fatto cioè che ci siano elezioni, a cui in modo uguale partecipano i cittadini, e che attraverso queste si costituisca un’assemblea di attori politici con il compito di esprimere la volontà che è attribuita al popolo, volontà che diviene legge a cui si deve obbedire; e infine che ci sia un governo inteso come mero “potere esecutivo”, tale cioè da mettere in atto la legge decisa dalla maggioranza parlamentare. In tal modo il governo metterebbe in atto rappresentativamente la volontà del popolo. In ciò consiste il meccanismo formale della democrazia rappresentativa, anche se ad esso non si riducono certamente tutte quelle esigenze e quelle istanze che comunemente si riferiscono al termine di “democrazia”. Nell’ottica della presente riflessione si può dire che molte di queste istanze, in modo particolare quella della partecipazione dei cittadini (ma anche quella del riconoscimento di una pluralità di soggetti), non trova nel meccanismo formale indicato una via per la sua realizzazione.

Se è così, allora l’aggettivo “politico” indica bensì che il governo è legittimato da una maggioranza (si badi bene, dei voti espressi, non della totalità dei cittadini), ma non ci dice niente sul fatto che questo possa essere un buon governo, e che chi è stato scelto abbia la conoscenza, l’esperienza, la capacità, (per usare una parola complessiva che ha una lunga tradizione, la virtù) per governare effettivamente i processi in atto per il bene dei cittadini. La sterminata discussione contemporanea sulla governance e la sempre più diffusa pratica di ricorso alle autority, lungi dall’indicare una nuova forma di legittimità coincidente con l’efficienza, mi pare indichino la difficoltà di fondo della logica della democrazia rappresentativa, soprattutto in merito a due problemi: quello della reale capacità di governare i processi, e quello del coinvolgimento e della partecipazione dei soggetti in essi implicati. Per questi due problemi lo schema di base della democrazia rappresentativa non ha, in quanto tale, uno strumentario adeguato. Già a questo proposito sarebbe da riflettere sul fatto che sempre più le democrazie contemporanee hanno bisogno per il loro funzionamento di organi non fondati democraticamente, non basati sul voto, dunque non “politici” secondo l’accezione – determinata, particolare, storicamente segnata, e non certo universale come si crede – del termine che stiamo interrogando.

Lo schema della legittimazione che abbiamo ricordato non si dà tuttavia in modo semplice, non si svolge in uno scenario determinato immediatamente dalla dialettica in atto tra i cittadini e lo Stato. Tale schema è radicalmente complicato dalla presenza dei partiti. In quello che già nel primo Novecento è chiamato lo “Stato dei partiti” la rappresentanza e le elezioni passano attraverso l’operare dei partiti. Questi tendono ad occupare totalmente lo scenario politico e ad offrire una mediazione per risolvere lo iato che si viene paradossalmente a creare proprio a causa del processo di autorizzazione. In questo infatti tutti si proclamano bensì, come già diceva Hobbes, autori delle azioni che l’attore, il rappresentante appunto, farà e dunque fondano dal basso la sua autorità, ma, proprio per questo, non agiscono essi stessi politicamente e nemmeno forniscono istruzioni per l’agire del rappresentante. Sulla base di questo processo – che caratterizza ancora lo strumento delle elezioni, in cui si realizza il concetto moderno di rappresentanza nelle costituzioni moderne a partire da quella del 1791 della Francia rivoluzionaria – i rappresentanti non devono tanto rappresentare parti della società, o i propri elettori, ma la volontà unitaria del popolo. Non c’è allora una trasmissione di volontà politica dall’elettore a quello che sarà l’attore politico: non c’è istruzione, non c’è vincolo, ma appunto mandato libero. Si esprime solo fiducia in relazione a ciò che il rappresentante farà. Appare qui con evidenza una forma di spoliticizzazione, in quanto i cittadini diventano protagonisti e non solo sudditi solo a patto di delegare l’agire politico ad altri, senza determinare questo agire nei suoi contenuti. E’ appunto questo iato che dovrebbe essere riempito dalla mediazione partitica in quanto, anche se gli elettori non esprimono volontà particolari ma solo i nomi di coloro che dovranno diventare rappresentanti, tuttavia il ponte che unirebbe la volontà degli elettori a quella dei rappresentanti sarebbe costituito dai programmi dei partiti. Sono questi che dovrebbero rassicurare gli elettori che i deputati in Parlamento tenderanno ad operare nella direzione che è stata promessa e sulla cui base i cittadini hanno espresso il loro voto. Tale logica coinvolge il governo, che è espressione della maggioranza parlamentare. L’accezione di “politico”, che intendiamo qui mettere in questione, viene allora ad identificarsi con l’elemento “partitico”, come mostra il fatto che a gran voce oggi si definisce la critica ai partiti come “antipolitica”.

