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Logica della conoscenza complessa

di Pierluigi Fagan

In quella rivoluzione epistemologica che fu la nascita e lo sviluppo della fisica quantistica avvenuta nel primo ‘900, s’incontrano due operatori logici applicati a due diversi principi. I due operatori logici sono “o – o” ed “e – e”. Per “operatore”, s’intende un dispositivo  che dà forma allo sviluppo logico.

L’operatore “o – o” ha la sua più antica versione, tra quelle a noi conosciute, nel  Principio di non contraddizione. Esso afferma che di un ente non è possibile predicare l’affermazione e la negazione al contempo, ovvero la sua realtà ed il suo contrario, ovvero apporvi predicati in contraddizione validi in uno stesso istante. Aristotele, almeno inizialmente, lo riteneva un principio ontologico relativo all’essere, libero da ogni predicato e/o attributo.  Il principio si limita a vietare l’attribuzione di concetti contrapposti -in uno stesso istante- allo stesso soggetto ma non stabilisce cosa dobbiamo o possiamo ritenere “contrapposto”. La regola disgiuntiva, nella sua forma pura  “o – o”, è un puro principio di esclusione di una  attribuzione di verità che risulterebbe contradditoria. Senza l’ osservanza di questa regola, non vi sarebbe differenza e quindi non si produrrebbe informazione (ex falso sequitur quodlibet).

Nella fisica quantistica, il principio disgiuntivo ispirò la formulazione di un importante principio applicato alle regole di funzionamento della meccanica dei quanti. Del  Principio di indeterminazione di W. Heisenberg (1927), venne proposta una prima versione in una lettera che W. Pauli[1] scrisse allo stesso Heisenberg un anno prima.

In essa si diceva: “Posso guardare il mondo con l’occhio -p- e posso guardare il mondo con l’occhio -q-, ma se voglio aprire tutti e due gli occhi allo stesso tempo, divento pazzo[2]. La nota di Pauli[3] divenne poi il noto Principio di Heisenberg  per il quale di una stessa particella  non si possono conoscere contemporaneamente posizione e velocità con la stessa precisione.

Il Principio è stato variamente accompagnato dai concetti di “inesattezza”, “incertezza”, “imprecisione”, “sfocatura”, indeterminatezza”. Il Principio di indeterminazione di Heisenberg ha avuto una vasta e longeva notorietà anche al di fuori della fisica quantistica e per diverse ragioni. La prima è che esso ben esemplificava la stranezza generale della logica quantistica, un dominio di fenomeni decisamente “esotici” che sembrano originare da regole sconosciute nel nostro mondo macroscopico. La seconda è che precisava che questo dominio, pur interno alla fisica ed anzi con qualche diretto genetico “più fondamentale” visto che si occupava del mondo primo, quello dell’ immensamente piccolo, non  aveva logica in comune con quello macroscopico conosciuto con le leggi di Newton. La terza è che falsificava  la presunzione di assoluto del determinismo che aveva portato il marchese di Laplace, sulle orme delle leggi della meccanica newtoniana, a profetare la piena e perfetta conoscibilità del tutto oggi, ieri e domani, in base appunto alla conoscibilità di moto e posizione di ogni sua minima parte. La quarta è che implicitamente falsificava anche il riduzionismo poiché se sezioniamo il mondo per corpi possiamo certo applicare le leggi di Newton, ma se lo sezioniamo a livello di quanti, no e non è quindi possibile desumere l’una realtà dall’altra in base a gli stessi principi. La quinta era che il mondo ci appare secondo quali categorie  usiamo per la sua conoscenza come per altro aveva annunciato Protagora duemilatrecento anni prima (forse anche Eraclito), principio di relatività che annienta l’oggettivismo. In un certo senso anche il postulato kantiano sull’inconoscibilità della cosa in sé e della sua esclusiva conoscibilità “per me” (in base alle sensazioni che la fa percepire in relazione alla costruzione della mia ragione) ricorre alla stessa convinzione, così come poi farà abbondantemente anche l’ermeneutica ed il decostruzionismo sul piano interpretativo ed il costruttivismo su quello proattivo.  Questa quinta conseguenza  è anche di massima importanza per la “non contraddizione-  perché ci ricorda che siamo noi e la nostra forma culturale generale a definire cosa è una contraddizione. La “non contraddizione” da Aristotele in poi, definisce solo che se una contraddizione è tale (ovvero “ci pare tale”), essa non può essere ricomposta ad unità, né ha gradi intermedi di verità (concetto proprio del principio di non contraddizione ma rafforzato poi anche da quello di terzo escluso[4]). Infine, la sesta ed ultima conseguenza, era anch’essa molto importante poiché annullava una persistente dicotomia, almeno sul piano ontologico[5] , quella del dualismo soggetto ed oggetto. Il semplice compiere l’atto di osservazione, modifica ciò che osserviamo e quindi i due termini sono reciprocamente coimplicanti.

