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sinistra aniticap

Decadenza capitalistica e crisi di civiltà

di Diego Giachetti

calendario mayaE mi abbandono/ al triste vento
che mi trasporta/ di qua e di là
simile a una/ foglia morta
(Paul Verlaine, Canzone d’autunno)

Nella storia si definisce decadenza il periodo in cui si verifica la crisi di una classe dominante che sta esaurendo la sua funzione all’interno di una formazione economico-sociale. Essa è il sintomo tipico «delle epoche di transizione, dilaniate tra ciò che tarda a morire e ciò che appena sta nascendo»1 . Nel 1919 lo storico olandese Johan Huizinga dava a una sua opera, destinata alla celebrità nel campo della ricerca storica, il titolo Autunno del Medioevo. Così definiva il periodo del Trecento e del Quattrocento del secondo millennio, i secoli che segnavano il tramonto della civiltà medioevale raccontata come un lungo declino, durante il quale emergevano sentimenti di nostalgia per un mondo che andava decadendo, fino a scomparire. Un mondo che stava finendo e che, accanto alla nostalgia, covava sentimenti di precarietà, perdita di senso e di divenire, dal quale si provava ad evadere cercando consolazione nel sogno e nella fantasticheria oppure nella dissolutezza e volgarità gratuite.

Interpretava il Tardo Medioevo come un tempo di pessimismo e di decadenza, piuttosto che di rinascita, caratterizzato da una diffusa malinconia e infelicità tra gli uomini i quali cercavano di liberarsi da quello stato angoscioso ricorrendo a forme di esorcizzazione del reale attraverso riti, cerimonie, giochi cavallereschi, poemi amorosi, nel tentativo di trasformare la vita in un sogno. Tutto ciò era un segno di decadenza, in quanto dimostrava che quella società non sapeva reagire alle difficoltà articolando progetti per cambiare il mondo malinconico. Infatti la malinconia conduce il soggetto a vivere passivamente, senza iniziative, giudicate inutili e sbagliate: non solo si adatta a ciò che accade, ma si autoconvince anche che non lo riguardano. Max Weber chiamava questi tempi storici, tempi dell’angoscia, dell’anomia secondo Emile Durkheim, cioè stati di mancanza di norme, caratterizzati da critica e controcritica, auto-indagine e dubbio, scetticismo e intuizione, con tentativi di riaffermare ciò che si è dimostrato alla fine sopravvissuto e vuoto. Si produce una popolazione amorfa, emotiva, soggetta a scoppi improvvisi, non organizzati, frantumata e priva di obiettivi propri. Essa è quindi predisposta ad abbandonarsi a leader improvvisti, meteore che possono assumere significati e indirizzi politici nefasti.

Successivamente e non a caso negli anni Trenta del Novecento, Huizinga tornò sul tema della decadenza e della crisi della civiltà con un apposito libro pubblicato nel 1935 (in Italia intitolato La crisi della civiltà), il cui titolo originale olandese era Nelle ombre del domani, una diagnosi della pienezza vuotezza spirituale del nostro tempo. Le ombre sono rappresentate dal prevalere dell’istinto, dell’immaginazione, del mito sulla ragione, dello slogan immaginifico:

«quando il magico e il fantastico vengono su, oscurando la ragione, tra un fumacchio di istinti in ebollizione; quando il mito scaccia il logos e ne prende il posto, allora siamo alla soglia della barbarie»2.

Uno dei sintomi più gravi, proseguiva, era l’indifferenza alla verità, riscontrabile anche nella politica dove l’inganno, diceva, riscuoteva il plauso universale. Non fosse altro che per ragioni anagrafiche, lo storico olandese, nato nel 1872 e morto in un campo di internamento tedesco nel 1945, aveva vissuto direttamente la crisi di civiltà provocata dalla Prima guerra mondiale, che aprì le porte alla formazione di regimi totalitari quali il fascismo e il nazismo. Attento studioso delle sovrastrutture ideologiche e culturali dei sistemi sociali, individuò i presupposti di quella crisi di civiltà nel decadentismo, fenomeno culturale e artistico che nacque in Europa negli ultimi decenni del XIX, e che si fece interprete dello smarrimento della coscienza umana, dovuto al crollo dei vecchi e tradizionali valori andati persi con l’avvento del modo di produzione capitalistico.

Col capitalismo infatti era venuto il tempo, per dirla con Marx,

«in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate - virtù, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. - tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore»3.

