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Intervista a Massimo Cacciari

a cura di Giacomo Bottos e Lorenzo Mesini

Massimo Cacciari è uno dei protagonisti della vita culturale italiana. Con questa intervista ci siamo però concentrati su una stagione precedente del suo impegno politico-filosofico, quella che va dagli anni dagli anni Sessanta agli anni Ottanta. Le ragioni di questo interesse stanno nella straordinaria importanza che quella fase assume, sia come periodo di transizione e di crisi che contribuisce a determinare un assetto del mondo i cui effetti si dispiegano tuttora, sia per la compenetrazione tra riflessione teorica e impegno politico che era prerogativa di quella stagione e che ora pare scomparsa. Le domande mirano dunque all’approfondimento di questa vicenda storico-teorica e al ruolo che Cacciari gioca in essa

IncontroRufinoCacciari2 e1444978989614Lei ha iniziato il suo percorso intellettuale e politico insieme ai principali esponenti dell’operaismo italiano (Mario Tronti, Antonio Negri, Alberto Asor Rosa). Quali sono i motivi per cui a suo parere quella stagione ha assunto un rilievo filosofico oltre che politico?

Credo che si tratti di questo: si è trattato dell’ultima stagione in cui è comparso un marxismo creativo. Non ci si trovava cioè di fronte ad una scolastica marxista ma ad un pensiero che riprendeva i temi filosofici di Marx. Questo era evidente in autori come Negri, che provenivano da un percorso di studi sulla tradizione del pensiero politico, sulla filosofia tedesca tra Otto e Novecento, sullo storicismo di Dilthey ed altri temi consimili. E questo vale anche per Tronti, che era stato uno degli ultimi allievi di Ugo Spirito e aveva iniziato a leggere Marx attraverso quella prospettiva, da un punto di vista molto lontano da quello gramsciano -per non dire ovviamente crociano- che andava allora per la maggiore. Si trattava quindi di una scuola di politica e di filosofia che credo fosse abbastanza innovativa nel quadro non solo italiano, ma anche europeo. Non a caso questo filone di studi ebbe poi grande diffusione anche fuori d’Italia.

 

Lei ha riconosciuto in Operai e capitale sia la sistemazione teorica più completa dell’operaismo sia il testo estremo della tradizione marxista. Potrebbe spiegare meglio questo suo giudizio? Cosa viene precisamente a concludersi in quel periodo?

Il discorso è complesso perché si tratterebbe di ricostruire tutta la storia del marxismo europeo. Le questioni cruciali comunque erano due. Da un lato si trattava di sviluppare i temi filosofici forti di Marx: la sua critica a Hegel, le Tesi su Feurbach, e soprattutto di approfondire la lettura delle Tesi che per primo dette Giovanni Gentile -non a caso maestro di Spirito-. Dall’altro era in gioco la ripresa in chiave “scientifica” del Lukàcs di Storia e coscienza di classe. Si trattava, cioè, di dare una lettura politica di Marx su base “scientifica” criticando radicalmente ogni utopismo marxista e cercando di vedere in Marx una lettura del processo rivoluzionario non in chiave meccanicistico-determinista, come facevano certe correnti dell’antica socialdemocrazia, ma, appunto, in chiave politica. Tuttavia questa politica doveva essere pensata in una maniera scientificamente fondata.

 

Allinterno di questa vicenda il suo contributo assume subito un carattere autonomo. Può spiegarci come nasce e si sviluppa la sua riflessione sulla questione del “pensiero negativo”? In che senso il suo lavoro di quegli anni, pensiamo in particolar modo a Sulla genesi del pensiero negativo, si distacca criticamente sia da Lukàcs che da Löwith?

Nel mio percorso di studi provenivo anche da studi diversi. Avevo lavorato soprattutto su temi di letteratura classica e storia dell’arte. Nell’ambito di quelle ricerche avevo incontrato in particolare un autore come Nietzsche. Dalla critica di Nietzsche poi risalii ad Hegel. Quindi Marx rappresentò per me, inizialmente, una lettura esclusivamente pratico politica. Riguardo alla tematica del pensiero negativo, il mio contributo riguardava la critica ad Hegel, ma in fondo anche a Marx. Sono stato probabilmente l’unico di quel gruppo a non esser mai stato marxista, perché a mio avviso la critica di Nietzsche a Hegel e alla dialettica idealista coinvolgeva indirettamente anche Marx. Li ci fu un dibattito molto produttivo, proficuo fra di noi. Ritengo che tutta l’evoluzione successiva del pensiero di Mario Tronti esprima questa influenza: Tronti riprese molti temi ed autori propri del pensiero negativo. Il pensiero negativo, beninteso, non è qualcosa di estraneo ad Hegel: è lo stesso Hegel che parla di pensiero negativo, anche se Nietzsche lo ignora. La negatività è l’elemento essenziale della dialettica hegeliana, quindi di fatto il germe della dissoluzione del sistema idealistico è già immanente in Hegel. È in questa chiave che leggevo il rapporto tra Hegel e Nietzsche: fin dall’inizio, fin da quando avevo vent’anni, non ho mai considerato il pensiero negativo come una forma di irrazionalismo, in totale polemica con Lukàcs. Il mio primo articolo contro Lukàcs lo pubblicai a 15 anni su una rivista studentesca. Il pensiero negativo è una determinante fondamentale dello stesso hegelismo. Ma è quell’elemento dell’hegelismo che ne dimostra l’aporeticità. E questo vale a maggior ragione per la filosofia di Marx.