La valenza del Principio di Heisenberg è però strettamente relativa al dominio quantistico e non fornisce leggi generali valide ognidove. Anzi fu proprio lo scorporare la meccanica quantistica dal dominio della meccanica newtoniana a sancire che le interpretazioni di questa come  verità assoluta  erano insostenibili. La fisica quantistica stabilisce un dominio diverso da quello macroscopico e come asserisce che le leggi di questo non valgono in quello, non asserisce certo il contrario. Del resto anche la relatività di Einstein sebbene in maniera ben meno radicale, definisce un dominio di leggi fisiche non comprese nel corpus  newtoniano e così anche la Termodinamica con la sua meccanica statistica, la sua freccia del tempo ed il concetto di irreversibilità. Se però la meccanica quantistica non dice direttamente  molte delle cose che le si attribuiscono come  valide su piani generali, si può però sostenere che alcune le dica anche se per via indiretta. La sua stessa esistenza relativizza la conoscenza fisica al dominio che si prende in esame ed il fatto ciò avvenga nella regina delle scienze dure (la fisica appunto) e quindi nel cuore delle stesse scienze dure, ha comunque un significato forte. Il determinismo ed il riduzionismo sono al massimo utili forme operative di indagine e possibili utili descrizioni in certi ambiti ed a certe condizioni ma non sono un senso unico. Almeno anche a questo livello dell’osservazione  del mondo fisico (il microscopico estremo)  si ripetono concetti già noti in filosofia e gnoseologia (in ingl. epistemology) creando un dialogo tra domini della conoscenza ritenuti, a torto, incommensurabili. Si fornisce una importante nuova versione di epistemologia che risulterà molto influente anche in altre discipline, almeno come possibilità. Inoltre se mettiamo accanto il dominio dei quanti con quello dei corpi, dobbiamo registrare la conferma del principio di complessità che afferma che il totale è più della somma delle parti e comportamenti di tipo B possono emergere da un sottostante dove invece vigono regole di tipo A.

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L’alternativa al principio di esclusione ovvero all’operatore “o – o” è il principio di inclusione ovvero  l’operatore “e – e”. L’ipotetico relazione tra inclusione ed esclusione è essa stessa oggetto del Principio di non contraddizione se ci riferiamo all’ontologia ma non lo è se ci riferiamo alla logica. Tale principio si potrebbe definire un solvente delle contraddizioni ovvero il non accettare come definitivo ed insolubile il carattere contradditorio di talune coppie di concetti quali: natura – cultura, razionale – emotivo, cervello – mente, corpo – mente, materiale – ideale (e reale – ideale), determinato – indeterminato, olistico – riduttivo, generale – particolare, scienza – filosofia, libertà – uguaglianza, individuo – società, logos – mythos e quella molto celebre di tesi – antitesi che ripropone stilizzata la stessa struttura della dicotomia in quanto tale etc. A rigore, se quello di esclusione è un principio ontologico e logico, quello di inclusione è solo logico.

Le strategie per risolvere le impostazioni contradditorie (o ritenute tali)  sono di vario tipo. Una, già accennata in nota, è quella di ridurre la dualità al piano descrittivo, eliminandola dal piano ontologico. Una seconda è quella di ridurle ad un termine medio dal quale originerebbero per estremizzazione bipolare. La terza è quella di mettere uno dei due termini (o entrambi) in sospetto di autogenerazione. Un esempio di cos’è un concetto autogenerato è l’infinito (come il “nulla” o “assoluto”). L’infinito esiste ad esempio nel processo di causazione e nella numerazione matematica. In quest’ultima non vi è legge che vieti di aumentare o diminuire di +1 o -1 la precedente cifra e quindi il processo non avendo termine (fine) è in-finito. Così con l’applicazione della domanda “da cosa proviene questa cosa?” che porta al regresso ad infinitum della ricostruzione causale. Entrambi i casi sono applicazioni riflessive del concetto a se stesso (l’infinito dei numeri è il numero dei numeri, l’infinito causativo è la causa di ogni possibile causa). Come già noto (dal paradosso di Epimenide cretese o del mentitore a quello di Russell , alle antinomie kantiane) laddove si intervenga a predicare “tutto”, “totalità” o “mondo” (che è un tipo di tutto nel senso di totalità assoluta), la riflessività comporta paradosso.   Più in generale però, lo definiamo autogenerato perché è proprio della nostra mente poter pensare il contrario di qualsiasi cosa. Molte volte questo contrario esiste (o meglio esiste qualcosa che possa interpretare il ruolo di contrario), ma molte volte ci si propone solo perché lo possiamo pensare ma non è detto che tutto ciò che possiamo pensare, esista[6] (per altro anche molto di ciò che esiste non possiamo pensarlo altrimenti non scopriremmo mai niente di nuovo). L’infinito è un concetto inverificabile/infalsificabile nella realtà e c’è il sospetto esso esista solo nella pensabilità ovvero in una Ragion Pura non limitata  (come è in quella applicazione riflessiva delle categorie che produce  antinomie indecidibili secondo Kant), in questo senso lo diciamo -autogenerato-. Ne segue che il razionale -non- è sempre reale e quindi il “logico” ha raggio più ampio dell’ontologico e tra i due non vi è perfetta corrispondenza. La quarta è quella di invalidare entrambi i termini della dicotomia affermando che essi ipostatizzano componenti di un diverso sottostante (più ampio di quanto non copra l’estensione sommata dei due termini e quindi diverso dal secondo caso) o soprastante. Il logos di Eraclito, il Dio della coincidentia oppositorum di Cusano, la sintesi nella dialettica hegelo-marxista e le logiche infinitiste operano questa relativizzazione. La quinta è quella che opera nella logica fuzzy, ovvero istruire gradi intermedi di verità ( una sorta di lungo termine medio composto dai vari gradi di composizione percentuale di compresenza dei due termini ritenuti opposti). Tutte queste strategie (tranne forse la terza) portano alla  complementarietà ovvero il rifiuto del principio di esclusione. La dicotomia sarebbe null’altro che una doppiamente parziale descrizione di una unità, una parziale descrizione che appare contradditoria ma non lo è definitivamente ed in senso assoluto.

Anche l’operatore “e – e” ha dato vita nella meccanica quantistica ad un principio, il Principio di complementarietà di Niels Bohr e come quello di indeterminazione anch’esso è del 1927. Questo principio usa l’operatore “e – e” per dire che nella meccanica quantistica, le osservazioni mostrano a seconda delle condizioni di osservazione, “o” l’aspetto particellare, “o” l’aspetto ondulatorio di ciò che si osserva. Entrambe queste manifestazioni sono realtà del rapporto tra l’osservatore e l’osservato, la disgiunzione dicotomica è ricomposta in una unità molteplice, variabile al variare delle condizioni della relazione. Esse sono due descrizioni complementarie del comportamento di una stessa cosa (che implicitamente si dichiara di non conoscere) che diversamente si manifesta se messa in contesti diversi. Questo principio ricorre alla sesta strategia tra quelle illustrate precedentemente. Erroneamente, questo principio è stato interpretato come una sfida al principio di non contraddizione. L’errore deriva dal sottovalutare il fatto che il divieto di doppia determinazione contradditoria del principio si applica “allo stesso istante” mentre la possibile doppia osservazione (particella – onda) è condotta in istanti diversi.