Ma è da chiedersi se i programmi dei partiti, sempre più simili e in concorrenza tra loro nel promettere cose che dovrebbero incontrare i desideri degli elettori, possano costituire un legame tra la volontà dei cittadini e ciò che costituirà l’effettivo operato del Parlamento e del governo, o non abbiano piuttosto il fine di allargare il consenso, un consenso previo, concesso sulla fiducia, che dovrebbe essere il più possibile ampio e totalitario. Tutti i partiti affermano, o in ogni caso ritengono, che avendo la maggioranza del 51% potrebbero veramente fare quello che promettono e dunque il vero bene dei cittadini. In ogni caso, al di là di questa considerazione, bisogna anche riconoscere che la presenza dei partiti complica quella che appare essere la logica, ma anche la lettera, della carta costituzionale in alcuni punti rilevanti. Infatti qualora il legame tra elettore ed eletto si ritenesse garantito dal fatto che gli eletti restano fedeli alle decisioni dei partiti, ci si può chiedere se il rappresentante sia da intendersi libero da vincoli di mandato, come afferma la nostra Costituzione, oppure legato al mandato dei partiti. E non si tratta di un mandato imperativo che proviene dalla costituzione materiale della società e delle sue parti, ma da soggetti che hanno una loro separatezza, una loro organizzazione burocratica, anche se tendono a mantenersi mediante il cosiddetto “consenso”. Ma si pensi poi a quanto i partiti decidano per i cittadini quali debbano essere i loro rappresentanti, non solo nella situazione prodotta dalla attuale legge elettorale in Italia, ma anche in quella in cui si possono esprimere le preferenze. Quando infatti un cittadino può decidere lui chi lo rappresenta? E quanto è condizionato, anche nel caso di possibile scelta, dalla proposta di candidati da parte dei partiti e dalle decisioni che questi ultimi prendono in relazione alla posizione dei candidati nelle liste elettorali e ai seggi nei quali presentarli? E’ poi da ricordare che il partito, nella funzione di rappresentare interessi presenti nella società, ha in ogni caso l’interesse primario alla propria esistenza e allargamento, anche quando ciò ha una motivazione nobile e non quella, purtroppo diffusa e più squallida, del mantenimento di privilegi, di quote di potere, di seggi, di prebende e vitalizi.

Non intendo qui prolungare una riflessione sui partiti, che sarebbe per altro assai urgente, perché non è detto che i partiti debbano essere i soggetti esclusivi dell’agire politico come è stato, anche meritoriamente, dalla nascita dei grandi partiti di massa fino ad ora. Ciò non significa che i partiti debbano scomparire, ma che forse si devono trasformare, in modo da essere promotori dell’agire politico degli stessi cittadini mediante le forme di aggregazione che hanno luogo nello spazio che viene solitamente indicato come “società civile”. Ma, per capire come la presenza dei partiti – che in realtà secondo le costituzioni contemporanee non sono veri e propri soggetti politici (cioè attori), ma piuttosto organizzazioni che servono a dar forma al corpo rappresentativo, in cui dovrebbero trovarsi i veri attori del processo di autorizzazione – renda inefficace la logica che soggiace alla lettera della Costituzione, si pensi a cosa può significare nella attuale situazione la divisione dei poteri, che per Kant era il requisito indispensabile di una costituzione repubblicana e dunque non dispotica. Il Parlamento dovrebbe infatti essere l’organo che istituisce e controlla l’azione del governo. Ma se si riflette sul fatto che le leggi del Parlamento sono il frutto della volontà concorde della maggioranza parlamentare, il che equivale a dire delle decisioni prese, fuori dal Parlamento, dai partiti (come mostra l’aula deserta in occasione della discussione – non della votazione – di leggi rilevanti), quale dialettica può esserci tra questa volontà e quella che determina l’azione di governo, se è proprio il governo il luogo in cui i partiti di maggioranza verificano quotidianamente la loro possibilità di agire unitariamente?