 

Invece per quanto riguarda Löwith?

Löwith, con il suo Da Hegel a Nietzsche, fu per me fondamentale, soprattutto per la straordinaria documentazione che conteneva che mi permise di vedere molto bene questa continuità. Era inoltre fondamentale per la critica all’impostazione lukàcsiana, sia per quanto riguarda il tentativo di quest’ultimo di riportare Hegel ad un umanesimo illuministico, attaccandone tutte le parti da lui ritenute mistiche (un autore italiano per me molto importante per capire il carattere della mistica hegeliana fu Della Volpe), sia per la capacità di mettere in evidenza elementi di relazione forte tra il sistema dialettico e il pensiero negativo.

 

Il saggio sul pensiero negativo viene pubblicato sulla rivista Contropiano. Potrebbe descriverci quali erano le prospettive entro cui intendeva muoversi il lavoro della rivista?

Al centro dell’impostazione teorica della rivista vi era il tentativo di porre filosoficamente la politicità del discorso marxiano, che era l’elemento a nostro avviso carente nella critica all’economia politica. Fondamentalmente in Marx vi era una critica dell’economia politica dalla quale non si poteva dedurre la dimensione più propriamente politica. Sviluppare questa dimensione era il tentativo della rivista Contropiano. In più vi era un altro aspetto, che riguardava la dimostrazione pratica di come determinante categorie si potessero declinare in rapporto alla realtà presente, ovvero alla lotta di classe di quegli anni, che ognuno di noi caratterizzava diversamente: chi in chiave pre-rivoluzionaria come Antonio Negri, chi in chiave di organizzazione di una nuova formazione politica come Asor Rosa o come Tronti.

 

Gli anni Settanta sono un momento di profondi mutamenti e crisi. In questo contesto come vengono a ridefinirsi i problemi e le prospettive delloperaismo? In che modo il suo lavoro si differenzia da quello di altri, come da quello di Negri ad esempio?

Con Negri la rottura avviene già dal primo numero di Contropiano: il secondo numero non è già più firmato da Toni. Fu lì che si consumò la rottura tra una lettura già tutta in chiave pre-rivoluzionaria del ’68-’69 e un’altra che vedeva invece in quella contingenza la possibilità della riorganizzazione del movimento e quindi la potenziale utilità di un discorso interno alle forme organizzative del sindacato, del partito ecc. Nel 1970 l’operaismo finisce per ragioni materiali: tutti noi avvertiamo ormai l’esaurirsi di quel soggetto che era il fondamento di queste teorie e di queste analisi. È una storia ancora tutta da fare in termini seri. Ci fu in quella fase un contrattacco capitalistico-istituzionale a tutto campo di fronte alla minaccia rappresentata dal ’68-’69 ed è lì che inizia il crollo di ogni centralità operaia. Ci fu un convegno nel 1977 a Padova, tra l’altro concluso da Napolitano, in cui ormai questa storia veniva storicizzata e se ne constatava l’inevitabile tramonto.

 

Invece, per quanto riguarda Tronti, come nasce la questione dellautonomia del politico?

Tronti riteneva che, a partire dalle circostanze che abbiamo ricordato, tutta la vicenda doveva svolgersi all’interno della dimensione del politico, affermato nella sua autonomia. In quanto era finita la possibilità di operare trasformazioni radicali (chiamiamole pure rivoluzioni, per usare il linguaggio di allora) sulla base di forme di autorganizzazione proletaria, si cominciava una lunga marcia, anche critica, attraverso le istituzioni.

 

Quali sono i riferimenti alla tradizione del pensiero politico?

In quel periodo si cominciò -probabilmente fui io a iniziare ad elaborare questa idea- che per capire e declinare questa concezione dell’autonomia del politico -intesa non in chiave assolutistica ma sempre relativa- bisognasse rifare la storia della grande filosofia politica borghese del Novecento. E allora bisognava comprendere bene Weber e poi Schmitt. Da lì anche Tronti ha iniziato a studiare Schmitt. Ci furono due importanti convegni a Padova che organizzammo come Fondazione Gramsci Veneto: il primo con Curi, Miglio e Bozzo sulla guerra e il secondo proprio su Schmitt che si intitolava La politica oltre lo Stato. E si cominciò allora, insieme ad altre persone come Giacomo Marramao, una riflessione che si sviluppò anche sulla rivista Il Centauro e che verteva sulla tradizione del pensiero borghese a proposito del tema del politico e dello Stato.