I decadenti a modo loro si opposero disgustati alla società industriale, a quegli aspetti inumani, prosaci, scatenati dal prevalere della logica del profitto e del mercato, già descritti e denunciati sul piano della critica dell’economia politica da Marx e Engels. Solo che a partire dalle loro analisi, Marx ed Engels formulavano la necessità e il proposito lottare per il rovesciamento di quella società per costituirne una nuova, socialista, mentre l’orizzonte al quale guardavano i decadenti era diverso. Le ragioni del loro disgusto non erano politiche, erano prevalentemente estetiche. Il marxismo denunciava la riduzione dell’uomo a cosa, a oggetto di valorizzazione del capitale, i decadenti denunciavano la moderna volgarità capitalistica, il cattivo gusto borghese, il loro agire unicamente per la preminente ragione del guadagno, che trasformava artista e arte, letterato e letteratura in merce, unico punto di riferimento, al di là di ogni valore estetico. Il marxismo proponeva la lotta di classe, l’organizzazione politica del proletariato quale strumento per lottare contro la classe borghese dominante, mentre i decadenti, feriti dalla perdita della “bellezza”, tendevano a rifugiarsi in un mondo tutto loro, di raffinata bellezza, dando vita a quel fenomeno chiamato estetismo per cui l’intellettuale si chiudeva in sé stesso, cercando nell’individualismo e nell’egoismo l’alibi per non affrontare una realtà grigia che lo disgustava. Di fronte alla riduzione di tutte le “cose”, uomini e arte compresi, a merci, l’intellettuale decadente optò per la fuga dal mondo. Al sociale impoverito e prosaico reagì con l’individualismo e l’egocentrismo, la solitudine e la ricerca di una corrispondenza intima tra desiderio e vita. Alla ragione capitalistica reagì con l’irrazionalismo, la ricerca dell’ignoto e del mistero per negare una realtà non sopportabile, vissuta come imposizione, sacrificio della sua libera creatività. Pensando di liberare l’individuo i decadenti lo lasciavano solo e impotente di fronte alla realtà, racchiuso nella sua volontà di potenza di autorappresentazione del suo mondo ideale, senza più certezze, tormentosamente chiamato ad indagare se stesso, in un colloquio solitario oppure in un inutile dialogo fittizio con gli altri in quanto verità e fatti, prove e accertamenti, altro non erano che convinzioni personali, soggettive, quindi difficilmente condivisibili.

 

Un nuovo decadentismo: prosaico e volgare

L’età del decadentismo europeo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, rappresentò la forma culturale con la quale le vecchie classi aristocratiche, spodestate dalla nascente borghesia, celebrarono la loro ultima nostalgica fine di un mondo soppiantato da un altro. La fine del loro mondo era la fine del mondo, la caduta della loro “moralita”, era la fine della morale. E’ un contesto ben definito da Gabriele D’Annunzio quando descrive la condizione dell’aristocrazia ormai decaduta, alla fine dell’Ottocento, in questo modo:

«Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommergeva miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizione familiare d’eletta, cultura, d’eleganza e di arte»4.

Confrontando la dissolutezza dell’aristocrazia all’epoca della decadenza dell’antico regime con quella della borghesia, risulta che:

«l’aristocratico nella dissolutezza trovava la propria vocazione, e in quest’opera egli metteva tutta la propria personalità e raggiungeva un vero e proprio virtuosismo […]. Il borghese medio contemporaneo nella sua dissolutezza porta un’arida praticità. […].Non c’è lo slancio, né l’eleganza, né una smodata perversità. Solo avarizia, sudiciume e prosa»5.

Il mondo che la borghesia andava costruendo era infatti pervaso dall’utilitarismo, dal dominio mercantile del valore denaro, dall’edonismo prosaico, che indicava come fine di un’irrazionale foga desiderante il consumismo nel quale l’individuo avrebbe dovuto trovare la propria redenzione da quelli che erano i frutti della disumanità capitalistica. Tutto tendeva ad essere mercificato, valorizzato secondo la logica del profitto. Anche il sistema museale, ad esempio,

«è ormai asservito alla logica mercantile, come qualsiasi altro prodotto. Si stanno trasformando i musei in fondi bancari, in macchine finanziarie, hedge fund specializzati in speculazioni»6.