N. Bohr più che un fisico era un filosofo secondo Heisenberg ma del resto, da Boltzman a Plank, dallo stesso Heisenberg a Bohr, da Schrodinger ad Einstein, tutti i grandi fisici di quel periodo, scrissero sulla loro visione del mondo. Reclamavano lo statuto di scienziati e non certo di metafisici, ma erano consapevoli che la loro ricerca sul mondo produceva una visione e dopo i due principi Heisenberg – Bohr, anche che la loro visione produceva il modo di essere di quel mondo su cui ricercavano. Celebre sarà l’incursione operata da Schrodinger nella biologia, con un ciclo di conferenze tenute nel 1943 nel suo auto-esilio dublinese (Schrodinger scappò dalla Germania nel ’33 sebbene non fosse ebreo). Quelle conferenze presero poi forma in un delizioso libricino[7] nel quale l’autore della funzione d’onda che poi è la formulazione più usata dell’equazione base della meccanica quantistica, anticipa la logica delle ben successiva scoperta del DNA (1960). Anche Bohr fece delle incursioni nel mondo della vita ed in una di queste, volendo spiegare la struttura del suo Principio di complementarietà, applicò la dicotomia disgiuntiva al fatto che se s’intende il corpo come un sistema di molecole in interrelazione lo si può ben smontare in queste componenti costitutive per vedere cosa sono e come funzionano però questa osservazione sradica l’osservato dal suo contesto e si perde così il senso dello scopo dell’esistenza di molecole ed organi, che è poi produrre la vita[8]. Altresì se si vuole osservare la vita nella sua totalità organica, non si giungerà mai a contatto con le molecole che rimarranno inconosciute e con esse il funzionamento del corpo che vive. Ne consegue che il corpo vivente non può esser compreso se non nella collezione dei due “o – o”, quindi secondo la logica complementare dell’ “e – e”. Più tardi ed in altro convegno, usò lo stesso schema della complementarietà per la dicotomia ragione – emozione. La complementarietà stava nel ritenere necessarie entrambe le osservazioni, quelle di livello micro e quelle di livello macro, il sistema e le sue parti, l’Uno ed il Tutto. Se la cosa in sé ci sfugge e sempre ci sfuggirà, si collezionino quante più osservazioni da diversi punti di vista e con diversi tagli per almeno intuirne la struttura ed il significato. Sicuramente quello che non bisogna fare ed usarne uno solo e da questo parziale presumere di poter arrivare al totale.

Il massimo sviluppo filosofico della complessità si è avuto con l’opera di Edgar Morin. Morin acquisisce come fondativo della logica complessa, l’operatore “e – e” e quindi il principio di complementarietà[9]. Morin battezza questo principio della logica complessa: dialogica. La dialogica è in sostanza una dialettica che non giunge a sintesi[10] che poi era, forse, il senso proprio della dialettica in Eraclito[11]. La dialogica di Morin è una continua corrosione/fertilizzazione, attrazione/repulsione dell’un termine  verso l’altro, anche perché: “Ogni processo di pensiero, se è isolato, ipostatizzato e spinto al suo limite, cioè non dialogicamente controllato, conduce all’accecamento ed al delirio[12]. Il “delirio” che paventa Morin è la presunzione in cui cade chi guarda le cose da un unico punto di vista, con un solo paio di lenti, con una solo occhio per tornare alla sofferta binocularità di W.Pauli. Di chi in sostanza scambia la parte per il tutto, il particolare per il generale e soprattutto dal suo unilaterale punto di vista esclude la validità della conoscenza proveniente da un altro punto di vista. Non a caso dialogica e dialogo  condividono la stessa radice e presuppongono che è nella relazione  che c’è più verità (relativa) .  La dicotomia, in un gioco dinamico in cui alternativamente fa agire la repulsione e l’ attrazione reciproca dei termini, è ritenuta complementare poiché contenuta di un ambiente di tipo logico superiore: un sistema. Questa mossa richiama la quarta strategia di riduzione delle dicotomie che abbiamo esposto nella prima parte.

All’interno di una concezione complessa, la riduzione ontologica del  sistema in parti dicotomiche  non è ammessa, né come contraddizione assoluta dei due termini componenti, né come perfetto risultante della somma dei due perché :”l’intero è qualcosa di più delle parti”. Inoltre queste parti raramente sono solo due, esse generano qualcosa di altro nella loro relazione, si trasformano nella stessa relazione e spesso in modo non lineare, infine interagiscono con l’ambiente sistemico che compongono e con quello che ospita il sistema cui danno vita. L’intero sistemico è dinamico e non si può dire esso sia sempre così o colì se non scegliendo arbitrariamente un istante rappresentativo solo di se stesso poiché i sistemi divengono sempre, anche se non necessariamente “altro”. Relativamente all’elenco delle -grandi dualità- riportate nella prima parte, esse  si riferiscono a concetti talmente sfocati ed appartenenti a mondi di significato talmente complesso, che il loro trattamento dicotomico (oggetto secondo la nostra cultura del principio di non contraddizione sul piano logico) è spiegabile solo con quella deriva razionalistica che corse lungo Descartes, Locke e quel Leibniz che lo assumerà per definire le “verità di ragione”, diverse dalle “verità di fatto”. Il matematismo e l’idealismo perseverano questa ingiustificata credenza che la nostra approssimata ragione possa dedurre in se stessa la forma propria della realtà. Questa filosofia dell’identità scaturisce dall’ansia ontologica propria dell’animale che conosce per vivere.

