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Passioni ludiche senza desiderio

di Jean Baudrillard

“Nessun giocatore deve essere più grande del gioco stesso”. La battuta di un film a suo modo chiave, Rollerball, veniva posta da Jean Baudrillard in esergo al terzo capitolo del suo De la séduction, pubblicato nel 1979 per i tipi di Galilée, edito in Italia da Cappelli e poi da SE, per la traduzione di Pina Lalli. Proprio da questo lavoro  pubblichiamo un estratto, importante per la riflessione sul “destino politico della seduzione”. Un destino che si dipana, nel suo asse centrale, proprio attraverso le dinamiche del gioco e della regola. Un gioco che “assorbe non solo il giocatore, ma il mondo”, scriveva Baudrillard e lo consegna all’infinita deriva del ludico

agosto vacanza 046È quello che dice il Dia­rio del sedut­tore: nella sedu­zione non c’è nes­sun sog­getto padrone di una stra­te­gia, e quando que­sta si dispiega nella piena con­sa­pe­vo­lezza dei mezzi pos­se­duti, è ancora sot­to­messa a una regola del gioco che le è supe­riore. Dram­ma­tur­gia rituale al di là della legge, la sedu­zione è un gioco e un destino che con­duce ine­lut­ta­bil­mente i pro­ta­go­ni­sti verso la pro­pria fine, senza che la regola sia infranta, poi­ché è lei che li lega. E l’obbligo fon­da­men­tale è che il gioco con­ti­nui, sia pure a costo di morire. Una spe­cie di pas­sione lega dun­que i gio­ca­tori alla regola che li lega, e senza la quale non sarebbe pos­si­bile giocare.

Comu­ne­mente viviamo nell’ordine della Legge, anche e per­sino quando abbiamo il fan­ta­sma di abo­lirla. L’unico al di là della legge per noi con­ce­pi­bile è la tra­sgres­sione o l’eliminazione del divieto. Infatti, il modello della Legge e del divieto governa il modello inverso di tra­sgres­sione e libe­ra­zione. Ma in realtà, quel che si oppone alla legge non è affatto l’assenza di legge, è la Regola.

La regola gioca su una con­ca­te­na­zione imma­nente di segni arbi­trari, men­tre la Legge si fonda su una con­ca­te­na­zione tra­scen­dente di segni neces­sari. L’una è ciclo e ricor­renza di pro­ce­dure con­ven­zio­nali, l’altra è un’istanza fon­data su una con­ti­nuità irre­ver­si­bile. Per l’una esi­stono sol­tanto obbli­ghi, per l’altra costri­zioni e divieti. La Legge può e deve essere tra­sgre­dita, per­ché instaura una linea di spar­ti­zione. Di con­tro, non ha alcun senso «tra­sgre­dire» una regola del gioco: nella ricor­renza di un ciclo, non c’è linea da oltre­pas­sare (si esce dal gioco, punto e basta).

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Per riu­scire a cogliere l’intensità della forma rituale biso­gna senz’altro disfarsi dell’idea che ogni nostra feli­cità pro­venga dalla natura, che ogni nostro godi­mento derivi dalla sod­di­sfa­zione di un desi­de­rio. Il gioco, la sfera del gioco ci rivela, al con­tra­rio, la pas­sione della regola, la potenza che deriva da un ceri­mo­niale, e non da un desiderio.

L’estasi del gioco deriva forse da una situa­zione di sogno in cui ci si muove senza il peso del reale e liberi di abban­do­nare il gioco in ogni momento? Ma è falso: il gioco è sot­to­po­sto a delle regole, al con­tra­rio del sogno, e non lo si molla. L’obbligo che ne deriva è ana­logo a quello della sfida. Mol­lare il gioco non fa parte del gioco, e l’impossibilità di negare il gioco dall’interno – che costi­tui­sce il suo fascino e lo dif­fe­ren­zia dall’ordine del reale – crea allo stesso tempo un patto sim­bo­lico, un’esigenza di osser­vanza senza restri­zione e l’obbligo di andare fino in fondo nel gioco, come nella sfida.

Entrare nel gioco signi­fica entrare in un sistema di obbli­ghi rituali, e la sua inten­sità deriva da que­sta forma ini­zia­tica – e non da qual­che effetto di libertà, come ci piace cre­dere, per un effetto stra­bico della nostra ideo­lo­gia che distorce tutto in fun­zione della sola fonte «natu­rale» di feli­cità e godi­mento.

L’unico prin­ci­pio del gioco, che tut­ta­via non si pone mai come uni­ver­sale, è che la scelta della regola vi libera dalla legge.