Difatti e non a caso si sente dire che occorre valorizzare l’arte, ma valorizzare e un termine bancario. Siamo nel pieno di una crisi del sistema capitalistico che negli ultimi trent’anni ha prodotto disoccupazione cronica, abbassamento del livello di vita, rovina della piccola borghesia urbana e contadina, declassamento del ceto medio, avvelenamento demagogico del popolo. Lo riconosce, dati alla mano, Tyler Cower un liberal-conservatore, nel suo libro, La classe media non conta più, (Milano, Egea, 2015). Il 60% dei posti di lavoro persi nell’ultima recessione è a salario medio. Dei posti creati successivamente, il 73% è a basso salario. Ne fanno le spese ceti impiegatizi e addetti alle vendite, mentre parallelamente cresce la domanda di lavori malpagati, a bassa qualifica e, all’estremo opposto, cresce quella di lavori ben pagati in ambito manageriale e tecnologico; chi sta in mezzo non vede nessun miglioramento della propria remunerazione. Si sta passando, continua Tyler Cower, da una società basata sulla pretesa che a tutti fosse dato uno standard di vita confortevole a una in cui la gente deve e dovrà sempre più arrangiarsi da sola. Per il prossimo futuro prevede che il 15% della popolazione sarà estremamente ricco e avrà una vita stimolante. Il resto sopravvivrà con salari stagnanti, vivrà in zone degradate con l’aiuto di piccole e insufficienti sussistenze elemosinate dai ricchi, cioè gocce di grasso che colano dall’alto.

Il capitalismo globalizzato sta producendo una società sempre più diseguale, ma la percezione che ci viene inculcata, non è quella dell’ingiustizia e della diseguaglianza, non è quella di una società dicotomica, bensì di una società gerarchica, fondata sulla scala dell’ascesa o della caduta individuale. Chi sta in basso nella scala sociale non tende ad allearsi con i suoi “vicini” nella lotta contro i “superiori”, ognuno cerca di progredire per proprio conto: e chi sta indietro peggio per lui; la concorrenza individuale è più forte della solidarietà collettiva. Man mano che la “civiltà del capitale” è diventata sempre più triviale, prosaica e utilitarista, essa ha parallelamente sviluppato maschere ideologiche, si è nascosta dietro un nuovo idealismo senza idee, un’ideologia conservatrice senza pensiero conservatore, un relativismo soggettivizzante fondato sull’uomo liberista, produttore del proprio destino individuale. L’individuo è esaltato mentre le “moltitudini” sono costrette all’anonimato, al consumismo coatto di merci reali e immaginarie. Il dibattito culturale e politico è segnato da un presente immobile, senza storia, senza speranze, perso nel vuoto delle infinite chiacchiere sul web, un brusio indistinto che confonde e ottenebra. Lotta, diritti, giustizia, lavoro e mille altre parole, espressione della dignità dell'uomo, sono bolle insignificanti in attesa di esplodere senza rumore. La misura dell’autorità, del potere, è scandita solo dal successo economico e finanziario. Le élite al potere non hanno più una tradizione politica conservatrice a cui riferirsi. Abolendo la storia, anche le classi dominanti e i loro intellettuali, mancano di ogni riferimento solido a un passato a cui riferirsi. La classe dominate non ha bisogno di elaborare una sua ideologia del potere in modo esplicito, perché oggi non deve affrontare alcuna forte opposizione basata su idee antitetiche alla retorica liberale.

Indubbiamente a questa pronunciata crisi di civiltà, prodotta dal capitalismo e dalle sue ideologie, ha contribuito anche il fallimento delle opzioni strategiche per superare questo tipo di società. La decadenza attuale, la lunga transizione verso un possibile mondo nuovo, di cui però si ha difficoltà a trovare gli strumenti e il soggetto atti a praticarla, si protrae perché non vi sono stati (o sono falliti) soggetti, movimenti, classi capaci di porre all’ordine del giorno il suo superamento. Degrado e decadenza, travolgono, nel loro avanzare, anche le possibilità di un’alternativa al sistema e danno luogo a una dittatura della mancanza di alternative. Più che di crisi del comunismo, del marxismo, delle ideologie è più corretto parlare di crisi strategica delle forze che potrebbero essere motore di cambiamento:

«le due cose sono ovviamente legate. Proprio perché il movimento operaio ha registrato sinora insuccessi e fallimenti nel raggiungimento del suo fine storico, cioè la costruzione di una nuova società sorta dal rovesciamento della società esistente, le società umane e la loro civiltà sono immerse in una crisi complessiva […] E’ questa crisi che è alle radici delle tendenze centrifughe che si moltiplicano, del nuovo sonno della ragione non meno allarmante dei precedenti, dell’angoscia sotterranea che si rifrange nei comportamenti e nelle ideologie di movimenti sociali e politici che si diffondono in varie regioni del mondo»7.

E’ una crisi che si trascina, si espande, corrode, decostruisce e riformula a sua somiglianza, è qualcosa di più e di diverso da una crisi ciclica, cui ci ha abituati lo sviluppo capitalistico. Alle fasi di recessione e crisi seguivano fasi di sviluppo e crescita per cui si poteva sperare che il domani sarebbe stato migliore. Oggi non è più così. Questa convinzione è incrinata, stanno preparando le nuove generazioni a vivere in un mondo peggiore di quello dei loro genitori.