Inoltre, se le cose stanno così, è proprio da meravigliarsi che le leggi le faccia il governo? Non solo mediante i decreti legge, ma anche per quanto riguarda le leggi normali, che non a caso cambiano con il cambiare dei governi? In uno Stato dei partiti il Parlamento riesce a svolgere la funzione di controllo effettivo dell’operato del governo? Quando sembra che ciò succeda, in realtà si tratta della decomposizione dei partiti di maggioranza o del loro accordo, che determina insieme crisi di governo e crisi della maggioranza.

Queste brevi considerazioni vogliono solo indicare un compito per la riflessione. Forse è il terreno stesso sul quale avviene la lotta politica a dover essere messo in questione. Qui sta forse il vero problema che gli schieramenti in lotta tra loro non vedono. Se fosse così, si mostrerebbe urgente un rinnovamento radicale del modo di pensar la politica, emergerebbe l’esigenza di nuove categorie, al di là dei concetti che si condensano nella formula della legittimazione democratica. Innanzitutto è la categoria del governo a dover essere pensata, come modo diverso di intendere il comando e la dimensione politica dei cittadini, al di la della riduzione del governo a semplice “potere esecutivo”. Una prassi di governo non può non implicare la capacità, la conoscenza, l’esperienza da parte di chi governa, e non è pensabile se non in relazione ad un orizzonte di senso che non dipende dalla semplice volontà e dall’arbitrio di chi governa, secondo quanto evidenzia l’antica immagine, presente in secoli di pensiero politico, del gubernator della nave della repubblica. In che direzione governare? Secondo quale modo di pensare la giustizia? con quale livello di azione e responsabilità politica non solo dei governanti, ma anche dei governati? La responsabilità di chi governa e la determinazione dell’orizzonte di giustizia all’interno del quale è vincolato il governo richiedono di andare oltre la logica formale che determina la legittimazione democratica. In questa non sono veramente responsabili i rappresentanti, in quanto gli autori delle loro azioni sono coloro che li hanno eletti, ma non sono responsabili nemmeno gli elettori, perché sono autori di azioni che essi stessi non compiono. Quale paradosso in questa forma prodotta dal moderno principio della soggettività politica!

Pensare veramente il governo è possibile solo se si mette in discussione la certezza che la razionalità formale propria della democrazia rappresentativa costituisca la tappa universale e invalicabile del pensiero politico, e se si supera la convinzione che i problemi che si presentano dipendano semplicemente dal fatto che il meccanismo della democrazia non è pienamente attuato. Forse solo mettendo in questione la razionalità formale che soggiace alla democrazia rappresentativa è possibile soddisfare esigenze che spesso si presentano proprio attraverso il termine di democrazia.

Un governo unitario, che abbia autonomia nei confronti della pluralità delle forze (e anche dei partititi), responsabile, forte e capace di decidere al di là del ricatto costituito dalle successive elezioni, non è un’eccezione o un pericolo, ma ciò di cui c’è bisogno. La categoria del governo esprime una funzione unitaria che è richiesta dalla pluralità costitutiva della realtà politica: implica la pluralità contro la chiave monistica che caratterizza la sovranità. Il vero problema è come concepire l’organo collegiale, il Parlamento, in modo tale che sia effettivamente superiore al governo e riesca a controllarne e a indirizzarne l’azione mediante la determinazione di principi di equità e giustizia. E’ in questo organo che devono essere presenti le diverse istanze della società, secondo una pluralità che non è riducibile al pluralismo ideologico delle opinioni. Si può forse discutere se sia il “Senato delle regioni” la via migliore per dare una forma a tale pluralità, ma l’espressione della pluralità appare necessaria assieme alla responsabilità delle parti del Paese. E’ miope, in relazione alla realtà in cui viviamo, temere la forza del governo, come pure meravigliarsi che sia il governo a fare le leggi. Il vero problema consiste nella forma e nelle funzioni che deve avere l’organo più ampio e rappresentativo previsto dalla costituzione.