Priva di fon­da­mento psi­co­lo­gico o meta­fi­sico, la regola è priva anche di un fon­da­mento di cre­denza. A una regola né si crede né non si crede – la si osserva. La sfera dif­fusa della cre­denza, l’esigenza di cre­di­bi­lità che avvolge tutto il reale sono vola­ti­liz­zate nel gioco – da qui la sua immo­ra­lità: fun­zio­nare senza cre­derci, lasciar risplen­dere il fascino diretto di segni con­ven­zio­nali, di una regola priva di fondamento.

Niente qui è «pos­si­bile» per­ché tutto si gioca e si risolve senza alter­na­tive né spe­ranza, all’interno di una logica imme­diata e irre­mis­si­bile. Que­sta è la ragione per cui non si ride intorno a un tavolo di poker: la logica del gioco, infatti, è cool, ma non disin­volta, e il gioco, essendo senza spe­ranza, non è mai osceno e non fa mai ridere. È certo più serio della vita, visto che, para­dos­sal­mente, la vita può ridi­ven­tarne la posta.

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Il gioco, allora, non è fon­dato sul prin­ci­pio di pia­cere molto più di quanto lo sia sul prin­ci­pio di realtà. La sua risorsa è l’incanto che pro­viene dalla regola e dalla sfera che que­sta descrive – una sfera che non riguarda affatto l’illusione o il diver­sivo, ma al con­tra­rio qual­cosa che ha un’altra logica, arti­fi­ciale e ini­zia­tica, in cui le deter­mi­na­zioni natu­rali della vita e della morte ven­gono a cadere. Que­sta è la spe­ci­fi­cità del gioco – invano si ten­te­rebbe di annul­larla in una logica eco­no­mica, par­lando di un inve­sti­mento con­scio, o in una logica di desi­de­rio, par­lando di una posta in gioco incon­scia. Coscienza o incon­scio: que­sta dop­pia deter­mi­na­zione vale per la sfera del senso e della legge, ma non per quella della regola e del gioco.

Fine delle dimen­sioni cen­tri­fu­ghe: gra­vi­ta­zione improv­visa e inten­siva dello spa­zio, abo­li­zione del tempo, che implode all’istante e assume una den­sità tale da sfug­gire a tutte le leggi della fisica tra­di­zio­nale – tutto il pro­cesso assume una cur­va­tura a spi­rale pro­iet­tata verso il cen­tro, dove l’intensità è più forte che altrove. Que­sta è la fasci­na­zione del gioco, la pas­sione cri­stal­lina che can­cella la trac­cia e la memo­ria, che fa per­dere il senso. Tutte le pas­sioni sono ana­lo­ghe a que­sta nella forma, ma la pas­sione del gioco è la più pura.

L’analogia migliore sarebbe quella delle cul­ture pri­mi­tive, che ci hanno descritto come chiuse su se stesse e senza imma­gi­na­rio sul resto del mondo. Ma il fatto è che il resto del mondo esi­ste sol­tanto per noi, men­tre la loro chiu­sura, lungi dall’essere restrit­tiva, rivela una logica diversa che noi, presi nell’immaginario dell’universale, non riu­sciamo più a con­ce­pire, e cioè come oriz­zonte limi­tato rispetto al nostro.

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La sfera sim­bo­lica di que­ste cul­ture non cono­sce alcun resto. E anche il gioco, a dif­fe­renza del reale, è qual­cosa di cui non resta niente. La sfera interna del gioco è senza resi­duo, per­ché esso è senza sto­ria, senza memo­ria, senza accu­mu­la­zione interna (la posta vi si con­suma inces­san­te­mente, sem­pre rever­si­bile – la regola segreta del gioco è che niente ne sia espor­tato sotto forma di bene­fi­cio o di «plu­sva­lore»). Ma non si può nep­pure dire che resti qual­cosa all’esterno del gioco. Il «resto» sup­pone un’equazione non risolta, un destino che non si è com­piuto, una sot­tra­zione o una rimo­zione. E invece, l’equazione del gioco è sem­pre per­fet­ta­mente risolta, il destino del gioco com­piuto ogni volta, senza lasciare trac­cia (a dif­fe­renza dell’inconscio).

La teo­ria dell’inconscio sup­pone che deter­mi­nati affetti, scene o signi­fi­canti non pos­sano più, defi­ni­ti­va­mente, essere messi in gioco – for­clusi, fuori gioco. Il gioco, invece, pog­gia sull’ipotesi che tutto possa essere messo in gioco. Altri­menti, biso­gne­rebbe ammet­tere che si ha sem­pre già per­duto, e che si gioca solo per­chè si ha sem­pre già per­duto. Ma nel gioco non c’è oggetto per­duto. Niente di irri­du­ci­bile al gioco pre­cede il gioco, e tanto meno un ipo­te­tico debito ante­riore. Se vi è esor­ci­smo nel gioco, non è quello di un debito con­tratto nei con­fronti della legge, ma al con­tra­rio esor­ci­smo della Legge stessa come cri­mine ine­spia­bile, esor­ci­smo della Legge come discri­mi­na­zione, tra­scen­denza ine­spia­bile nel reale, la cui tra­sgres­sione non fa che aggiun­gere cri­mine a cri­mine, debito a debito, lutto a lutto.

