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goofynomics

La morale della favola irlandese quattro anni dopo

di Alberto Bagnai

le-scogliere-irlandesiNel post dei dieci milioni ho fatto notare che dove era un tempo dileggio e attacco personale si stava stabilendo un confronto costruttivo, basato su fatti osservabili. Questo a destra, perché a sinistra il confronto, come Leonardo ci ha illustrato (e poi ci torneremo) si basa sui sogni, il che lo rende fatalmente meno costruttivo, se non addirittura più distruttivo.

Devo dire che ho una certa nostalgia di un dibattito fact based. Il dibattito dream based, fra l'altro, porta una sfiga ladra: guardate com'è finita al povero Lennon (per fortuna Leonardo ha meno followers, il che abbatte la probabilità che ce ne sia uno sufficientemente sciroccato da abbattere lui)...

Nei miei primi interventi su lavoce.info l'atmosfera era assolutamente professionale, fact based e molto stimolante. Non so se ricordate La morale della favola irlandese. Quando lo pubblicai, i miei colleghi di dipartimento mi guardarono con altri occhi: "Hai pubblicato su lavoce.info!" (be', com'è andata poi lo sapete, comunque se Boeri vuole mandarci un lavoro io glielo pubblico...).

Il senso di quel post era molto chiaro e la sua morale è sempre attuale: attrarre troppi investimenti diretti esteri (IDE) è un errore (oltre a essere scorretto se per farlo giochi sul dumping - ma oggi si dice svalutazione - fiscale), perché i capitali devono sempre e comunque essere remunerati, e il fatto che gli investimenti diretti siano meno soggetti a reversal di quelli di portafoglio, in caso di crisi li rende più, non meno, pericolosi. Questo era il contenuto originale del mio contributo, che andava contro un luogo comune diffusissimo in economia internazionale, quello della superiorità in termini strategici (dal punto di vista del paese ricevente) degli IDE rispetto agli investimenti di portafoglio. Certo, una fabbrica non puoi mettertela in tasca per portartela via, mentre per smobilitare una posizione in attività finanziarie basta un sms, quindi in caso di investimenti di portafoglio il rischio di un sudden stop (di un arresto improvviso) è sempre presente. Gli IDE vicecersa non puoi smobilitarli così facilmente, tutto vero. Ma c'è un problema: il fatto che non possano essere smobilitati in fretta (l'investitore estero deve trovare un altro compratore, affrontare le vertenze sindacali, ecc...) non significa che il paese possa smettere di remunerarli! L'investitore estero cercherà comunque, da brava locusta, di spremere al massimo il limone, prima di lasciare la buccia.

Suggerisco a chi non lo avesse fatto di leggersi il post, soprattutto oggi, in un periodo nel quale giornalisti corrotti o conformisti ci additano nell'"afflusso di investimenti" la panacea per la nostra economia

La storia dell'Irlanda è semplice. Col dumping fiscale e culturale, cioè adottando aliquote estremamente basse sui redditi di impresa ed essendo un paese anglofono (il che, in una prospettiva operativa internazionale, evidentemente aiuta molto) ha attirato capitali esteri. L’Irlanda aveva però dimenticato che questi capitali andavano remunerati, cioè che le aziende che venivano a installarsi sul suo territorio si sarebbero riportate a casa buona parte dei redditi prodotti. Finché l’economia mondiale tirava, il pagamento di redditi all’estero (soldi che uscivano dall’Irlanda) veniva compensato dalle esportazioni di beni e servizi dall’Irlanda (soldi che entravano in Irlanda). Quando l’economia mondiale ha smesso di tirare, dal 2007, i soldi non sono entrati più (le esportazioni sono crollate, perché nel resto del mondo non c’era più tanto da spendere), ma hanno continuato a uscire: i capitali impiantati nel paese hanno continuato a pretendere la propria remunerazione, e l'Irlanda è entrata nella spirale del debito estero: si è indebitata con l'estero (saldo delle partite correnti negativo) per pagare interessi e profitti all'estero.

