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consecutio temporum

Desiderio: Pulsione = Verità: Sapere

Slavoj Žižek1

111007 gustave courbet grand palais21 2007 10 11  18 15 20 290Secondo quanto indica Jacques-Alain Miller, il concetto di “costruzione in analisi” non si basa sulla (dubbia) pretesa che l’analista abbia sempre ragione (se il paziente accetta la costruzione proposta dell’analista, ciò rappresenta l’inequivocabile conferma della sua correttezza; se il paziente rifiuta, questo è un segno di resistenza che, di conseguenza, ribadisce il fatto che la costruzione abbia in qualche modo toccato la verità); il punto sta, al contrario, nel lato opposto della questione: “l’analizzando è sempre, per definizione, dalla parte del torto”. Al fine di giungere a tale conclusione, è necessario soffermarsi sulla distinzione cruciale tra la costruzione e la sua controparte, l’interpretazione, il cui rapporto è correlativo a quello della coppia sapere/verità. L’interpretazione è un gesto che è già sempre incorporato nella dialettica intersoggettiva del riconoscimento tra analizzando e analista, il cui intento è quello di concorrere alla produzione di un effetto di verità legato a determinate formazioni dell’inconscio (un sogno, un sintomo, un lapsus). Il soggetto dovrebbe allora poter “riconoscere” se stesso nella significazione proposta dall’interprete, precisamente con l’intento di soggettivarlo, al fine di assumere il significato proposto come “suo proprio” (Si, oh mio Dio, quello sono io, volevo davvero questo). Il successo dell’interpretazione è determinato da questo “effetto di verità” nella misura in cui influisce sulla posizione soggettiva dell’analizzando (suscitando ricordi di eventi traumatici fino a quel momento profondamente repressi che provocano resistenza violenta). In netto contrasto con l’interpretazione, la costruzione (ad esempio, quella di una fantasia fondamentale) ha lo status di un sapere che non può mai essere soggettivizzato, assunto dal soggetto come verità su se stesso, come la verità in cui egli può riconosce il nucleo più intimo del suo essere.

Una costruzione è un presupposto esplicativo puramente logico, come la seconda fase (“vengo picchiato da mio padre”) della fantasia infantile “Un bambino viene picchiato” che, come sottolinea Freud, è così radicalmente inconscia che non può mai essere ricordata: “Questa seconda fase è fra tutte la più importante e densa di conseguenze. Ma di essa si può dire, in un certo senso, che non ha mai avuto un’esistenza reale. In nessun caso viene ricordata, non è mai riuscita a diventare cosciente. È una costruzione dell’analisi, ma non per questo è meno necessaria”2. Il fatto che questa fase “non ha mai avuto un’esistenza reale” naturalmente, è un indice dello status del reale lacaniano; il sapere che abbiamo di questa fase è un “sapere nel reale”, vale a dire, si tratta di un sapere “acefalo”, non soggettivizzato. Nonostante o, meglio, proprio per questa ragione, si tratti di una sorta di “Tu sei quello!” che articola il nocciolo stesso dell’essere del soggetto, il suo presupposto mi “de-soggettivizza”, in altre parole io posso presupporre la mia fantasia fondamentale solo nella misura in cui mi sottopongo a ciò che Lacan chiama la “destituzione soggettiva”. O, per dirla in un’altra maniera, interpretazione e costruzione stanno l’una all’altra come il sintomo sta alla fantasia: i sintomi devono essere interpretati e la fantasia fondamentale deve essere (ri)costruita. Questa nozione del sapere “acefalo” emerge piuttosto tardi nell’insegnamento di Lacan, dopo che nei primi anni settanta il rapporto tra sapere e verità ha subito un profondo cambiamento.