 

Sapere senza conoscere

Le “moltitudini” sono indotte a trovare la salvezza nell’illusione e nell’autoinganno. Tutto diventa maschera sogghignate: la violenza delle guerre vecchie e nuove diventano missioni umanitarie di pace. Benessere e opulenza sono fame e miseria per miliardi di persone. La libertà democratica è mito e pane quotidiano per bocche buone ad ogni sapore, mentre un’oligarchia domina le risorse del pianeta. Più l’immanente fa schifo e più il trascendente trionfa costruendo illusioni di fuga, di evasione, di sottrazione dal mondo reale, come se bastasse pensarlo e volerlo perché esso si avveri. I confini tra la realtà e l’immaginario non sono più distinguibili, appartengono alla liquida volontà di un demiurgo di turno. Così accade sempre più di frequente che sapere non coincida con conoscere.

Oggi si sanno molte cose, si è infornati su di una massa enorme di eventi, ma non sono conoscenze. Non ci domandiamo perché le cose accadono, ci limitiamo a informarci su come succedono. Televisione, Internet offrono molte informazioni, spesso confezionate più per stupire, intrattenere, intimorire o rassicurare che per informare, per indurre un orientamento critico e politico.

«Internet solo in apparenza è democratica, […] concetti come vero, finto, falso travasano l’uno nell’altro e sfociano nel populismo demagogico […]. Su Internet le tesi comprovate da dati ed esperti e una qualsiasi interpretazione o credenza si equivalgono, perché ognuno ha diritto di rivendicare le proprie convinzioni, secondo l’approccio relativista»8.

I fatti? Non sono nulla, non esistono:

«qualcuno li ignora. Qualcun altro li degrada a semplici opinioni. E il giudizio emotivo, che è quasi sempre un pregiudizio, regna incontrastato. In questo mondo di ignoranti informatissimi si dubita di tutto e al tempo stesso si crede a tutto. Finendo per non capirci più niente»9.

Si prova ad uscirne usando l’opinione per creare la realtà, la parola per costruire il fatto: è la dittatura delle opinioni, è un mondo algebrico di “secondo me”, “io penso che”, la cui somma finale nei termini di una formulazione corretta della conoscenza dei fatti sociali, politici, economici, è uguale a zero. Non potendo modificare la realtà, si può provare a crearne una nuova che soddisfi, illuda e ci faccia sognare, attraverso un atto linguistico performativo. Nella linguistica si definisce atto performativo un’asserzione che non descrive un certo stato delle cose, non espone un qualche fatto, bensì permette al parlante di produrre un’azione, che diventa un fatto reale. Come spesso accade, quelli che sono strumenti d’analisi attinenti a discipline specifiche, diventano di uso comune nelle analisi sociali e culturali. L’atto performativo della linguistica, se afferrato a mani nude, come non farebbe mai un fabbro col ferro reso incandescente dalla forgia, produce “scottature” che portano a credere che la realtà altro non sia che il prodotto della parola. La parola produce la realtà e con essa, in modo disinvolto, ciò che è vero e ciò che è falso. Non è nemmeno una grande novità, l’aveva già teorizzata e detta con belle parole Gabriele D’Annunzio, quando sosteneva che

«il verso è tutto. Nessuno strumento d’arte è più vivo, agile, acuto, vario, moltiforme, plastico, obbediente, sensibile, fedele. […] Il verso è tutto e può tutto. Può […] definire l’indefinibile e dire l’ineffabile; può rappresentare il soprumano, il soprannaturale, l’oltramirabile; può inebriare come un vino, rapire come un’estasi; può nel tempo medesimo possedere il nostro intelletto, il nostro spirito, il nostro corpo»10.

Oggi l’affermazione dannunziana, linguisticamente immiserita e ridotta a slogan buoni per aggirare o controllare “moltitudini”, è divenuta uno degli assunti del pensiero postmoderno, pronto a risolvere ogni livello dell’analisi sociale nel linguaggio. Ma lasciamo a D’Annunzio ciò che è suo nel dire e nel fare, perché imparagonabile con l’uso odierno, meschino e volgare, dell’atto performativo, pratica oggi impegnata nel costruire posizioni di potere attraverso la manipolazione linguistica delle parole, secondo quanto già ben descritto da George Orwell nel romanzo 1984 .