 

Con la pubblicazione di Krisis nel 1976, la riflessione sul pensiero negativo si approfondisce. Al centro del saggio è presente la coppia Nietzsche-Wittgenstein. Che significato assume la “crisi” del pensiero negativo al centro del libro? Come si ridefiniscono in relazione a questa le possibilità e le prospettive di ogni critica?

In quel libro si trattava proprio di mettere in chiaro quanto accennavo prima: che l’idea di pensiero negativo non ha nulla in sè di negativo. Come mostrarlo meglio se non facendo vedere come un certo Wittgenstein -e non solo il secondo- posse essere anche letto in una chiave “nietzscheana”, o meglio, come il Nietzsche filosofo potesse avere profondamente a che fare anche con certi filoni della filosofia, dalla stessa analitica al neopositivismo? Credo che ciò sia stato dimostrato in quel libro. Sempre più le nuove documentazioni che emergono mostrano come Nietzsche sia interpretabile anche in una chiave neopragmatista. Un aspetto interessante che sta emergendo a questo proposito in certi studi americani è l’influenza su Nietzsche di una certa filosofia americana, Emerson in particolare. Queste relazioni, che io misi in evidenza, dimostravano la totale infondatezza dei modi coi quali ragionava sul pensiero negativo un certo marxismo tradizionale -e la stragrande maggioranza dell’intellettualità filosofica e non- tra anni ’60 e ’70. Naturalmente questo coinvolgeva un altro libro fondamentale, che Toni Negri mi fece leggere appena uscito, che era il Nietzsche di Heidegger.

 

Le implicazioni politiche del discorso portato avanti allaltezza di Krisis appaiono molto rilevanti. La tua prospettiva sembra oscillare da un lato tra lidea di utilizzare questi autori per la costruzione di una scienza operaia non riconducibile allo storicismo e dallaltro limpossibilità di portare avanti un punto di vista autonomo. Al riguardo pensiamo in particolare al saggio su Heidegger che pubblica su Rinascita nel 1976

Quell’articolo segnò il dibattito. All’epoca suscitò un grande scandalo, non soltanto per quelle ragioni volgari (il “nazismo” di Heidegger) con cui si cimentano ancora oggi tutti coloro che non hanno niente di meglio da fare in filosofia, ma per una questione molto più seria: si trattava di capire se il marxismo, o meglio ancora la cultura che al marxismo si riferiva in Italia e che aveva un grosso peso politico, potesse emanciparsi dalla dimensione crociana e gramsciana, comunque sempre storicista, che da sempre l’aveva caratterizzata. Non c’è dubbio che quell’articolo, come Krisis e le altre cose che via via andavano pubblicando gli altri amici che avete citato e che poi si collegarono in Laboratorio politico e nel Centauro, certamente rappresentavano il desiderio di uscire da quella dimensione e rappresentavano anche una dimensione importante del movimento operaio italiano. Poi la storia è andata come è andata: tutto andò un po’ perduto. Questo filone continuò ad avere una sua vita autonoma in sede di dibattito filosofico ma con gli anni ’80 avvenne la rottura del legame tra dibattito storico-filosofico e prassi politica. Con la morte di Berlinguer, che pure non c’entra con tutto ciò ma costituisce comunque una data di riferimento, e con fine del PCI e la rifondazione della sinistra italiana, questa relazione cadde totalmente.

 

Tra anni Settanta e Ottanta si consuma appunto una rottura non solo sul piano politico ma anche nel rapporto tra attività intellettuale e politica. In questo periodo Lei contribuisce significativamente alla nascita di due riviste, che ha già citato, Il Centauro e Laboratorio Politico. In che modo questi progetti si inseriscono in questo nuovo contesto?

Erano il tentativo di far lavorare insieme tutti quelli che avevano pensato in quella direzione. Il gruppo che veniva da Contropiano si era incontrato con molti della scuola di Biagio De Giovanni: Marramao, Esposito, Racinaro e altri. Il Centauro era una rivista specificamente filosofica, che voleva rappresentare appunto un luogo di confronto tra l’elaborazione della scuola di De Giovanni e il discorso sul pensiero negativo di cui abbiamo parlato. Laboratorio politico aveva un’impostazione più politica. Erano due riviste diverse, ma convergenti nell’obbiettivo di fondere queste diverse scuole che erano apparse negli anni ’60 e ’70.

 

Come valuta il contributo di Biagio De Giovanni al Centauro?