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Vi sono due applicazioni dell’operatore “o – o” nell’attuale standard del nostro conoscere che dovremmo rivedere con attenzione. Dovremmo operare queste verifica nell’ambito di una più generale ed estesa revisione scettica di ciò che siamo andati sin qui pensando e  facendo. Questa nuova stagione di scetticismo s’impone al pari di quella che animò Descartes per operare un superamento dei modi precedenti il moderno, proprio per favorire oggi il superamento del moderno. E’ evidente ormai a tutti che la nostra epoca è transitiva, è un complesso passaggio dalle forme del mondo, dello stare al mondo e quindi del pensare il mondo, dalla modernità a qualcosa che ancora non sappiamo e di cui dovremmo cominciare a farcene una idea, piuttosto che aspettarne l’accadimento. Qui si propone di battezzare la nuova era “Era complessa”.

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1) La prima applicazione dell’operatore disgiuntivo “o – o” l’abbiamo nella divisione del lavoro conoscitivo. All’inizio della Ricchezza delle Nazioni, Adam Smith propone il celebre esempio della fabbrica dei chiodi che sostiene la maggior produttività della specializzazione. Un singolo lavoratore produce un chiodo in un ora se si occupa di tutto il processo, quindi dieci lavoratori = dieci chiodi. Ma se mettiamo i dieci lavoratori ad occuparsi ognuno di un solo segmento del processo di produzione di un chiodo, in un ora, produrranno cento chiodi. Questo perché ognuno si specializza in un segmento  e facendo e rifacendo sempre e solo una limitata cosa, la farà sempre più velocemente e sempre meglio. Lo sviluppo della successiva produzione industriale  fu la conseguenza, ma il principio continuerà ad operare anche fuori dall’industria poiché è un principio naturale, basato sul fatto che ognuno di noi passa da una attenzione selettiva inziale nel fare una cosa che non sa fare o nel fare male tante e diverse cose che richiedono diverse attitudini che non ha, a saperla fare sempre meglio quasi in maniera automatica, se concentrati a fare una cosa limitata e sempre uguale a se stessa. L’origine di questo principio si manifesta probabilmente al nascere delle società complesse già 8000 anni fa, ma forse anche prima nei più piccoli gruppi seminomadi ed è presente anche nelle strutture degli animali sociali.  Smith era un filosofo e così applicò il principio della divisione del lavoro anche alla conoscenza, quella filosofica in particolare: “Come ogni altra occupazione, essa è parimenti suddivisa in un gran numero di rami differenti, ognuno dei quali dà occupazione a un particolare gruppo o classe di filosofi e questa suddivisione di occupazione nella filosofia, come in ogni altra attività, migliora l’abilità e risparmia tempo. Ogni individuo diventa più esperto nel suo particolare ramo, nell’insieme viene fatto maggior lavoro e la scienza con ciò viene considerevolmente incrementata[13].  L’albero della conoscenza stava aumentando le sue arborizzazioni in corrispondenza della propria crescita.

Arriviamo così allo stato della conoscenza e dei modi di conoscere, tipici della nostra cultura e della nostra forma di civilizzazione. Questo stato prevede discipline che si formano nell’insegnamento universitario, si rinforzano nello sviluppo disciplinare pratico o teoretico, si esplicitano in forme logico-linguistiche proprie e reciprocamente  incommensurabili, si concretizzano in testi che ne sviluppano la cultura regionale, si finalizzano a preparare sempre e solo ad una possibile professione oggetto a sua volta di divisione del lavoro, retrodeterminando l’ineluttabilità dello specialismo nell’insegnamento universitario. Il recente modo anglosassone di intendere l’istruzione agganciandola strettamente alle necessità della produzione economica, non fa che rendere ancora più marcato questo movimento di specializzazione frazionata ed al contempo ne stabilisce una specifica finalità: conoscere meglio per produrre di più[14].  Nel tempo, ognuno di questi segmenti della divisione del lavoro conoscitivo, si rinforza e sclerotizza nel suo specifico ed al contempo per via della progressione cumulativa della conoscenza, si dirama in particolari sempre più piccoli. Si giunge così ad osservare anche in questi domini, la vigenza di un Principio di indeterminazione per il quale tanto più si entra nella microfisica della conoscenza di un particolare, tanto più si è ignari di un altro particolare; quanto più si è specializzati nel particolare, tanto più si è ignoranti del generale. Si crea una sorta di “dotta ignoranza” in cui compunti specialisti si urlano reciprocamente (e davanti ad un pubblico della conoscenza sempre più attonito) verità locali, con presunzione di validità universale. Già l’”universale” è un concetto assai problematico, pretendere poi di coglierlo dall’estremo particolare sfocia, appunto, nel “delirio”.  E’ così che il grande divenire attuale delle nostre società-civiltà rimane un movimento invisibile a chi osserva solo la propria porzione dell’Intero.  Oltretutto questi “urlamenti” sono espressi in linguaggi incommensurabili per cui dalla smithiana divisione del lavoro si passa alla parabola della Torre di Babele.