La devastazione sociale prodotta dalla crisi del sistema economico-finanziario, produce mutazioni culturali e politiche profonde, un imbarbarimento che coinvolge il concetto stesso di razionalità. La severità della crisi se non risveglia la società civile, provoca distruzione dei legami di solidarietà, prevalenza di un individualismo che può sfociare in atteggiamenti populistici, rivendicazioni xenofobe, conflitti tra poveri e oppressi narrati con le categorie di scontro etnico, generazionale, di genere. E’ la vecchia-nuova crisi della ragione, il cui sonno lascia il posto al sogno relativista postmoderno, al pensare per segmenti e non per insiemi, che costruisce un tipo umano funzionale al capitalismo neoliberista. Manca spesso un’analisi ragionata, basata sui fatti e le circostanze, assente il senso della storia. Il compassionevole fa legge, complici i media. I fatti sono piegati alla volontà interpretativa. Nel delirio interpretativo soggettivizzato, scompare l’opinione pubblica, intesa come ambito di formazione di coscienza da parte del collettivo che discute, si confronta, elabora. Resta, accanto alle figure del potere, il ruolo del personaggio satirico che si rivolge a un certo al pubblico, il quale può anche dire le verità, entro certi limiti, tanto nessuno lo prende sul serio, perché la satira fa ridere.

 

Criceti nella ruota

Il decadente di fine Ottocento poteva rifugiarsi e consolarsi in un nostalgico passato, incontaminato dalla bruttezza del capitalismo industriale, nelle nicchie protette di un mondo aristocratico vissuto nella bellezza, lontano dai rumori e dalla puzza della miseria. Ripiegamento intimistico, autointrospettivo, isolamento dal mondo moderno in un’aristocratica polemica contro i valori della civiltà borghese, industriale e di massa che si accompagnava allo slancio vitalistico, alla ricerca del bel gesto con sconfinamenti nel superomismo. Ascolto dell’io tormentato e malato, indagine sulla coscienza in crisi di coscienza; in questo caso non era più fuga dalla società, né mistificazione, ma svelamento del negativo dell’esistenza, consapevolezza della crisi storica e culturale di un’intera civiltà. I nuovi decadenti non hanno più questa possibilità. Negano il passato ed esaltano il presente; non c’è storia, neanche come nostalgia, ma solo tempo presente e immutabile. Porre domande sul perché le cose sono accadute e su come sono accadute è ritenuto sconveniente, del tutto inutile, nonché psicologicamente dannoso perché risveglia spiacevoli ricordi, angustia la coscienza e genera un senso di insicurezza. Si ha tanta «fretta di menomare e umiliare il giorno di ieri, proprio perché [si ha] paura del domani»11.

Se guardano nell’io profondo non trovano niente. Non c’è scampo, non c’è rifugio, solo prosaicamente vivere e operare freneticamente come un criceto che muove la sua ruota. Gli innumerevoli prodotti del mercato, la loro programmata obsolescenze in tempi brevissimi, l'accelerazione nella rotazione dei consumi che consegue, sono elementi tipici del modo vivere, di pensare, di percepirsi di questo sociale frantumato, del girare in tondo trascinati da apparenti correnti di cambiamento che non cambiano nulla. Il sociologo tedesco Hartmut Rosa ha formulato la definizione di accelerazione della vita sociale degli individui, per indicare un fenomeno psicologico che ha origini sociali. Abbiamo perso, afferma,

«la capacità di appropriarci delle nostre esperienze, facciamo un mucchio di cose e alla sera abbiamo dimenticato tutto. Stiamo andando da nessuna parte ma più in fretta. Nel passato recente l'accelerazione era percepita come innovazione e progresso, era considerata un movimento della storia verso una vita migliore e più libera. Nel XXI secolo tutto è cambiato: l'accelerazione non serve più al progresso: è necessaria per non collassare; la gente perde il lavoro, le fabbriche chiudono, il sistema politico è delegittimato. La gente sente che anno dopo anno deve andare più in fretta soltanto per restare dov'è, come un criceto sulla ruota. La vita non sarà sempre meglio, ma al contrario, sempre più dura. Questa è la condizione postmoderna: non andiamo più verso un avvenire radioso ma corriamo per non cadere nell'abisso che avanza alle nostre spalle. Il capitalismo è uno dei primi motori dell'accelerazione sociale: il tempo diventa merce, è denaro»12

e tutto va conquistato alla valorizzazione del capitale, non solo quello della produzione ma anche quello della riproduzione della vita. E’ quanto ci dice Jonathan Crary: il capitalismo contemporaneo vuole tutto il tempo della persona la quale deve essere aperta alla produzione e al consumo 24 ore su 24 per i sette giorni della settimana, come ormai lo sono molti supermercati e negozi13. Anche il tempo tradizionalmente dedicato al sonno è stato ridotto. Dormire sottolinea Crary appare quasi come una «oltraggiosa resistenza degli esseri umani alla voracità del capitalismo contemporaneo». Si dorme solo poche ore per notte, 6 e mezzo per la precisione, rispetto alle 8 della generazione a noi precedente e le 10 dei primi anni del XX secolo. Ridurre il tempo del sonno improduttivo per strappare altro ore all’orgia della produzione-consumo capitalistica. Ogni momento è buono per lavorare, comprare, giocare, intrattenersi sui social network. Una presenza, quella del capitalismo, che Crary non esita a definire ossessiva, che ci condiziona fin nella quotidianità imponendo il disumano principio di una «operatività incessante».