Nella fase “iniziale”, che va dagli anni ‘40 agli anni ‘60, Lacan si muove all’interno delle coordinate offerte dalla tipica opposizione filosofica tra il sapere oggettivante “inautentico”, che ignora la posizione enunciativa del soggetto, e la verità “autentica”, dalla quale si è esistenzialmente coinvolti, di cui subiamo l’influenza. Nella clinica psicoanalitica, questa opposizione è forse meglio esemplificata dal netto contrasto tra la nevrosi ossessiva e l’isteria. Il nevrotico ossessivo “mente per mascherare la verità”. A livello di accuratezza fattuale, le sue dichiarazioni appaiono come una regola vera, eppure egli usa l’accuratezza fattuale per dissimulare la verità sul suo desiderio. Quando, ad esempio, il mio nemico è coinvolto in un incidente automobilistico a causa di un malfunzionamento dei freni, faccio in modo di spiegare accuratamente a tutti che non sono mai stato vicino alla sua macchina e non sono quindi responsabile del malfunzionamento. Nonostante sia vero, diffondo questa “verità” per nascondere il fatto che l’incidente ha realizzato il mio desiderio. Al contrario l’isterico “dice la verità per mascherare una menzogna”; la verità del mio desiderio viene ad essere articolata nella distorsione stessa dell’“accuratezza fattuale” del mio discorso. Quando al posto di dire “io con questo atto apro la sessione” dico “io con questo atto chiudo la sessione”, il mio desiderio viene chiaramente a rivelarsi. L’obiettivo del trattamento psicoanalitico è quindi chiaramente quello di (ri)porre l’attenzione dall’accuratezza fattuale alle menzogne isteriche che inconsapevolmente articolano la verità, e quindi muovere verso un nuovo sapere che si situa al posto della verità, verso un sapere che, al posto di dissimulare la verità, dà origine a una serie di effetti-di-verità, vale a dire a ciò che il Lacan degli anni Cinquanta ha chiamato la “parola piena”, il discorso in cui riverbera la verità soggettiva. Questa nozione di verità, ovviamente, appartiene ad una lunga tradizione, che va da Kierkegaard a Heidegger, di disdegno nei confronti della mera “verità fattuale”.

 Ad ogni modo, a partire dalla fine degli anni Sessanta, Lacan sempre più incentra l’attenzione sulla pulsione come tipo di sapere “acefalo” in grado di procurare soddisfazione. Questo sapere non implica alcuna relazione intrinseca con la verità, tantomeno alcuna posizione d’enunciazione soggettiva – non perché dissimuli la posizione d’enunciazione soggettiva, ma perché si tratta di un sapere in se stesso non-soggettivato, o ontologicamente antecedente la dimensione stessa della verità (naturalmente, il termine “ontologico” diventa in questo modo assai problematico, dal momento che l’ontologia è per definizione un discorso sulla verità). Verità e sapere sono quindi legati l’un l’altro come il desiderio e la pulsione: l’interpretazione mira alla verità del desiderio del soggetto (la verità del desiderio è il desiderio di verità, come si è tentati di dire alla pseudo-heideggeriana maniera), mentre la costruzione produce un sapere sulla pulsione. Non è forse proprio il caso paradigmatico di tale sapere “acefalo” fornito dalla scienza moderna3ciò che esemplifica l’“insistenza cieca” della pulsione (di morte)? La scienza moderna segue il suo percorso (nella microbiologia, nella manipolazione genetica, nella fisica delle particelle), incurante del costo – la soddisfazione è qui procurata dallo stesso sapere, non da obiettivi morali o comuni ai quali il sapere scientifico dovrebbe sottostare. Tutti i “comitati etici” che abbondano oggi e tentano di stabilire le regole per la condotta appropriata della manipolazione genetica, degli esperimenti medici, etc., non sono forse, in ultima analisi, disperati tentativi di re-inscrivere questa inesorabile pulsione della scienza verso il progresso, che non conosce alcuna limitazione intrinseca (ovvero questa etica intrinseca all’atteggiamento scientifico), entro i confini degli obiettivi umani, vale a dire di fornire la scienza di un “volto umano”, di una limitazione? La saggezza comune oggi è che “il nostro straordinario potere di manipolare la natura attraverso strumenti scientifici ha superato le nostre facoltà al fine di condurre un’esistenza significativa, di fare un uso umano di questo immenso potere”. In questa maniera l’etica propriamente moderna del “seguire la pulsione” si scontra con l’etica tradizionale laddove si sia insegnato a vivere la propria vita secondo i principi della giusta misura e a subordinare tutti i suoi aspetti a una qualche nozione onnicomprensiva di Bene. Il problema è, naturalmente, che nessun equilibrio tra queste due nozioni di etica potrà mai essere raggiunto. L’idea di re-inscrivere la pulsione scientifica all’interno dei vincoli del mondo della vita è fantasia allo stato puro – forse la fondamentale fantasia fascista. Qualsivoglia limitazione di questo tipo è del tutto estranea alla logica intrinseca della scienza – la scienza appartiene al reale e, come una modalità del reale della jouissance, è indifferente alle modalità della sua simbolizzazione, vale a dire al modo che influirà sulla vita sociale.