Accanto allora al problema di ripensare il governo con la sua responsabilità, si pone dunque il problema di come ripensare il Parlamento. Anche in relazione alla attività legislativa si potrebbe cominciare a riflettere se è vero, come sopra si è detto, che le leggi necessarie per governare provengono dal governo. Forse allora vera azione legislativa del Parlamento dovrebbe riguardare le leggi fondamentali, che danno determinazione (continua) a ciò che si considera giusto e che devono indicare la direzione all’operare del governo. E questo è forse un compito che non può sempre essere assolto con la regola democratica della maggioranza, che vede costantemente e aprioristicamente contrapposte le forze in campo. E’ l’orizzonte necessario di condivisione, all’interno del quale è possibile la vita civile, a dover essere determinato assieme dalla pluralità delle parti, nel tentativo di trovare l’accordo piuttosto che manifestare lo scontro continuo. Si badi bene che nel dire questo non si immagina una situazione idilliaca in cui tutti la pensano allo stesso modo o in cui non ci sono interessi contrapposti. Al contrario, sono proprio le contrapposizioni e i conflitti, che non possono non caratterizzare la pluralità e che hanno una loro produttività, a richiedere, per non lacerare l’entità politica, la determinazione di un orizzonte comune; altrimenti non si può parlare di una entità politica e nemmeno della possibilità dello stesso conflitto. E’ quello che hanno fatto, con idee diverse e con la volontà di rappresentare parti diverse della società, i padri costituenti uscendo dall’esperienza fascista. L’accordo è difficile, ma si pensi a quanto nel continuo scontro tra i partiti sia dovuto ai contenuti e alle finalità che ci si propone e quanto invece al fine di costituire il soggetto che legittimamente esercita ( e occupa) il potere. Chi pensa impossibile tendere ad un tale accordo, non può che rifugiarsi nella logica formale della legittimazione, la quale comporta l’assolutizzazione della volontà e dell’opinione e quella relazione maggioranza -minoranza che non a caso è presente nello stesso capitolo XVI del Leviatano di Hobbes, in cui per la prima volta ci troviamo di fronte al concetto moderno di rappresentanza politica.

Il compito di pensare lo spazio di azione politica dei cittadini (questo il vero nodo centrale di una riflessione sulla categoria di governo), ci spinge a due ultime considerazioni, che sono in parte tra loro collegate. La prima riguarda il fenomeno che oggi viene indicato con il termine dell’indignazione. Gli indignados, gli indignati, il movimento delle masse che si è recentemente manifestato nelle diverse parti del mondo. E’ un termine che ha anche una lunga storia nel pensiero politico, si pensi ad esempio a Spinoza. Si tratta di un fenomeno rilevante, in cui compare un agire spontaneo delle masse e un condiviso senso della giustizia, o meglio e più precisamente dell’ingiustizia contro cui si muove. Ciò ha una forte rilevanza politica, ma che rimane solo negativa. Anche quando compaiono esigenze largamente condivise, non compaiono in una forma che si possa tradurre immediatamente in azione di governo, che faccia delle masse il soggetto del governo. L’agire spontaneo delle masse esprime certo esigenze e bisogni, oltre ad un senso comune di ciò che non è considerato giusto, ma in ogni caso implica un’azione di governo che un tale agire non riesce a risolvere in sé. Se si pensasse che questo atteggiamento con la sua spontaneità fosse passibile di tramutarsi in governo e le masse si tramutassero nel soggetto che governa, si perderebbe proprio quella tensione strutturale tra governo e governati nella quale è sempre possibile e insopprimibile l’indignazione.

Problema a questo collegato, anche se diverso, è quello delle forme di aggregazione di cittadini che, sulla base di problemi, bisogni e interessi determinati che li riguardano, si oppongono alle decisioni del governo. Questo fenomeno è uno spiraglio attraverso il quale si può comprendere con evidenza la necessità di andare oltre l’attuale modo di intendere la democrazia. Sulla base di questo infatti non si possono non considerare legittimate democraticamente le decisioni di un esecutivo che dipende dalla maggioranza parlamentare e dunque dalla maggioranza dei voti dei cittadini, perché proprio questo richiede la legittimazione democratica. Purtuttavia anche l’espressione della volontà dei cittadini sembra avere a che vedere con ciò che si intende per democrazia, che sembra promettere una partecipazione attiva dei cittadini alla politica. Ma ci si chieda come mai i cittadini hanno una loro volontà politica di fronte ai poteri dello Stato, autonoma in quanto non riassorbita ed espressa da quelli, solo quando resistono e manifestano contro. Ciò dipende dal fatto che nel voto, in cui si realizza il loro diritto politico, essi, se votano, esprimono opinione e fiducia in qualcuno; come sopra si è detto autorizzano qualcuno ad esprimere con gli altri eletti per tutti la volontà del popolo. Il voto si basa sulle loro opinioni, ma non li coinvolge per quello che concretamente sono, per i bisogni, gli interessi e le competenze che hanno. In base all’immaginario della distinzione di società civile e Stato che soggiace alle costituzioni, i soggetti che manifestano una loro dimensione politica resistendo si sentono giustificati ad esprimere la loro volontà in modo assoluto, senza prendere parte con altri alla responsabilità della soluzione dei problemi della collettività. In tal modo l’indignazione e la resistenza esprimono il bisogno di una politica diversa, ma, a causa di questa assolutizzazione della volontà, rischiano di restare ancora all’interno della logica della sovranità, che comporta una decisione assoluta e unitaria, che è insieme negazione della pluralità e della complessità dei processi reali.