La rela­zione duale, per­ciò, esclude ogni lavoro, ogni merito e ogni qua­lità per­so­nale (soprat­tutto nella forma pura del gioco d’azzardo). I tratti per­so­nali sono ammessi solo come una spe­cie di gra­zia o di sedu­zione, senza equi­va­lenza psi­col­gica. Così va il gioco, ed è la tra­spa­renza divina della Regola a volerlo.

Il fascino del gioco deriva da que­sto sba­raz­zarsi dell’universale in uno spa­zio finito – da que­sto sba­raz­zarsi dell’uguaglianza nella parità duale imme­diata – da que­sto sba­raz­zarsi della libertà nell’obbligo – da que­sto sba­raz­zarsi della Legge nell’arbitrarietà della Regola e del cerimoniale.

Ma non fac­cia­moci ingan­nare: i segni con­ven­zio­nali, i segni rituali sono dei segni obbli­gati. Nes­suno è libero di signi­fi­care iso­la­ta­mente in un rap­porto di coe­renza con il reale, in un rap­porto di verità. La libertà che si sono presi i segni, come gli indi­vi­dui moderni, di arti­co­larsi a loro pia­ci­mento, a misura dei loro affetti e del loro desi­de­rio (di senso) non esi­ste per i segni con­ven­zio­nali, che non pos­sono andare così alla ven­tura, por­tando nella bisac­cia il pro­prio refe­rente, la pro­pria par­ti­cella di senso. Ogni senso è legato all’altro, non nella strut­tura astratta d’una lin­gua, ma nello svol­gi­mento insen­sato d’un ceri­mo­niale; tutti fanno eco tra loro e si rad­dop­piano in altri segni altret­tanto arbitrari.

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Il segno rituale non è un segno rap­pre­sen­ta­tivo. Dun­que, non merita intel­li­genza. Ma ci libera dal senso. Ed è per que­sto che gli siamo par­ti­co­lar­mente legati. Debiti di gioco, debiti d’onore: tutto ciò che riguarda il gioco è sacro per­chè convenzionale.

Se il gioco avesse una qual­siasi fina­lità, il solo vero gio­ca­tore sarebbe il baro. Ora, se può esserci un certo pre­sti­gio nel fatto di tra­sgre­dire la legge, non ce n’è nes­suno in quello di barare, di tra­sgre­dire la regola. D’altronde, il baro non tra­sgre­di­sce, dal momento che, non essendo il gioco un sistema di inter­detti, non vi è nes­suna linea da oltre­pas­sare. La regola non può essere «tra­sgre­dita», può sol­tanto non essere osser­vata. Ma l’inosservanza della regola non vi mette in una situa­zione di tra­sgres­sione , vi fa sem­pli­ce­mente rica­dere sotto la giu­ri­sdi­zione della legge.

È il caso del baro che, pro­fa­nando il rituale, negando la con­ven­zione ceri­mo­niale del gioco, gli resti­tui­sce una fina­lità eco­no­mica (o psi­co­lo­gica, se bara per il pia­cere di vin­cere), e cioè la legge del mondo reale. L’irruzione di una deter­mi­na­zione indi­vi­duale gli fa distrug­gere il fascino duale del gioco. Se un tempo lo si puniva con la morte e ancor oggi lo si disap­prova dura­mente, ciò accade per­chè il suo cri­mine è, in effetti, ana­logo all’incesto: spez­zare le regole del gioco cul­tu­rale a van­tag­gio sol­tanto della «legge di natura».

Per il baro, non esi­ste nep­pure più una posta in gioco, poi­ché la con­fonde con la crea­zione di plu­sva­lore. La posta in gioco, infatti, è innan­zi­tutto qual­cosa che per­mette di gio­care: farne la fina­lità del gioco è una pre­va­ri­ca­zione. E anche la regola non è altro che la pos­si­bi­lità di gio­care, lo spa­zio duale dei part­ner. Chi la con­si­de­rasse un fine (una legge, una verità) distrug­ge­rebbe allo stesso modo il gioco e la sua posta. La regola non ha auto­no­mia, qua­lità emi­nente, secondo Marx, della merce e dell’individuo che agi­sce nel mer­cato, valore sacro­santo del regno eco­no­mico. Il baro, invece, è auto­nomo: ha ritro­vato la legge, la sua legge, con­tro il rituale arbi­tra­rio della regola – ed è que­sto che lo squa­li­fica. Il baro è libero, ed è la sua rovina. Il baro è vol­gare, per­chè non si espone più alla sedu­zione del gioco, per­chè rifiuta di lasciarsi andare alla ver­ti­gine della sedu­zione. E d’altronde, si può ipo­tiz­zare che anche il pro­fitto sia ancora sol­tanto un alibi: in realtà, egli bara per sfug­gire alla sedu­zione, bara per paura di essere sedotto.