Una società frantumata rende più difficile la presa d’atto collettiva delle contraddizione nelle quali siamo intrappolati a causa del sistema e quindi più problematica la costruzione di un’azione collettiva per superare le contraddizioni. La frantumazione, narrata e imposta dalle rappresentazioni culturali postmoderne, impedisce la presa di coscienza dell’individuo come soggetto collettivo. Non elimina il rifiuto, ma lo riduce a “spinte del cuore”, a impulsi emotivi di ribellione individuali in un vuoto di progettualità organizzativa e di memoria storica. Mentre il sociale si frantuma in un tripudio di individualità l’un contro l’altra gettate e divise, la concentrazione della ricchezza economica su scala mondiale è andata aumentando attorno a una cerchia sempre più ristretta di persone che detengono un potere immenso sul quale l’individuo, “libero” nella sua soggettività, non ha alcuna possibilità di controllo, neppure di un minimo condizionamento. Mentre ci dicono che finalmente tutti siamo liberi di scegliere ciò che siamo, saremo o potremmo essere, poche persone scelgono e decidono per tutti noi e indipendentemente da noi. Persistono ancora echi prodotti dall’onda degli accadimenti, brandelli di frasi prodotte da eventi galleggiano,

«ma il contenuto intrinseco di queste frasi si è volatilizzato e il talento prezioso della generalizzazione politica è scomparso senza lasciar traccia. Ogni problema se ne sta da solo, come un ceppo in un bosco tagliato. La stupidità diventa sfacciata e, mostrando i denti guasti, schernisce ogni tentativo di seria generalizzazione»14.

All’epoca della sua ascesa come nuova classe dirigente la borghesia si faceva interprete di un grande fine: la liberazione della personalità nell’ambito di ciò che è pubblico. Tale liberazione però è possibile soltanto se l’uomo diventa padrone della propria organizzazione sociale, altrimenti questa continuerà a sovrastarlo come un destino ferreo, poiché le forze che modellano, la società, l’economia, la politica, sono forze strutturali. Ma la consapevolezza e l’azione efficace dei cittadini in una società di questo tipo sono limitate. Solo divenendo più consapevoli della nostra condizione, giungiamo a percepire che stiamo vivendo in un mondo in cui siamo soltanto spettatori. Un mondo che agisce su di noi, mentre noi non agiamo in maniera alcuna, che la nostra esperienza personale è civicamente irrilevante, la nostra volontà politica un’illusione secondaria. Proviamo quindi una sensazione immediata di turbamento, siamo disorientati. Se facciamo un passo avanti e giungiamo a comprendere la nostra condizione, rischiamo di cadere nella frustrazione, poiché la conoscenza, di primo impatto, accentua ancor di più la nostra impotenza di fronte alle grandi forze strutturali che manovrano il mondo, dettano e definiscono ciò che è la realtà, intesa come insieme di idee dominanti, credenze, immagini, simboli, che si interpongono tra le persone e le complesse realtà del loro tempo.

Qui si trova il luogo dell’intellettualità post-moderna, intesa come coloro che professionalmente creano, distruggono, elaborano questi simboli e che hanno un profondo rapporto con le immagini di realtà della gente comune. Nell’ambito di questa creazione ideologico-culturale poi ognuno apparentemente è libero di scegliere la propria rappresentazione, il proprio racconto così da sembrare che la realtà sia quella che desideri, fermamente desideri, e hai l’illusione che l’illusione diventi la verità. Ciò è impossibile, ma intanto lo si crede e ci si abbandona alla credenza. Siamo di fronte a un paradosso: l’ideologia dominante ci opprime, dobbiamo quindi liberaci da quel peso, ma è proprio quel peso che è di ostacolo alla via per liberarci da esso. Infatti, «chiedere agli uomini di abbandonare le illusioni riguardo alla loro condizione, significa richiedere che venga a cessare quella condizione che impone tali illusioni»15. Così può capitare che i “liberi” individui della società neoliberista agiscano e votino in direzione contraria a quelli che sono i propri interessi strutturali, oggettivi. E’ quella che Marx definiva falsa coscienza, quando le persone si trovano in una situazione nella quale le loro scelte soggettive non coincidono con quelle oggettive.