Questo fenomeno, delle aggregazioni che intendono intervenire nelle decisioni politiche, mostra un mutamento della realtà politica, che richiede al pensiero innovazione e ripensamento della costituzione, anche nel senso della carta costituzionale. Questi gruppi e forme di aggregazione non tendono tanto a sostituire i rappresentanti e chi governa, o a rafforzare un partito che sentirebbero più vicino invece che un altro: non tendono alla modificazione degli organi rappresentativi (si pensi ai lavori di Rosanvallon). Vogliono invece direttamente contare nei confronti delle decisioni del governo. Anche per questa appare che il problema centrale non è più quello della sovranità del popolo e della rappresentanza politica, non è risolto dalle elezioni democratiche: insomma non è quello della legittimazione democratica del potere. Ciò che è da pensare è invece il rapporto tra governo e governati, e questo pensiero, se venisse portato avanti, potrebbe mostrare la necessità intrinseca che siano i governati la dimensione politica maggiore e più rilevante, e questo non in senso ideale, ma in quello costituzionale (nel senso etimologico del termine e anche in quello della costituzione scritta) del concreto agire politico dei cittadini oltre il diritto politico del voto. I cittadini non possano non essere coinvolti politicamente per quello che concretamente sono, per i bisogni, le conoscenze e le competenze che hanno, il che non avviene certo nelle elezioni, in cui si esprimono solo opinioni, che, in quanto tali, non possono non dipendere dai mezzi che hanno la capacità di influenzarle e di determinarle.

In questo momento di elezioni, dove sembra che tutto dipenda dal loro esito, è importante tenere presente queste aporie intrinseche della rappresentanza moderna. Non può non creare turbamento alla coscienza autenticamente democratica la consapevolezza che le campagne elettorali si fanno sulla base delle indicazioni che forniscono i guru della comunicazione, quegli stessi che si occupano delle strategie di vendita dei prodotti nei supermercati. Ciò non significa che non ci siano ragioni e argomenti più o meno seri e legati alla realtà e ai bisogni dei cittadini, ma – al di là di chi mostra di ritenere che sia il dibattito democratico delle ragioni ad essere risolutivo – è evidentemente decisiva l’immagine che si produce nella mente degli elettori, e questa immagine dipende dalle forze e dai poteri che detengono i mezzi di comunicazione e incide sulla fantasia e sull’arbitrio, indipendentemente dalla forza delle ragioni.

Una annotazione finale a questa riflessione, scritta prima della caduta del “governo tecnico”: quanto è successo a seguito di questa caduta mostra che tale esperienza non ha costituito motivo di riflessione per un mutamento nel modo di pensare la politica, per nessuno, nemmeno per chi a tale esperienza ha dato luogo nel bene e nel male.

Il retroterra argomentativo e analitico più immediato in relazione al contenuto di queste pagine è costituito da:
 
- G. Duso ( cura di), Oltre la democrazia, Carocci, Roma 2004;
- “Democrazia”, n. 3/2006 della rivista “Filosofia politica” del Mulino;
- M. Bertolisssi, G. Duso, A. Scalone, Ripensare la costituzione: la questione della pluralità, Polimetrica, Monza 2008  www.polimetrica.com);
- M. Cacciari, G. Duso, M. Bertolissi, G. Napolitano, La costituzione domani, Marsilio, Venezia 2008 ;
- G. Duso, A. Scalone, Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali, Polimetrica, Monza 2010.
Giuseppe Duso è Professore ordinario di Filosofia politica all’Università degli Studi di Padova.
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