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sebastianoisaia

La violenza (di classe) come essenza dello stato

Sull’anticapitalismo “anarco-capitalista” di Michael Huemer

di Sebastiano Isaia

L’umanità al suo livello più alto non ha
bisogno di uno Stato (Arthur Schopenhauer)

000867Se l’essenza dello Stato è la violenza: è questo l’ammiccante – ovviamente agli occhi di chi scrive – titolo che Nicola Porro, o chi per lui, ha voluto dare a un suo articolo inteso a dar conto del pensiero politico-filosofico di Michael Huemer, autore di un libro, pubblicato nel 2013 negli Stati Uniti, che è diventato subito un punto di riferimento dottrinario ineludibile per i sostenitori di una società capitalistica in grado di fare a meno dello Stato, giustamente concepito come una presenza non solo ingombrante e oppressiva sotto ogni rispetto (a partire, ovviamente, da quello fiscale) (1), ma necessariamente violenta. Il titolo del libro di Huemer recita: Il problema dell’autorità politica (Liberilibri, 2015); il sottotitolo è, come si dice, tutto un programma: Un esame del diritto di obbligare e del dovere di obbedire. Diritto di obbligare, dovere di obbedire: capito il concetto? Scrive Porro:

«Il testo ci spiega su cosa si fonda questa benedetta autorità politica e il suo strumento ultimo, che è la coercizione. In un esempio illuminante, in fondo, Huemer ci dice che si finisce sempre con la violenza fisica. La catena degli ordini di uno Stato su questo si basa. Se non rispetto il semaforo rosso mi fanno una multa. Se non pago la sanzione, la ingigantiscono, magari togliendomi la patente. Se continuo a girare senza patente, mi fermano. E poi magari mi arrestano. Infine, se non accetto di essere tradotto in cella, qualcuno dovrà pur strattonarmi per un braccio, come minimo, e ficcarmi nell’auto che mi porterà in galera. Certo tutto è fatto da un’organizzazione terza, e tutto è concepito con una procedura, che possiamo definire democratica» (2).

Il fatto è che siamo talmente abituati a questa prassi fatta di controlli, sanzioni e procedure, che lo stesso esempio esposto da Porro ci appare assolutamente banale, ossia non degno di una riflessione politico-filosofica: cosa dovrebbe fare lo Stato, se non punire chi non rispetta le leggi? Il senso reale, più profondo, del meccanismo coercitivo sfugge alla riflessione comune, anche perché molti pensano, esattamente come il bravo giornalista del Giornale, che l’apparato chiamato (da chi? da che cosa?) a gestire il controllo sociale e la repressione dei comportamenti ritenuti (da chi? da che cosa?) illegali sia «un’organizzazione terza», non abbia, cioè, una natura politico-istituzionale tale che possa avvantaggiare qualcuno e penalizzare qualcun altro.

Leggo dalla Nota dell’editore:

«È l’Autore stesso a formulare la domanda: “Questo libro è pericoloso?” e a ritenere sensato il dubbio “se forse questo libro è un male e se, forse, sarebbe stato meglio non scriverlo”. Giriamo volentieri al lettore l’interrogativo, che sebbene posto in forma presumibilmente – ma non sicuramente – retorica, ci ha provocato un attimo, solo un attimo, di perplessità. Ovviamente, chi sta leggendo, per il fatto stesso di avere davanti ai suoi occhi questa Nota ha già indovinato quale sia stata la nostra risposta: non è un male, tutt’altro. Proprio perché pensiamo che possa essere un bene l’abbiamo pubblicato. Infatti, forse, non tutti i cittadini sono consapevoli dell’inganno su cui si fonda il principio di “autorità politica” che perpetua il potere degli Stati e la servitù volontaria dei cittadini-sudditi, e che è ancora utile indagare sui presupposti etici dell’essenza e dell’attività della istituzione Stato».

Per meglio comprendere la perplessità, affermata in chiave più o meno retorica, dall’autore e ripresa seriamente dall’editore, è sufficiente aggiungere che lo studioso californiano si pone senza alcun infingimento il problema circa la possibilità di abolire lo Stato; come vedremo, per Huemer la cosa non è solo necessaria, sotto ogni rispetto (economico, etico, psicologico), ma è anche senz’altro possibile. Tra poco vedremo i termini reali della questione.

È evidente che un nemico dello Stato borghese, in ogni sua possibile accezione e configurazione politico-istituzionale (democratica, autoritaria, totalitaria), qual è chi scrive, non poteva rimanere indifferente nei confronti di questi pochi ma potentemente suggestivi richiami concettuali, tanto più se l’attacco al Leviatano giunge dalla sponda opposta da quella dalla quale egli scaglia le sue poche e fragili frecce anticapitalistiche – tanto per cominciare, il filosofo americano probabilmente giudicherebbe alla stregua di paccottiglia ideologica la qualifica borghese aggiunta allo “Stato” e il mio dichiarato (esibito?) anticapitalismo. Si tratta di una provocazione intellettuale, di un invito a nozze a cui è quasi impossibile resistere. Insomma, per farla breve, ho cercato di approfondire la conoscenza di Huemer, il cui nome mi era noto solo per “sentito dire”. Il suo libro non l’ho ancora letto, cosa che conto di fare al più presto; però ho letto parecchio “materiale” di e su Huemer, sufficiente, credo, a consentirmi di abbozzare una prima impressione intorno alla sua concezione del sociale e del politico, cosa che mi ha consentito di riprendere concetti da me trattati estesamente in altri “lavori” – vedi, ad esempio, Eutanasia del Dominio, L’Angelo nero sfida il Dominio, Stato di diritto e democrazia tra mito e realtà.