 

Narrazioni da comodino

La tradizione è stata spezzata, e mancano nuovi criteri da sostituire ai vecchi. La cultura diventa eclettica, sensazionale o fasulla. Una rivoluzione istituisce una nuova comunità d’interessi e di valori, la controrivoluzione tende a spezzare la comunità preesistente, senza sostituirla in modo adeguato. Rotto il rapporto con le generazioni passate, distrutta la necessità di confrontarsi con chi è venuto prima di noi, ecco che il “nuovo” si rappresenta come slegato da ogni ancoraggio col passato. Nell’odierna società ognuno è costretto a far da sé, a trovare la sua via. Mancando di relazioni solidali e collettive, il vuoto che si determina è riempito da relazioni private, piccoli mondi parentali, amicizie, “nidi” identitari che, crediamo, ci proteggono o meglio ci distraggono dall’infamia e dalla crudeltà insita nel vivere sociale. La debolezza narrativa e privatistica da vita a una letteratura

«consolatoria, romanzi da comodino che convivono col tubetto dei sonniferi e il bicchiere d’acqua, testi di un mondo interessato esclusivamente alle pulsioni e ai timori dell’io, narrativa di auto-aiuto per affrontare il mondo inquietante degli incubi del nostro tempo. E’ una letteratura senza lo slancio collettivo dei grandi soggetti storici che segnarono i romanzi dell’Ottocento, quando la narrazione fungeva da scuola per una borghesia in ascesa che se ne serviva per imporre e legittimare un nuovo stile di vita laico e produttivo. Anni dopo il grande soggetto sociale della narrativa fu un proletariato furioso che spirava a trasformare il gioco di equilibri del mondo e inseguiva il sogno della rivoluzione. La letteratura degli ultimi tempi non ha nemmeno suscitato una vertigine sperimentale, come accadde negli anni tra le due guerre mondiali, epoca di “ismi” e avanguardie. Lo scrittore, dimentico delle questioni collettive, vive il mondo esterno solo come un mercato nel quale esibirsi per mettersi in vendita»16.

La diseguaglianza regna sovrana e aumenta. La propaganda dominante invocare la meritocrazia come risposta e spiegazione alle diseguaglianze di reddito. La classe agiata, meritocraticamente motivata e giustificata per dono divino, aumenta la sua influenza, il suo potere ed è in grado di plasmare con i suoi valori il discorso pubblico, promuovendo il concetto di ambizione personale. Invidia e rancore diventano sentimenti da rovesciare sul vicino di casa, di lavoro, di etnia, di genere e non più sui potenti che governano. Nella nuova piccola-grande narrazione la lingua che dovrebbe servire per nominare le cose, i fatti, invece serve per nasconderli. La disgregazione di quella che si autonominava società del benessere nei Trenta gloriosi si abbatte sui ceti popolari il cui impoverimento è dovuto ai processi più generali di precarizzazione del lavoro e di riduzione della protezione sociale pubblica con le dinamiche di esclusione. La nuova narrazione fatica a prendere atto di questa realtà in cui viviamo o non vuole prenderne atto? Di certo non compie alcun sforzo di conoscenza, non ci prova neanche, devia da questo processo di apprendimento verso lidi più “sereni”: chiacchiere intimistiche e private circa il malessere esistenziale del soggetto, preso da una piccola vita di piccole relazioni private dove si parla molto, ma si conclude poco o niente. Così dopo pagine e pagine di racconto e svisceramento di incoscienze, dopo film-chiacchiera su ciò che penso, sento, credo che sia, provo o non provo, si scopre che a nulla è servito, che la storia così com’è cominciata si è anche conclusa, che si è perso tempo a cercare (cosa non si sa) e non si è trovato nulla. Essi esprimono e divulgano lo scetticismo passivo della borghesia, non impegnano a nulla,

«non chiamano in nessun luogo, né a destra né a sinistra. Non fanno che registrare. Esprimono la psicologia di un’impasse storica. Non si sa dove andare. Non si sa in che sperare. Che resta? Un po’ di illusioni, un po’ di romanticismo, la gioia delle belle forme e delle inattese combinazioni. Ma le illusioni sono fragili, il romanticismo non si addice alla nostra età, e ogni goccia di romanticismo va disciolta in un boccale di cinismo»17 .