La parabola della Torre di Babele è tanto conosciuta nel generale, quanto poco precisata nel particolare. Si dice che essa racconti di un Dio offeso dall’ardire degli uomini a sfidare la conoscenza del punto di vista dal Cielo, cioè del Tutto che gli sarebbe appartenuta in esclusiva di diritto. La storia riportata nel testo dell’Antico Testamento racconta di questi popoli asiatici che scesi a valle, provarono a costruire una città comune ed un simbolo di unità ed identità –la famosa torre-, per “farsi un nome” e così non disperdersi su tutta la terra. Era un progetto di unità. Dio osservò pensoso “Ecco essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola, […] e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile”. Dio osserva il progetto unitario di costruzione di una città degli uomini ma ciò non era bene perché così si sarebbero sottratti alle leggi che governano la città di Dio, quelle che prevedono che solo Dio sappia del generale. Così Dio condanna quei temerari al particolare, cambiando le loro lingue, scioglie la loro possibilità di interrelazione, di dialogo e con ciò la possibilità unità  delle loro molteplicità operata dal basso. Confondendo la loro lingua di modo che non si comprendano più reciprocamente: “…il Signore li disperse su tutta la terra”. Una versione assai precoce del “divide et impera[15] imposta da chi opera “dall’alto”, agendo sull’impossibilità del dialogo che ipostatizza il conflitto della contraddizione.

Viene allora da domandarsi, nel divide et impera della divisione disciplinare delle conoscenze, chi è che impera dall’alto, chi è il Dio? Nel caso moderno, poiché l’intera nostra società è ordinata dall’economia (e la nostra peculiare forma di economia dal doppio principio del lavoro e del capitale), ne segue che anche la conoscenza divisionalizzata è imperata più o meno, dallo stesso principio. Direttamente come nel caso della disciplina economica che produce più mondo di quanto non facciano la filosofia e buona parte di tutte le altre conoscenze messe assieme, indirettamente come primato scientifico anche a presupposto dello sviluppo tecnologico utile alla crescita economica ed in maniera molecolare come vigenza di alcuni principi generali quali il razionalismo, l’oggettivismo, il quantitativismo, i dualismi ipostatizzati nella legge di non contraddizione applicata a casaccio, la semplificazione, la riduzione, la vana ricerca dell’Assoluto e il dominio a-critico di varie versioni dello sfuggente principio di verità. E’ questo l’imperio dell’impersonale dio moderno che domina su una macedonia di segmentati specialismi di modo che “…agli […] uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono coscienti di ciò che fanno dormendo[16] .

La polemica contro lo specialismo e l’alienazione che ne consegue (anche se il danno maggiore, il danno sistemico, non deriva dallo specialismo in sé ma dalla sua unilaterale pratica) ha visto contributi importanti da Nietzsche a Weber, da Ortega y Gasset a Morin[17] che poi altro non fa che ribadire con maggior forza la propensione inter-multi-disciplinare della cultura sistemica (dalla fondazione di L. von Bertalanffy a G. Bateson ed altri) e di quella della complessità. Ripetiamo, non è lo specialismo il problema (che è anzi una cosa naturale ed utilissima), ma la sua vigenza di paradigma assoluto, il suo -senso unico-. Se siamo tutti intenti ad esser parte di un processo, chi stabilisce, controlla e gestisce il processo? E’ l’interpretazione assoluta, la monocularità, il non dialogo, la disgiunzione come legge unica, lo specialismo come paradigma valido sempre e per tutti, il problema. Bisogna stare attenti a non farsi cacciare nell’ “o - o”, nessuno vuole contraddire lo specialismo con il generalismo, questa trappola “dialettica” serve proprio per uccidere il dialogo. La complessità, dall’alto della concezione sistemica avverte che anche in questo caso sarebbe più opportuno l’”e – e”, la complementarietà, la binocularità, la relazione complementare tra specialismo e generalismo. Il vero nemico concettuale della complessità è l’assoluto, poiché nessuna cosa materiale o immateriale nello sguardo sistemica risulta sciolta da legami (ab-solutus), che in complessità si chiamano “relazioni” o più spesso “interrelazioni”.

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2) La seconda applicazione del principio disgiuntivo “0 – 0″  l’avemmo di nuovo nel passaggio che portò alla modernità, ma sotto un altro aspetto, nell’aspetto non del modo di conoscere ma dell’oggetto da conoscere.  Il mondo di intendere e praticare il conoscere dell’Era medioevale, ma ancora nell’Umanesimo e nel Rinascimento, aveva una forte impronta olistica e generalista (le due cose non sono sinonimi), le cose si osservavano nel loro intero e di esse si cercava di trarre,  considerazioni generali. Le determinazioni filosofiche di riferimento erano la teologia cristiana in generale, quella di Tommaso d’Aquino di stampo aristotelico, quella neo-platonica soprattutto per l’umanesimo fiorentino, nel particolare. La rivoluzione razionalistico-scientifica intervenne con la coppia Descartes – Galilei. Entrambi suggerivano di rompere e frantumare questi generali (anch’essa una forma di “divide et impera”), suddividerli in particolari maneggiabili ed osservabili nel loro comportamento, comportamento che poi si poteva teorizzare in legge, descrivere nel linguaggio della natura ovvero la matematica (Galilei) e verificare in appositi esperimenti che confermassero la consistenza della legge teorizzata e derivata dall’osservazione (almeno per l’approccio scientifico,  più assennato di quello metafisico-razionalistico). Clamorose conferme del metodo galileiano erano già pervenute in contemporanea alla sua formazione con l’astronomia basata su i progressi dell’ottica (la rivoluzione artigianale anticipa e rese possibile quella scientifica, come poi accadrà di nuovo con quella industriale)  e trionfarono definitivamente nel sontuoso edificio de: “Philosophie Naturalis Principia Mathematica” di I. Newton nel 1687. Il flusso che portava dal generalismo alla specializzazione era già predeterminato dai principi proposti da Descartes e Galilei, ma con ciò si ebbe un doppio effetto sinergico,  frantumare la conoscenza in atti conoscitivi sempre più particolari e  frantumare l’oggetto stesso che si intende conoscere, rompere l’intero in parti. Metodo e concezione dell’oggetto si coimplicavano.