La posta in gioco è una par­ti­cella di valore lan­ciata verso il caso, posto come istanza tra­scen­dente, e certo non per assi­cu­rar­sene il favore, bensì per respin­gerne la tra­scen­denza, l’astrazione a farne, invece, un com­pa­gno di gioco, un avver­sa­rio. La posta del gioco è un’ingiunzione «a com­pa­rire», il gioco è un duello: si ingiunge al caso di rispon­dere; la scom­messa del gio­ca­tore lo lega ine­lut­ta­bil­mente – deve dichia­rarsi favo­re­vole o ostile. Il caso non è mai neu­tro: il gioco lo tra­sforma in gio­ca­tore e in figura agonistica.

Come dire che l’ipotesi fon­da­men­tale del gioco è che il caso non esiste.

Il gio­ca­tore si difende a tutti i costi da un uni­verso neu­tro, quello a cui appar­tiene il caso ogget­tivo. Il gio­ca­tore pre­tende che tutto sia pas­sa­bile di sedu­zione, i numeri, le let­tere, la legge che regola il loro ordine seriale – vuole sedurre la Legge stessa. Il minimo segno, il minimo gesto ha un senso, il che non signi­fica una con­ca­te­na­zione razio­nale, ma che ogni segno è vul­ne­ra­bile da parte di altri segni, ogni segno può essere sedotto da altri segni, e il mondo è costi­tuito da con­ca­te­na­zioni ine­so­ra­bili che non sono quelle della Legge.

Que­sta è l’«immoralità» del gioco, così spesso rap­por­tata, invece, al fatto di voler vin­cere un muc­chio di soldi tutto in una volta. Ma sarebbe far­gli troppo onore. Il gioco è molto più immo­rale di que­sta velleità.

Ma allora, se il gioco è un’impresa di sedu­zione del caso che si serve di con­ca­te­na­zioni obbli­gate tra segno e segno del tutto estra­nee a quelle tra causa ed effetto – ma anche a quelle, alea­to­rie, tra serie e serie -, se il gioco tende ad abo­lire la neu­tra­lità ogget­tiva del caso cap­tando la sua «libertà» sta­ti­stica nella forma di un duello, di una sfida e di un rilan­cio inces­sante, è un con­tro­senso imma­gi­nare, come fa Deleuze nella Logica del senso, un «gioco ideale» che con­si­ste­rebbe nella sud­di­vi­sione illi­mi­tata del caso, in un con­ti­nuo aumento di inde­ter­mi­na­zione che ren­de­rebbe pos­si­bile il gioco simul­ta­neo di tutte le serie, e quindi l’espressione radi­cale del dive­nire e del desiderio.

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Il gioco è un sistema senza con­trad­di­zioni, senza nega­ti­vità interna. Per­ciò non si potrebbe riderne. E se non può essere paro­diato è per­chè tutta la sua orga­niz­za­zione è già paro­diata. La regola gioca come simu­la­cro paro­di­stico della legge. Né inver­sione, né sov­ver­sione, ma rever­sione della legge nella simu­la­zione. Il pia­cere del gioco è duplice annul­la­mento del tempo e dello spa­zio, sfera incan­tata di una forma indi­strut­ti­bile di reci­pro­cità – sedu­zione pura – e paro­dia del reale, gioco al rialzo for­male delle costri­zioni della legge.

Quale migliore paro­dia dell’etica del valore se non la sot­to­mis­sione, con tutta l’intransigenza della virtù, ai dati del caso o all’assurdità di una regola? Quale migliore paro­dia dei valori di lavoro, pro­du­zione, eco­no­mia, cal­colo, se non la scom­messa e la sfida, l’immoralità e l’inequivalenza fan­ta­stica tra posta in gioco e vin­cita pos­si­bile (o per­dita, anch’essa immorale)?

Quale migliore paro­dia del con­cetto di con­tratto e di scam­bio se non la com­pli­cità magica, l’impresa di sedu­zione ago­ni­stica del caso e dei com­pa­gni di gioco, la forma di obbli­ga­to­rietà duale che si ha in rap­porto alla regola? E come negare meglio tutti i nostri valori morali e sociali di volontà, respon­sa­bi­lità, ugua­glianza e giu­sti­zia, se non in virtù di quest’esaltazione del fau­sto e dell’infausto, di quest’esultazione di gio­care alla pari con un destino ingiu­sti­fi­cato? O quale migliore paro­dia delle nostre ideo­lo­gie liber­ta­rie se non la pas­sione della regola?

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