Il mercato ha fatto di questa narrazione un affare. Oggi il narratore contemporaneo per reggere sul mercato deve scrivere un libro ogni due anni: «le risorse umane, la creatività, l’invenzione, la capacità di riflessione diventano impari rispetto a una macchina così veloce», sostiene Albero Asor Rosa, e a chi gli obietta che anche Balzac o D’Annunzio erano scrittori prolifici, risponde così: «oggi il meccanismo è rovesciato: la produttività di Balzac regolava i ritmi della produzione editoriale, oggi è la macchina produttiva editoriale che regola la produzione dell’autore»18. La questione sociale è stata rimossa è marginalizzata nella nuova narrazione, quelli che se ne occupano sono pochi e non sfondano il silenzio dispotico dei mezzi d’informazione. Forse un po’ di coraggio nel definire il tema di un racconto o l’oggetto di una ricerca non guasterebbe e porterebbe a riscoprire e rispolverare con urgenza termini come «sfruttamento e lotta di classe», i quali

potrebbero esserci utili nel presente e nel futuro prossimo19. Di fronte a questo stato di cose viene in mente l’appello col quale Elio Vittorini apriva il primo numero de «Il Politecnico» nel 1945. Abbiamo bisogno, scriveva,

«non più di una cultura che consoli nelle sofferenze ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini. Occuparsi del pane e del lavoro è ancora occuparsi dell’”anima”. Mentre non volere occuparsi che dell’“anima” lasciando a “Cesare” di occuparsi come gli fa comodo del pane e del lavoro, è limitarsi ad avere una funzione intellettuale e dar modo a “Cesare” di avere una funzione di dominio “sull'anima”»20.

In fondo il destino dello scrittore e dell’intellettuale non è diverso da quello dei lavoratori, sono stati espropriati dei loro mezzi di produzione, sono diventati dei salariati-precari, la cui intelligenza o creatività diventa merce da commerciare con profitto. L’alienazione è percepita, il disagio e la sofferenza pure, ma spesso si ritorce in un «atteggiamento elegiaco, un modo come un altro per rifugiarsi nelle proprie debolezze. E’ una maniera elegante di sentirsi oppressi»21.

Pubblicato sulla rivista «Il Ponte», n. 3, marzo, 2016

Note
1 Daniel Bensaid, Elogio della politica profana, Roma, Edizioni Alegre, 2013, p. 5
2 Johan Huizinga, La crisi della civiltà, Torino, Einaudi, 1978, p. 140
3 Karl Marx, Miseria della filosofia, Roma, Editori Riuniti, 1998, p. 78
4 G. D’Annunzio, Il piacere, Milano, Mondadori, 1995, p. 35
5 Lev Trotsky, Letteratura e rivoluzione, Torino, Einaudi, 1973, p. 429
6 Jean Clair, intervista, I manager sono la rovina dei musei, «La repubblica», 21 agosto 2015
7 Livio Maitan, Anticapitalismo e comunismo, Napoli, Cuen, 1992, p. 7
8 Andrea Grignolio, I superstizioni sono tornati, «Tutto scienze», supplemento a «La Stampa», 30 aprile 2014
9 Massimo Gramellini, Fatti più in là, «La Stampa», 23 ottobre 2014
10 Gabriele D’Annunzio, Il piacere, Milano, Mondadori, 1995, p. 147
11 Lev Trotsky, Letteratura e rivoluzione, Torino, Einaudi, 1973, p. 262
12 Intervista Hartmut Rosa, a cura di Claudio Gallo, «La Stampa», 5 giugno 2015, in occasione dell'uscita del suo libro Accelerazione e alienazione, per una teoria critica della tarda modernità, Torino, Einaudi, 2015
13 Cfr., Jonathan Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Torino, Einaudi, 2015 14
14 Lev Trotsky, Letteratura e rivoluzione, Torino, Einaudi, 1973, p. 289. Al posto del pensiero critico ci ritroviamo col pensiero neoliberale, un’ideologia strettamente connessa «all’irresistibile ascesa della stupidità al potere» (Luciano Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi, Torino, Einaudi, 2015, p. 6)
15 Cfr. K. Marx, introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/2/criticahegel.htm
16 Rafael Chirbes, Se non dà scandalo che letteratura è?, «La Stampa», 30 giugno 2015
17 Lev Trotsky, Letteratura e rivoluzione, Torino, Einaudi, 1973, p. 382
18 Scrittori e massa è la testimonianza di una sconfitta, intervista a Albero Asor Rosa, a cura di Marco Palombi, «Il fatto quotidiano», 3 settembre 2015
19 Rafael Chirbes, Se non dà scandalo che letteratura è?, «La Stampa», 30 giugno 2015
20 Elio Vittorini, Una nuova cultura, «Il Politecnico», n. 1, 29 settembre 1945
21 C. Wright Mills, L’immaginazione sociologica, Milano, Il Saggiatore, 1962, pp. 216-217 

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