Alla impostazione precedente che spesso assumeva forma olistica, il moderno contrappose quindi la forma riduzionistica, la riduzione dell’Intero nelle sue parti. La contrapposizione è stata ed è tutt’oggi una sorta di dialogo tra sordi, come se due entità divise dal Principio di indeterminazione, rivendicassero ognuna dal proprio unilaterale ed in incompleto punto di vista, il diritto di verità non solo ultima ma anche totale. Tutto del particolare e cecità del generale ovvero conoscenza determinata, razionale e limitata nel disperso molteplice – o – tutto del generale e cecità al particolare ovvero conoscenza indeterminata , intuitiva e comprensiva dell’Uno-Tutto. 

Il paradigma olistico risale però al neo-platonismo per l’Occidente, ed al alcune forme della speculazione indiana e cinese (dottrina dello yin e yang, taosimo) per l’Oriente. E’ cioè storicamente un paradigma perdente, sconfitto e superato dal razionalismo scientista e dall’egemonia che un certo modo di conoscere occidentale, esercita oggi anche nelle culture antiche dell’Oriente. Sconfitta, va precisato, non nel campionato astratto delle idee ma nel campionato concreto di come le idee aiutino a migliorare la nostra fitness col mondo, almeno sino ad oggi ed in mancanza di meglio.  La complessità, come nuovo paradigma gnoseologico, si propone  un superamento di ciò che dalla tesi olistica passò all’antitesi razionalista per  giungere a qualcosa che risolva l’antica dicotomia in una forma che contiene un po’ dell’uno ed un po’ dell’altro ed altro ancora. Questo superamento non è invocato per principio astratto  ma seguendo due considerazioni: 1) il mondo sa diventando sempre più complesso (ha oggi un indice di complessità non paragonabile a quello che si poteva registrare negli scorsi quattro secoli che a loro volta avevano un indice di complessità ben maggiore del Medioevo, motivo del trapasso dall’olismo al razionalismo ed alla scienza); 2) lo sviluppo della conoscenza degli ultimi quattro secoli ha dissodato il terreno ad un livello più semplice, quale era possibile e necessario iniziando in concreto il percorso di conoscenza del mondo. Ora, su questo primo livello del relativamente semplice, va condotta la ricerca di un secondo livello che indaghi  il mondo ad un grado di definizione e di inquadratura maggiore.

La complementarietà di olismo e riduzionismo è il concetto di unità molteplice o sistemica (Morin) per il quale, alla fine, è tutta una questione di dove porre il punto di vista. Posto fuori del sistema certo questo appare un uno, una unità funzionale ma sebbene si possa osservare nell’intero il prodotto del suo funzionamento, come questo funziona ci rimarrà precluso. Ma altrettanto certo è che il sistema è fatto di parti che si possono scomporre per numerarle ed osservarle più nel particolare sebbene così facendo, annullando cioè la interrelazione tra le parti, si dissolve anche la funzionalità del sistema e il senso stesso del ruolo che la parte vi esercita. Il punto di vista complesso si pone a metà nella dicotomia tra determinismo riduzionista ed olismo indeterminato, esso tende alla complementarietà degli sguardi, usa l’operatore logico “e – e”,  tende ad un olismo determinato o meglio al “complesso” cioè ad una concezione di un uno in relazione, composto di parti in relazione.

Lo sguardo complesso usa preferibilmente  l’operatore “e – e” sia nel metodo, sia per definire l’oggetto da conoscere. Quanto a gli oggetti della conoscenza, predilige gli inquadramenti sistemici e tende a ricomporre le dicotomie non in un generico annullamento quietista o misticismo unista di stampo neoplatonico, ma cercando di capire come esse concorrono al formare un intero sistemico oltretutto immerso in un contesto. Quanto al metodo della conoscenza, predilige l’uso incrociato e sovrapposto di più discipline, non in un generico eclettismo, ma cercando di capire come queste possano concorrere a ripristinare una mente uni-complessa che indaga un mondo uni-complesso. Lo sguardo complesso tende a riallineare Mondo e osservatore (dualità descrittiva, non ontologica) ad un livello in cui entrambi si riconoscono come enti sistemici, dotati di parti, costituiti da interrelazioni, anche reciproche, affetti dai contesti, condizionati dai tempi.

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Una possibile applicazione concreta dei principi dello sguardo complesso nell’ambito concreto della produzione e riproduzione della conoscenza, potrebbe essere l’idea di istituire un corso di insegnamento in cosmo-cronosofia. La cosmo-cronosofia sarebbe la conoscenza (sofia) del tempo (crono) e del cosmo (spazio) ovvero del mondo nell’accezione di Wittgenstein: “il mondo è la totalità dei fatti”. Una storia generale dei fatti, fatti di natura e fatti umani, nel corso del loro tempo di sviluppo. La storia della natura sarebbe poi null’altro che una carrellata di ciò che riteniamo sia successo da quando c’è il tempo. Divisibile in una prima parte che inizia da 14 miliardi di anni fa ed una seconda parte che inizia 4,5 miliardi di anni fa da quando cioè si è formata la Terra. Elementi di astrofisica, astrobiologia, geologia, biologia terrestre, geografia, chimica e fisica, paleontologia, sarebbero le discipline di cui si darebbero coordinate generali utili a seguire ed interpretare la cronologia degli eventi naturali. Quanto alla storia umana avremo, a partire dalla comparsa del genere -homo-, si ritiene circa 2,5 milioni di anni fa,   di nuovo biologia in versione evoluzionista, paleoantropologia, antropologia, archeologia, geografia culturale, demografia  e poi tutte le storie intrecciate assieme: storia delle religioni, lineamenti storici di linguistica, storia delle idee, storia dell’arte, storia propriamente detta ma tenendo intrecciate assieme le storie politiche, quelle sociali e quelle economiche, storia delle scienze (naturali ed umane) e delle filosofie. Ne verrebbe fuori una specializzazione nella generalizzazione, nello sguardo più generale oggi ci è possibile concepire su ciò che sappiamo, una vera e propria prima conoscenza (certo indeterminata e molto generale) dell’intero[18].