Era fondamentale: lo dirigeva e aveva avuto lui l’idea di verificare quel rapporto di cui dicevo. Fu lui a volerlo e si pubblicò a Napoli. E credo che anche molti contributi di Biagio successivi dimostrino che per lui la cosa funzionava e quanto profondamente sia entrato in dialettica con certi autori e discorsi che erano completamente assenti dall’orizzonte politico della cosiddetta Scuola di Bari.

 

Anche di recente De Giovanni è tornato a occuparsi, nel suo ultimo libro, del problema centrale della sovranità politica.

Beh gli autori con cui discute e polemizza sono quelli che vennero posti al centro dell’attenzione alla fine degli anni ’70 dal sottoscritto, da Curi, da Duso per Schmitt ecc.

 

E la Scuola di Bari?

La Scuola di Bari quando De Giovanni in quel momento decise di collaborare con me e indirettamente con quel filone di discorso che citavamo, di fatto si ruppe: Racinaro a metà strada, Marramao ed Esposito iniziarono a lavorare a tutto campo su certi temi con me, mentre Vacca ed altri continuarono la loro ricerca nell’ambito di quella tradizione marxista e storicista rivisitata, aggiornata e approfondita che era propria delle origini del loro rapporto con De Giovanni.

 

Ripensando oggi al periodo che abbiamo ripercorso in questa intervista si avverte una forte distanza, specialmente nella mancata capacità nell’oggi di interpretare il presente e di compenetrare analisi teorica e azione politica. Come valuta retrospettivamente quella stagione in rapporto al nostro presente?

Le stagioni culturali sono irripetibili, non sono stagioni climatiche e meteorologiche. In quella stagione c’era sicuramente quel nesso. Certo, anche se certe cose uscivano su Rinascita e Critica marxista ed erano presenti nel dibattito politico, anche se a certi convegni partecipavano Napolitano e Ingrao, non bisogna pensare che ciò avesse chissà quale influenza pratico-politica. Tuttavia è stata senza dubbio l’ultima stagione nella quale anche il politico pensava di dover ragionare sul presente con alcune chiavi di carattere culturale, storico e generale, su questo non c’è dubbio alcuno. Da qui scaturiva la necessità della relazione con il discorso filosofico. Questa necessità, direi, era avvertita naturalmente. Dopo di che, chiaramente, si poteva tenere conto di questo rapporto e di ciò che ne nasceva in maniera diversa. Tuttavia il dialogo e questa relazione avvenivano naturalmente.

 

Di questo nesso tra teoria e politica si sente oggi la mancanza.

Ma è finito, è finito completamente. Questo è vero non solo per l’Italia. Cose analoghe potevano accadere anche nella Germania di Brandt e Schmidt, accadevano anche nella Francia di Mitterand o di De Gaulle. Sono tutti personaggi che avevano questa istanza e da ciò veniva la relazione necessaria con una qualche dimensione di discorso filosofico. Tutto ciò è venuto meno. Forse perché è venuta meno la centralità della politica. Perché questa non è una crisi della filosofia secondo me, ma una crisi della politica. Siamo in una dimensione in cui la politica non conta più nulla, non ha più in mano la gestione del mondo e allora diventa tecnica amministrativa. Forse non si tratta di un venir meno della filosofia quanto proprio della politica.

 

Cosa ne pensa degli ultimi lavori di Mario Tronti, in particolare del libro Dello spirito libero e quello su Benjamin e la teologia politica?

Tutta l’ultima produzione di Mario Tronti è dominata dal tema della teologia politica, su cui abbiamo discusso tante volte insieme. Credo che si tratti di questo: venendo meno le ragioni storiche obiettive di quella relazione tra politica e filosofia che dominava tra anni ’60 e ’80 – dominava per noi, era il nostro assillo – l’attenzione si è spostata via via per Tronti sull’analisi di certe categorie generali del pensiero politico, sul tema della secolarizzazione politica del linguaggio teologico, su queste grandi questioni di fondo. Credo che abbia dato anche dei contributi importanti in questo senso nell’ultimo libro, anche in discussione con me. È quasi inevitabile che venendo meno il nesso di cui prima si parlava, l’attenzione filosofica si indirizzi su questioni più generali. Non ritengo che questo sia un male, tutt’altro. Non ritengo affatto che sia un male il fatto che il discorso filosofico cerchi di riprendere una sua autonomia. Soltanto se riesce a rifondarsi forse domani potrà avere un’influenza pratica. Inseguire oggi una relazione con la dimensione politica è fatica sprecata e rischia di involgarire la tensione del discorso filosofico. Credo che questa sia la posizione di Tronti oggi, che diventa anche una posizione speculativa, nel senso buono del termine: disincantata sulla sua possibilità di efficacia pratica e sanamente speculativa

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