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micromega

Come stiamo svendendo l’Italia

di Enrico Grazzini

SvendesiItaliaLa vendita della Indesit a Whirpool è solo l'ultimo caso: si sta verificando nel silenzio generale la fine dell'Italia industriale, come predetto da Luciano Gallino (1). Il pericolo imminente è quello di cedere al capitale estero non solo le industrie ma anche le grandi banche, e di svendere completamente il risparmio italiano. A causa del declino verticale dell'industria e della sofferenza delle banche italiane, e a causa della colpevole inerzia governativa e dei pesanti vincoli europei, il capitalismo nazionale sta diventando un servile vassallo di quello internazionale. E l'Italia rischia così di precipitare definitivamente nel Terzo Mondo.

Untangled. Così l'Economist titola soddisfatto un suo recente articolo sul capitalismo italiano in crisi. Untangled si traduce in italiano sciolto, smembrato: così è ormai diventato il capitalismo italiano, secondo l'autorevole rivista britannica, dopo lo scioglimento dei patti di sindacato da parte di Mediobanca (2). Non si comprenderà mai abbastanza quanto profonda sia stata la svolta (forzata) compiuta da Mediobanca qualche mese fa quando ha deciso di sciogliere gli accordi incrociati tra le maggiori aziende nazionali.

Da allora al cosiddetto “capitalismo italiano di relazione”, cioè all'intreccio tra capitalismo (semifallito) delle grandi famiglie, capitalismo finanziario e capitalismo (quasi dismesso) di stato, si è sostituito l'arrembaggio dell'industria e della finanza internazionale. Con la benedizione del governo Renzi. Il giovane Matteo è stato chiaro in una sua recente intervista al Corriere della Sera. Ha dichiarato sulla vendita dell'Indesit di Merloni alla concorrente Whirpool: «La considero una operazione fantastica. Ho parlato personalmente io con gli americani a Palazzo Chigi. Non si attraggono gli investimenti esteri riscoprendo una visione autarchica e superata del mondo. Noi vogliamo portare aziende da tutto il mondo a Taranto come a Termini Imerese. Il punto non è il passaporto ma il piano industriale. Gli imprenditori stranieri sono i benvenuti in Italia se hanno soldi e idee per creare posti di lavoro» (3).

Così il liberista Renzi esulta di fronte al fatto che il capitalismo industriale italiano non è più competitivo e si sta smembrando a favore dei capitali stranieri. E' ovvio che gli investimenti produttivi esteri sono benvenuti e che non si possono proteggere sempre e a tutti i costi le società nazionali. Ma bisognerebbe assolutamente evitare di cedere le industrie strategiche indispensabili per il futuro industriale del nostro paese.

Quasi sempre le cessioni all'estero arricchiscono solo le grandi famiglie, come i Merloni e i Tronchetti Provera (vedi i casi di Pirelli e Telecom Italia). Soprattutto l'ondata di cessioni industriali comporta non solo la riduzione drastica dell'occupazione ma anche l'impossibilità di mantenere le condizioni per uno sviluppo economico autonomo e, per quanto possibile, democratico. L'Italia cedendo le sue industrie e le sue banche mina le basi del suo sviluppo e peserà come il due di picche nel turbolento scenario economico e politico europeo e mondiale.

Dopo la fuga americana della Fiat - propiziata dai miliardi concessi da Obama per proteggere l'industria americana dell'auto e dal silenzio criminale e assurdo dei governi italiani -, dopo che Telecom Italia non ha più pesanti azionisti italiani, e che, dietro lo schermo ideologico della public company guidata dai manager, è sostanzialmente in vendita, sono rimasti pochissimi i grandi gruppi italiani in grado di competere sul mercato internazionale. E sono praticamente tutti statali, ovvero Eni, Enel, Finmeccanica, Fincantieri e pochi altri.
 
Nonostante i peccati mortali attribuiti (spesso giustamente) ai boiardi di stato, quel che resta della nostra industria pubblica sa competere meglio di quella privata. Anche per queste industrie strategiche il governo prevede però una disgraziata privatizzazione a favore dei capitali esteri, con l'obiettivo (falso) di diminuire il debito pubblico e rispettare i vincoli di deficit pubblico posti dall'Unione Europea. L'euro ci strozza e la UE vuole farci vendere i gioielli di famiglia. Ma anche un grullo capisce che non si può alleggerire un debito di 2100 miliardi con la vendita di quote di società da cui ricavare al massimo qualche decina di miliardi.
 
Ben diversa è la politica interventista dello stato francese che ha appena difeso il controllo della sua industria nucleare e dell'energia diventando il maggiore azionista di Areva per impedirne la completa acquisizione da parte dell'americana General Electric. L'ideologia liberista di Renzi non è più praticata neppure presso i paesi più liberisti. Obama protegge gelosamente le sue industrie strategiche, l'auto, l'hi-tech e la finanza. La Fed, la Banca centrale americana, stampa decine di miliardi di dollari al mese grazie ai quali le banche d'affari e le industrie statunitensi possono acquistare facilmente i concorrenti esteri. Anche grazie al “privilegio esorbitante” del dollaro facile, il 40% circa della borsa italiana è in mano a banche d'affari, fondi pensione e fondi speculativi e di private equity americani, arabi, europei, fondi sovrani di stati esteri, ecc.
 
Il fondo BlackRock, gigante della finanza USA, è uno dei principali azionisti non solo di Telecom Italia ma anche di Unicredit e Intesa cioè delle due principali banche nazionali in cui confluisce gran parte del risparmio degli italiani. Ma non è solo il governo americano a intervenire a favore della sua industria. Secondo uno studio di Mediobanca il governo britannico e quello tedesco hanno speso rispettivamente 1.213 e 446 miliardi di euro per salvare le loro banche nazionali dalla crisi.
 