Qui scatta il principio di indeterminazione che per alcuni è di contraddizione per cui alcuni obietteranno: “cosa ce ne facciamo di una conoscenza così incerta e sfocata?”. Il problema è che la scienza tanto più precisa sarà quanto più particolare sarà nella messa a fuoco , essa può essere ed è una buona via della conoscenza ma a questo modo sfuggono alcuni oggetti macroscopici. Battezzare “scienze umane” o “sociali” le discipline intermedie tra quelle propriamente scientifiche e quelle prettamente umanistiche fu un errore. Le cosiddette scienze sociali possono tendere alla norma scientifica ma non potranno mai raggiungerla dato l’oggetto della propria conoscenza e quindi non possono attribuirsene il termine.  Era tipico del XIX° secolo questa “invidia della certezza” (o invidia di Newton) che pervadeva ogni sforzo conoscitivo e la troviamo un po’ dappertutto dalla Scienza della logica di Hegel al materialismo scientifico, ma ripeto, fu un errore di classificazione poiché rendeva opaca l’indeterminazione tra certezza e dimensione/complessità dell’osservato. A dire anche che abbiamo la stessa necessità  di osservare sia ciò che è precisabile, sia  ciò che non lo è e il fatto che non lo sia non deve certo farci rinunciare ad osservarlo, pena la veglia incosciente di Eraclito, conseguente cecità e finale schiavitù di parte sovraordinata da qualcosa che non abbiamo scelto consapevolmente.

Noi viviamo in un  Intero delle cui determinazioni complesse siamo dipendenti. Sino ad oggi abbiamo coltivato lo spezzettamento di questo Intero in una Babele di discipline, concetti (che poi spesso replicano una unica forma logica in n versioni, ma senza averne consapevolezza) e linguaggi che vanno ognuno per proprio conto lasciando a paradigmi invisibili e di cui non abbiamo aperta consapevolezza, il compito di ordinare questo immane sforzo conoscitivo. Nell’ Era della Complessità nella quale nostro malgrado siamo capitati, sarebbe forse opportuno cominciare ad oggettivare questo Intero, porcelo davanti come  un fatto che vogliamo conoscere meglio, cominciando a prendere coscienza sistemica sia della sua esistenza, della nostra e della reciproca relazione, sia di quanto siamo andati sin qui sviluppando nei mille rivoli ridotti e determinati della nostra indagine conoscitiva su questi tre diversi aspetti e le loro più minute componenti.

Ne nascerebbero dei cosmo-cronosofisti, generalisti della conoscenza di fatti  e specialisti dell’intero che potrebbero aiutare  le singole discipline a prender coscienza di come si pensa, di quanti concetti che organizzano la conoscenza dei fatti presi nella loro forma pura, potrebbero esser utili non solo nella disciplina di cui sono nativi ma anche in altre, com’è nel caso del -sistema-. Aiuterebbero a ricordare di contestualizzare sempre ciò che a volte riteniamo ab-solutus. Ab-solutus è la forma tirannica che osteggia l’ulteriore sviluppo della nostra conoscenza poiché si ritiene possibile sciogliersi da ogni legame, legame che appunto ci lega alle altre parti ed ai contesti.  Allargherebbero la nostra consapevolezza della complessità generale, aiuterebbero a dimensionare le pretese di assoluto che ingombrano le verità locali, favorirebbero le verifica incrociate tra verità locali, inviterebbero forse a far nascere nuove discipline transdisciplinari, proporrebbero un nuovo meta-linguaggio per far comunicare le diverse conoscenze aiutandole comunque da subito a confrontarsi reciprocamente[19], aprirebbero forse le condizioni di possibilità per la nascita di una nuova rivoluzione gnoseologica. Ogni inizio è primitivo, col tempo anche questa forma di conoscenza generale progredirebbe affinando i suoi metodi e facendo le sue scelte per ridurre progressivamente l’indeterminazione, anche se mai del tutto.

Ci solleciterebbero anche a domandarci su a chi o cosa vorremmo far coordinare il progetto per la costruzione della nostra città umana, se da un dio, da un paradigma impersonale (la dinamica economica, quella religiosa, quella militare che hanno imperato a turno nella varie epoche) o dall’assemblea dei cittadini della città umana, ovvero l’autogoverno autocosciente del sistema.  Produrrebbero del nuovo, precondizione necessaria, sebbene non sufficiente, per adattarci ai tempi nuovi, i tempi complessi.

Uno sforzo adattativo alla complessità che oggi ci pervade dovrebbe iniziare forse da qui, dal costruire una Torre di Babele che non temi di dare l’assalto al Cielo, prima che il cielo ci crolli in testa.
 

 

[ Un breve e recente  articolo di Edgar Morin, più o meno sullo stesso tema: http://cogitoergosum2013.blogspot.it/2013/10/edgar-morin-morin-la-scuola-insegni.html ]

[1] W. Pauli usò una volta l’espressione “neanche sbagliato” per commentare l’immaturo lavoro di un suo allievo. L’espressione divenne celebre come segno del carattere totalmente inconsistente di una teoria. Oggi è anche il titolo di un bel libricino sulla Teoria delle stringhe: P. Woit, Neanche sbagliata, Torino, Codice edizioni, 2007
[2] Citato come nota 6 a pg. 150 di: D. Lindley, Incertezza, Eiunaudi, Torino, 2008
[3] Lo stesso Pauli poi produsse sempre nell’ambito della meccanica quantistica un altro principio ispirato dall’operatore logico dell’esclusione, il Principio di esclusione appunto. Esso si applica ai soli fermioni (es: protoni, neutroni ed elettroni).
[4] L a logica fuzzy invece si basa proprio su i gradi intermedi di verità.
[5] Esiste una altra forma della relazione soggetto – oggetto che è quella del dualismo descrittivo. Il dualismo descrittivo non dice che le cose sono duali, le presenta e le tratta come due per ragioni di descrizione. Un dualista descrittivo può ben essere un monista ontologico.
[6] Esempi tipici si possono trovare nella Dialettica trascendentale, che è proprio produzione di dicotomie della ragion pura, nella prima critica kantiana. Sempre Kant definiva un altro dei concetti auto-generati, il Nulla, come “concetto vuoto senza oggetto”.
[7] E. Schrodinger, che cos’è la vita? Milano, Adelphi,
[8] Non vorrei sbagliare ma questo argomento venne in origine usato da G. B. Vico nella sua critica al riduzionismo cartesiano.