Trovai piuttosto divertente, all’epoca, quattro anni fa, l’obiezione che mi fece un collega: sosteneva che gli investimenti diretti esteri sono una panacea, per il semplice motivo che quando arrivano, se le cose vanno bene li remuneri, se invece arriva la recessione, non si fanno più profitti, e quindi dal paese smettono di uscire soldi. In effetti, sembra lapalissiano che i profitti che non ci sono non possano essere rimpatriati all’estero, per cui secondo il collega (trovate tutto sul sito de lavoce.info) gli investimenti diretti esteri sarebbero stati una specie di debito estero autoripagante, come un forno autopulente: se le cose vanno bene, che problema c’è? E se invece vanno male, si applicherebbe la procedura del marchese del Grillo, quando afferma perentorio ad un attonito Aronne Piperno: “Io i sòrdi nu’ li caccio, e te nu’ li piji...”. Mi ricordo che espressi qualche perplessità, per un motivo molto semplice: se le cose stessero così, se veramente esistesse un debito che si paga solo se si hanno i soldi per farlo, be’, avremmo risolto due problemi, quello della crescita, e quello del default. Basterebbe mettere in ordine alfabetico i paesi: Afghanistan, Albania, Algeria, Angola, Antigua, Argentina,..., Venezuela, Vietnam, Yemen, Zambia e Zimbabwe. Dopo di che l’Afghanistan si dovrebbe comprare tutte le aziende albanesi, l’Albania tutte quelle algerine,... lo Zambia tutte quelle dello Zimbabwe (clic), e, per chiudere il cerchio, lo Zimbabwe (clic) tutte quelle dell’Afghanistan.

Bello, no?

Ognuno camperebbe coi soldi degli altri, e ognuno pagherebbe solo se le cose vanno bene! E quanta apertura, quanta bella globalizzazione: avremmo anche scongiurato lo spettro del nazionalismo economico.

Ecco, il mondo di quelli che vedono negli investimenti diretti dall’estero una panacea, lo capite, è chiaramente un mondo assurdo. Che non lo capiscano i miei colleghi però non è strano. Oggi, per diventare un grande economista, devi occuparti, che so, di identificazione locale di modelli semiparametrici, o dell’integrazione di variabili entropiche latenti mediante simulazione (pesco a caso queste due supercazzole dagli ultimi numeri di una delle riviste economiche più prestigiose). In circostanze simili, è abbastanza ovvio che tenderai a perdere di vista il principio fondamentale della scienza economica: nessuno ti dà qualcosa in cambio di niente (in inglese: there are no free lunches, non ci sono pasti gratis). Ora, delle variabili entropiche latenti possiamo anche discuterne: ci mettiamo lì con santa pazienza,e in un giorno, una settimana, o un decennio (a seconda del punto di partenza), possiamo arrivare a capire di cosa si tratti. Ci sono anche persone che fanno cruciverba senza schema, per dire (sapete quelli dove dovete mettere anche le caselle nere? Mia suocera è insuperabile. Ogni volta che entro a casa sua: “Alberto? Storico re di Persia?” E io: “Quante lettere?” E lei: “Non lo so” E io: “Nnamo bbene: o son quattro, o son cinque...”).

Ma se ti dimentichi che nessuno ti dà qualcosa per niente, puoi studiare anche un secolo: non sarai mai un economista.

Prova ne sia che, una volta di più, le cose sono andate come dicevo io, non come diceva il collega: per tutta la durata della crisi, e nonostante una riduzione del Pil non trascurabile, l’economia irlandese ha continuato a versare all’estero una quota ingente di profitti in conto investimenti diretti.

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La tabella riporta, per vostra edificazione, la struttura della bilancia delle partite correnti irlandese dal 2000 ad oggi (per memoria, ho messo anche i tassi di crescita del Pil reale nell'ultima colonna). Il saldo totale, che esprime il bisogno (se negativo)/capacità (se positivo) di finanziamento del sistema paese, è la somma dei saldi Merci, Servizi, Redditi e Trasferimenti (quest'ultimo l'ho omesso, è poco significativo). Il saldo Redditi a sua volta è la somma dei saldi redditi da investimenti diretti, investimenti di portafoglio, altri investimenti, e dei redditi da lavoro. Ho riportato separatamente due componenti: quella da IDE e quella di portafoglio. Si vede bene che il saldo redditi è governato dal saldo IDE, cioè dalla differenza fra i profitti che l'Irlanda fa all'estero e quelli che paga all'estero, cioè che vengono rimpatriati all'estero dalle aziende che si impiantano sul suo territorio.

Vedete che di norma e un media in Irlanda un saldo merci positivo è compensato, più o meno esattamente, da un saldo servizi e un saldo redditi negativo. Sono punti di Pil, fateci caso, le cifre quindi son grosse, rispetto al paese: in altre parole, l'Irlanda esporta moltissime merci (segno più nel saldo merci, soldi che entrano), ma esporta anche tantissimi redditi (segno meno nel saldo redditi, soldi che escono).

Quando l’Irlanda cresceva all’11%, nel 1999, i suoi conti esteri erano complessivamente equilibrati (saldo totale: 0% del Pil), come risultato di un saldo merci positivo (24% del Pil), annullato da un saldo servizi e da un saldo redditi negativi. I redditi da IDE pesavano per 20 punti di Pil sulla bilancia dei pagamenti, a indicare che un quinto del reddito prodotto dall’irlandese medio se ne andava all’estero.