Angela Merkel fa di tutto per proteggere e sviluppare l'industria tedesca dell'auto e della meccanica. La Germania inoltre manovra l'euro come se fosse il marco per favorire le sue esportazioni e la proiezione internazionale della sua industria; e il governo bianco-rosa della Merkel finanzia (giustamente) con denaro pubblico la sua industria delle energie alternative contrastando duramente l'Unione Europea che vorrebbe impedire gli aiuti di stato anti-competitivi. I paesi emergenti – a partire dalla Cina, India e Brasile - sono riusciti a svilupparsi negli ultimi decenni attirando gli investimenti industriali esteri ma anche proteggendo le industrie strategiche grazie allo stretto controllo dei capitali stranieri.
 
Solo una politica pubblica attiva e intelligente dello stato può infatti difendere l'economia nazionale dall'assalto dei grandi enti finanziari che divorano le industrie, e sviluppare la ricerca, le infrastrutture, le aziende hi-tech e le energie alternative. Purtroppo il governo Renzi sembra avere una visione di politica economica completamente subordinata all'ideologia del “lasciar fare” ai mercati finanziari. Il governo interviene solo “a babbo morto” quando un'azienda è completamente fallita, come Alitalia, per cederla ai capitali esteri, cercando solo, per quanto possibile, di salvare le grandi banche creditrici (Intesa e MPS innanzitutto, nel caso Alitalia).
 
Anche la sinistra è spesso disattenta sull'economia. Occorrerebbe invece proporre l'intervento deciso del Fondo Strategico Italiano, la società diretta dalla Cassa Depositi e Prestiti, l'unico ente nazionale simile ad una banca pubblica. Sarebbe necessaria un'azione ancora più incisiva. Il governo dovrebbe nazionalizzare e gestire una grande banca e finanziare (con profitto pubblico) le piccole aziende italiane in grave crisi di liquidità, e le medie aziende del cosiddetto “quarto capitalismo” in grado di competere sui mercati internazionali. Un fondo pubblico specializzato dovrebbe inoltre co-finanziare massicciamente le società private di venture capital per sponsorizzare l'avvio e lo sviluppo globale di nuove start up nei campi promettenti ma incerti dell'hi-tech.
 
Il sindacato e la sinistra dovrebbero impegnarsi finalmente nel campo della democrazia economica. Infatti l'intervento statale non basta assolutamente per salvare e sviluppare l'industria nazionale: nell'economia dell'innovazione e delle conoscenze occorre mobilitare soprattutto l'intelligenza e la partecipazione dei lavoratori. E' necessario sviluppare la democrazia dal basso perché – come avviene già nella potente ed efficientissima Germania - anche i lavoratori, iscritti e non iscritti ai sindacati, possano eleggere i loro rappresentanti nei consigli di amministrazione delle grandi imprese, come l'Ilva e Telecom Italia. La partecipazione solo finanziaria dei lavoratori è invece fumo negli occhi. Occorre che, come in Germania, lavoratori eletti da tutti i dipendenti siedano nei CdA delle grandi imprese e degli enti pubblici. I lavoratori sono infatti più interessati degli azionisti finanziari al successo e allo sviluppo delle “loro” aziende (4).
 
Il pericolo maggiore – e imminente – è che non solo le industrie manifatturiere ma anche le banche nazionali vengano cedute all'estero (come è già successo con Mps, la terza banca nazionale) e che il risparmio degli italiani vada ad alimentare completamente lo sviluppo delle economie estere. L'Economist sottolinea infatti con soddisfazione che dal 2010, le fondazioni nazionali – enti semi-pubblici senza scopo di lucro, peraltro molto discussi perché lottizzati dai partiti di destra e di centrosinistra - hanno diminuito la loro presa sulle banche italiane quotate in borsa, e che queste dipendono ormai dal “libero” mercato azionario per il 77 per cento. E sottolinea che gli investitori finanziari hanno già una quota pari a oltre l'11% delle banche italiane, cioè il doppio rispetto a pochi anni fa.
 
L'unificazione bancaria europea decisa dalla UE genera la necessità di ricorrere al mercato per ricapitalizzare le banche nazionali colme di debiti in sofferenza a causa della crisi, e, spesso, dei crediti erogati agli “amici”. L'apertura del mercato bancario nazionale sollecitata dall'Unione Europea è una fortuna per la speculazione internazionale. Le ricapitalizzazioni sono una manna per gli investitori esteri che con pochi soldi potranno acquistare il risparmio nazionale: ma senza il minimo controllo sul risparmio non ci saranno nuovi investimenti e prospettive di sviluppo più o meno sostenibile. L'Italia diventerà irrimediabilmente un paese del terzo mondo.
 
L'economia italiana avrebbe bisogno di democrazia economica dal basso, di una avanzata politica industriale, di capitani d'industria come Enrico Mattei e Adriano Olivetti, di innovatori come Steve Jobs, di banchieri come Raffaele Mattioli, e di politici della statura di De Gaulle per difendere e sviluppare l'economia nazionale. Purtroppo invece in Italia hanno prevalso i Marchionne, i Berlusconi e i Renzi. 
NOTE
1. Luciano Gallino “La scomparsa dell'Italia industriale” Einaudi, 2003
2. The Economist, 14 giugno 2014 “The ownership of Italian firms. Untangled. Control of corporate Italy is changing hands”.
3. Corriere della Sera, 13 luglio 2014 “Renzi: la mia agenda dei mille giorni «Italia commissariata? Non esiste»
4. Enrico Grazzini “Manifesto per la Democrazia Economica” Castelvecchi, 2014

 

 

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