[9]
Morin tende a confutare la vigenza del principio di non contraddizione ma di tale principio, come abbiamo visto nella prima parte, bisognerebbe distinguere la versione ontologica che è innegabile con quella logica che è dipendente dalla definizione dei termini e dalla più generale definizione di verità. In logica più che escludere il principio di non contraddizione (che sarebbe applicarlo nella sua esclusività assoluta), esso andrebbe affiancato da quello di inclusione. Nella cultura della complessità quindi si dovrebbe parlare di decisa preferenza per l’operatore “e – e”, non di esclusiva vigenza.
[10] La “dialettica non conciliata” è alla base della –dialettica negativa- di T.W.Adorno e dell’Aut-Aut di S. Kierkegaard. La dialogica pur non giungendo a sintesi conciliante, non condivide l’aut-aut dicotomico e contempla la dicotomia come produttiva anche se non sempre e di necessità produttiva di una sintesi in senso hegeliano. T.W. Adorno, Dialettica negativa, Torino, Einaudi, 2004.
[11]L’opposto concorde e dai discordi bellissima armonia [e tutto accade secondo contesa]” da i frammenti di Eraclito, riportati in “I Presocratici”, Roma-Bari, Laterza, 1979-2004 vol. I, pg. 197. “Congiungimenti sono intero e non intero, concorde discorde, e da tutte le cose l’uno e l’uno da tutte le cose”, idem, pg. 198 (con un breve commento di Aristotele). Frammenti 50, 57, 60 (da cui trae ispirazione la ascendenza, discendenza del percorso della Fenomenologia hegeliana a suo tempo presente anche in Proclo), 67. Anche il celebre frammento 2, pg. 195, riportato da Sesto Empirico, allude alla dicotomia particolare – generale nella conoscenza.
[12] E. Morin, La Méthode vol. III: La conoscenza della conoscenza, Milano, Feltrinelli, 1989; oppure Milano, Cortina Raffaello, 2007. Il concetto si presentava originariamente in La Méthode vol. I, La natura della natura, Milano Feltrinelli (che lo pubblicava con il titolo “Il metodo”), Milano, Feltrinelli, 1983, pp.gg. 152 – 156, come “Antagonismo nella complementarietà”. Il volume si trova anche come: Milano, Cortina Raffaello, 2001. Le traduzioni delle versioni Feltrinelli sono di Gianluca Bocchi: http://www.gianlucabocchi.it/, insieme a M. Ceruti, “padri” del pensiero complesso italiano. Il principio dialogico è anche il sesto di una serie di ,esposti nel capitolo 8 – La riforma del pensiero de “La testa ben fatta”, Milano, Cortina Raffaele, 2000, dove si richiama espressamente N. Bohr.
[13] A. Smith, La ricchezza della nazioni, Torino, UTET, 1975-1996, pp.gg. 87-88.
[14] Una critica ai condizionamenti corruttivi che l’esasperazione delle produttività scientifica (oltretutto ormai del tutto finalizzata al ruolo di motore principale della crescita economica) sta producendo anche in termini di perdita di serietà e consistenza della ricerca scientifica, compaiono sul n. 1023 di Internazionale che presenta una doppia inchiesta addirittura dell’Economist. Non che il capitalismo si sia ravvedendo della sua intromissione condizionante la conoscenza, è che si lamenta del fatto che gli arrivano risultati scadenti e quindi inutili. Nello steso numero della rivista, una deliziosa vignetta dello spagnolo El Paìs recita: “La scienza cominciò a fare miracoli e si trasformò in una religione”. Qui si aprirebbe tutto un capitolo sul come la religione negata da scienza e realismo economico, si riaffacci come atteggiamento che pervade vaste aree proprio dei due atteggiamenti che dovevano superarla definitivamente. Ma questo è un altro articolo…
[15] Le citazioni dell’Antico Testamento sono tratte dalla serie Le Religioni curata da G. Filoramo, Roma, CEI, Gruppo Editoriale l’Espresso, 1974-2005
[16] Eraclito, frammento 1, pg. 194 op. cit.
[17] J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Milano, SE, 2001; E. Morin, La testa ben fatta, Milano, Cortina, 2000. In Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1972, K. Popper sostiene: “La specializzazione può essere una tentazione per lo scienziato: per il filosofo è un peccato mortale”.
[18] Qualcosa di simile trattava il pezzo “Ritorno ai presocratici” di K. Popper, contenuto in Congetture e confutazioni op. cit. . In effetti la filosofia pre-socratica, ha prevalentemente un oggetto cosmologico e gnoseologico e si potrebbe leggere il nostro invito alla cosmo-cronosofia come un “ritorno arricchito”, cioè un tornare alla stessa intenzione, arricchiti da duemilacinquecento anni di sviluppo della conoscenza.
[19] Il primo incontro è senz’altro quello tra professori e studenti di economia e professori e studenti di storia, psicologia e scienze cognitive, antropologia, sociologia, scienze politiche. Mi sederei di faccia all’audience per godermi l’espressione dei secondi quando i primi riveleranno che l’intera loro disciplina origina dal concetto di individuo egoista ed  iper-razionale nel valutare la propria utilità.
 
 

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