È una cifra enorme, non so se ve ne rendete conto.

Fra il 2002 e il 2007 la media del saldo redditi irlandese è stata di -15 punti di Pil. Nello stesso periodo, se mettiamo in fila tutti i paesi del mondo, solo la Repubblica Democratica del Congo stava peggio, con un saldo medio del -23 per cento. In altre parole, l’Irlanda aveva una situazione debitoria da paese dell’Africa subsahariana (aggiungo: da paese depresso e martoriato dell’Africa subsahariana, col conflitto del Kivu in corso). Che l'Irlanda sarebbe scoppiata come un palloncino era anche qualcosa che ci si poteva immaginare. Ma notate: nel pieno della recessione, nel 2009, con una crescita al -6%, che era riuscita a riportare l’attivo commerciale al 20% (abbattendo le importazioni, come da noi), dal -10% a cui era arrivato nel 2007 (quando l’economia irlandese, verosimilmente, di profitti non ne faceva molti) il saldo redditi da investimenti diretti era tornato al -16% del Pil.

Com’è quella storia che gli IDE li paghi solo se guadagni? Mmmmh... Qualcosa non torna.

Del resto, anche nel 2012, ultimo anno per il quale sono disponibili i dati su Eurostat, con una bella crescita zero, gli irlandesi hanno continuato a versare il 16% dei redditi da loro prodotti all’estero, in quota remunerazione di investimenti diretti (più un altro 4% in quota “investimenti di portafoglio”, per remunerare i vari prestiti con i quali la loro economia è stata salvata). Visto che bello essere “attraenti”?

Pensateci su...

Vi aiuto. Qual è la sintesi di questo bel discorsetto, che spero vi abbia dato qualche stimolo di riflessione? Semplice: gli investimenti diretti esteri non sono una panacea, come certi giornalisti millantano. Sono una risorsa. Non ci vuole molto a capirlo, è l’applicazione di un principio generale: in economia non ci sono panacee, ci sono risorse, e le risorse vanno gestite senza abusarne. Quando qualcuno insiste tanto sul fatto che non arrivano abbastanza investimenti, cioè che non vendiamo abbastanza aziende a imprenditori esteri, in me sorge sempre il sospetto che qualcuno possa aver comprato lui. Mi conferma in questo sospetto il fatto che non è vero (come tutti sappiamo) che di aziende in mano estera ne siano passate poche, il che suggerisce che non è vero (come sosteneva Emiliano Brancaccio) che la moneta “forte” ci stesse difendendo e ci avrebbe difeso dalla svendita delle nostre attività. Una minima logica da Ragioneria I basterebbe a far capire che il valore di un'azienda è quello dei suoi profitti attesi, per cui se la moneta sopravvalutata comprime i ricavi più dei costi, ipso facto l'azienda si svaluta. Ci vuol tanto a capire che una moneta sopravvalutata del 20% non rende meno conveniente acquistare un'azienda svalutata del 70% in valuta locale?

Apparentemente sì.

L’idea che una moneta forte “difenda” la nazione è la diretta espressione di un nazionalismo miope, alla Churchill, quel Churchill cui Keynes nel 1925 rimproverava l’ottusa adesione a un feticcio monetario (il cambio della sterlina a 4,86 dollari) destinato comunque a saltare, dopo aver sbriciolato l’economia britannica. Naturalmente le cose andarono come diceva Keynes, ma qui mi preme farvi osservare l'ennesima declinazione del solito paradosso: oggi, nessuno è tanto nazionalista (in senso becero, novecentesco: "il leone britannico"...) quanto gli "europeisti". Di converso, gli unici europeisti senza virgolette sono i patrioti, cioè noi.

Nella mia pochezza, segnalo come ora comincino a vedere tutti, perfino il giornale della Confindustria, scopiazzando platealmente un nostro post di un paio di settimane prima, che le cose stanno andando come nel 2012 dicevano in pochi (direi uno).

Non voglio i vostri complimenti: se me li fate, certo, mi farà piacere, ma mi farà molto più piacere, e sarà soprattutto molto più utile al processo democratico del nostro paese, se da questa previsione azzeccata trarrete la lezione giusta. La ripeto: nessuno dà qualcosa per niente. Quindi attenzione. E comunque, a quelli che vi dicono che non siamo abbastanza “attraenti” suggerisco di rispondere: “Ma ti guardi mai allo specchio?” Per antica tradizione (da Gano di Maganza in giù) i traditori del proprio paese (ed è certamente tale chi vuole la nostra irlandizzazione via svalutazione fiscale) non spiccano per pulcritudine.

Ovviamente, non si tratta di un attacco personale: è una mera correlazione, ma non è spuria.

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