Naturalmente, l’organizzazione concreta dell’apparato scientifico, fino ai suoi più astratti schemi concettuali, è socialmente “mediata”, ma tutto il gioco di discernere i pregiudizi patriarcali, eurocentrici, meccanicisti, di sfruttamento della natura dalla scienza moderna “non è veramente un problema della scienza”, ovvero di quella pulsione che si manifesta nel funzionamento della macchina scientifica. La posizione di Heidegger sembra essere qui del tutto ambigua, forse è fin troppo facile respingerlo come il più sofisticato sostenitore della tesi che alla scienza a priori manca la dimensione della verità. Non ha forse sostenuto che “la scienza non pensa”, cioè che, per definizione, è incapace di riflettere il proprio fondamento filosofico, l’orizzonte ermeneutico del proprio funzionamento e, inoltre, che questa incapacità, lungi dall’essere un impedimento, è una condizione di possibilità positiva per il suo buon funzionamento? Il suo punto cruciale è piuttosto che la scienza moderna, in quanto tale, non può essere ridotta a una qualche opzione limitata, ontica, “socialmente condizionata” (che, ad esempio, esprima gli interessi di un determinato gruppo sociale), ma è, al contrario, il reale del nostro momento storico, ciò che “rimane lo stesso” in tutti i possibili universi simbolici (“progressisti” e “reazionari”, “tecnocratici” ed “ecologici”, “patriarcali” e “femministi”). Heidegger è quindi ben consapevole del fatto che tutte le modaiole “critiche della scienza”, secondo cui la scienza è uno strumento di dominazione capitalista occidentale, d’oppressione patriarcale, etc., risultano inadeguate e, pertanto, lasciano indiscusso il “nocciolo duro” della pulsione scientifica. Lacan ci impone di aggiungere a questo discorso che la scienza è forse “reale” in un senso ancora più radicale: è il primo (e probabilmente unico) caso di un discorso che é rigorosamente “non-storico”, persino nel senso heideggeriano della storicità delle epoche dell’essere, cioè è un’epoca il cui funzionamento è intrinsecamente indifferente agli orizzonti storicamente determinati del disvelamento dell’essere. Proprio nella misura in cui “non pensa”, la scienza “sa”, ignorando la dimensione della verità, ed è come tale pulsione allo stato puro. L’integrazione di Lacan a Heidegger sarebbe quindi la seguente: perché questa completa “dimenticanza dell’essere” presente nella scienza moderna dovrebbe essere percepita solo come il più grande “pericolo”? non contiene forse anche una dimensione “liberatoria“? Non è forse la sospensione della verità ontologica nel funzionamento illimitato della scienza già una sorta di “passaggio attraverso” e “superamento” della chiusura metafisica?

All’interno della psicoanalisi, questo sapere della passione che non può mai essere soggettivato assume la forma del sapere della “fantasia fondamentale” del soggetto, ovvero è la formula specifica che regola il suo accesso alla jouissance. In altre parole, il desiderio e la jouissance sono intrinsecamente antagonisti, o persino esclusivi: la raison d’être del desiderio (o “funzione di utilità”, per usare le parole di Richard Dawkins), non è quella di realizzare il suo obiettivo, trovare piena soddisfazione, bensì di riprodursi in quanto desiderio. E tuttavia, com’è possibile combinare desiderio e jouissance, al fine di garantire un minimo di jouissance all’interno dello spazio del desiderio? Ciò è reso possibile dal famoso oggetto a lacaniano che media tra i due domini incompatibili del desiderio e della jouissance. In che senso preciso l’oggetto a è l’oggetto-causa del desiderio? L’oggetto a non è ciò che desideriamo, ovvero ciò che saremo dopo, ma piuttosto ciò che mette in moto il nostro desiderio, la cornice formale che dà consistenza al nostro desiderio. Il desiderio è chiaramente metonimico, passa da un oggetto all’altro; tuttavia, attraverso tutti questi spostamenti, il desiderio mantiene un minimo di consistenza formale, una serie di caratteristiche fantasmatiche che, quando si trovano in un oggetto particolare, fanno in modo che si giunga a desiderare quell’oggetto. L’oggetto a, in quanto causa del desiderio, non è altro che questo quadro formale di consistenza. In una maniera leggermente differente, lo stesso meccanismo regola l’innamoramento del soggetto: l’automatismo dell’amore è messo in moto quando un qualche oggetto (libidinale) contingente, fondamentalmente indifferente, si trova ad occupare il posto di una pre-determinata fantasia. Questo ruolo della fantasia nell’emergenza automatica dell’amore dipende dal fatto che “non c’è relazione sessuale”, non c’è una formula o una matrice universale che garantisca un’armoniosa relazione sessuale con il partner. Per via della mancanza di tale formula universale, ogni individuo si vede costretto a costruire da sé la sua propria fantasia, una formula “privata” per la relazione sessuale; per un uomo, la relazione con una donna è possibile solo nella misura in cui lei si adatta a questa formula. La formula dell’uomo dei lupi, il famoso paziente di Freud, consisteva in “una donna, vista dalle spalle, accovacciata sulle mani e sulle ginocchia, lavando o pulendo qualcosa sul pavimento di fronte a lei”; la vista di una donna in questa posizione automaticamente originava amore. La formula di John Ruskin, che aveva come modello le statue greche e romane, condusse a una delusione tragicomica quando, durante la sua notte di nozze, scorse dei peli pubici che non aveva mi trovato sulle statue. La scoperta lo rese totalmente impotente, poiché si convinse del fatto che sua moglie fosse un mostro.

Recentemente alcune femministe slovene hanno reagito con indignazione al manifesto pubblicitario per una crema solare, raffigurante una serie di ben abbronzati sederi femminili in costumi da bagno particolarmente attillati, accompagnato dallo slogan “ognuno ha il proprio fattore”. Chiaramente questa campagna pubblicitaria si basa su di un alquanto volgare doppio senso: apparentemente lo slogan si riferisce alla crema solare che viene offerta ai clienti con diversi fattori solari per diversi tipi di pelle; in realtà, il suo effetto è basato sulla ovvia lettura maschilista: “ogni donna può essere posseduta solo se l’uomo conosce il suo fattore, il suo specifico catalizzatore, ciò che la eccita!”. Il punto freudiano sulla fantasia fondamentale sarebbe che ciascun soggetto, maschio o femmina, possiede un tale “fattore” che ne regola il desiderio: “una donna, vista dalle spalle, accovacciata sulle mani e sulle ginocchia” era il fattore dell’uomo dei lupi; una statua di donna senza peli pubici era il fattore di Ruskin, etc. Non vi è nulla di edificante nella nostra consapevolezza di questo “fattore”: questa consapevolezza non può mai essere soggettivizzata, è perturbante, perfino orripilante, dal momento che in qualche modo “espropria” il soggetto, riducendolo ad una sorta di burattino “al di là della dignità e della libertà”.

  1. Questo articolo è stato pubblicato sul numero speciale  “On the drive” (a cura di J. Copec)  di UMBR(a). A Journal of the Unconscious, 1997, pp.147-152. La traduzione è di Michela Russo
  2. Sigmund Freud, “Un bambino viene picchiato (Contributo alla conoscenza dell’origine delle perversioni sessuali), 1919” in Id. Opere Complete vol. 9 1917-1923, Torino, Bollati Boringhieri, 1977, p. 47
  3.  Jacques-Alain Miller, “Savoir et satisfaction,” in La Cause freudienne 33, Parigi,1996

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