Il post che oggi sottopongo all’attenzione del lettore si basa soprattutto su una sintesi del libro di Huemer che si può compulsare in formato PDF – www.tramedoro.eu. Più che esternare il mio punto di vista sulla natura e sulle funzioni dello Stato (borghese), ho cercato di mettere insieme del materiale concettuale interessante su cui riflettere, e ciò spiega le lunghe citazioni che costituiscono il corpo di questo “pezzo”. «Questo libro è un bell’esercizio di logica e un’ottima sfida ai nostri pregiudizi», sentenzia Porro; spero che la mia critica sia all’altezza della situazione.

La punta della lancia antistatalista (più precisamente: anarco-capitalista) di Huemer è puntata contro

1. il potere monopolistico della violenza esercitato dallo Stato (al contrario di ciò che afferma la teoria del Contratto sociale e di quanto pensava Hobbes, il monopolio della violenza, non la sua mancanza, genera ogni sorta di abuso e di arbitrio);

2. il culto dello Stato basato sui falsi presupposti architettati dalla dottrina del Contratto sociale;

3. la psicologia dell’autorità che per Huemer si spiega benissimo ricorrendo al concetto di Sindrome di Stoccolma:

«Quando diviene sufficientemente radicato, il potere viene percepito come autorità» (3). «È un comportamento istintivo, una sorta di riflesso condizionato, comprovato peraltro da una nutrita serie di esperimenti analitici, e avvalorato dalla quantità degli studi scientifici che sono stati condotti, nel corso degli anni, al fine di sondare le dinamiche psicologiche e sociologiche che promuovono certi atteggiamenti di totale sudditanza. In alcuni casi, nota Huemer, i cittadini sono soggetti a sviluppare nei confronti dello Stato gli stessi sintomi delle persone colpite dalla Sindrome di Stoccolma, quello sconcertante meccanismo psicologico, osservato numerose volte e dettato forse dall’istinto di sopravvivenza, che porta gli ostaggi a solidarizzare con i rapitori. Infatti, quando una persona è completamente assoggettata a un’altra e non ha alcuna possibilità di fuga, l’unica sua speranza di salvezza consiste nel creare un rapporto di amicizia con il proprio sequestratore. Inconsapevolmente la vittima del sequestro finisce per sviluppare un sentimento di simpatia verso il proprio carnefice, e si illude di vedere in lui dei segni di gentilezza, anche solo sotto forma di mancanza di abusi. In maniera del tutto analoga, molte persone tartassate, maltrattate o angariate dallo Stato continuano a pensare, a dispetto dell’evidenza contraria, che il proprio Stato sia fondamentalmente buono perché offre qualche servizio, per quanto scadente, o perché non abusa del proprio potere quanto altri Stati nella storia: “proprio come le vittime di Stoccolma tendono a negare o a minimizzare gli atti di coercizione dei propri sequestratori, molti cittadini tendono a negare o a minimizzare la coercizione del proprio governo” (p. 215)» (4).

Molto interessante suona alle mie orecchie lo scabroso – non certo per chi scrive, tutt’altro! – accostamento tra lo Stato e una qualsiasi organizzazione criminale azzardato da Huemer:

«In cosa si sostanzierebbe l’elemento che distingue l’azione dello Stato da quella di una qualsiasi organizzazione criminale che, in forza del ricorso alla violenza, alle minacce e al ricatto, cerca di imporsi e di imporre coercitivamente la fornitura dei propri “servizi” al resto dei consociati? Per l’autore, la risposta è semplice e si esprime con un concetto ben preciso: “legittimità”. È proprio in virtù di questo specifico fattore, capace di innescare nelle masse un invincibile convincimento fideistico, che lo Stato viene universalmente considerato come un ente eticamente accettabile ed ontologicamente necessario: a differenza, ad esempio, della mafia».

Si tratta allora di capire il fondamento sociale di questa legittimità, di comprendere cosa l’ha resa – e la rende – storicamente possibile e socialmente necessaria. In ogni caso, sulla natura criminale dello Stato con me Huemer sfonda una porta non aperta, ma apertissima, e personalmente ho sempre considerato la mafia, come ogni altro tipo di organizzazione criminale illegale (illegittima), alla stregua di un’impresa capitalistica che, come ogni altra impresa che vuol rimanere sul mercato, organizza la sua prassi in vista del profitto. D’altra parte, «sfruttatori condottieri, nobili, leghe, hanno sempre protetto e nello stesso tempo taglieggiato chi dipendeva da essi. Sorvegliavano nel loro dominio la riproduzione della vita. la protezione è l’archetipo del dominio» (5).

Ciò che ai miei occhi “fa premio” nella valutazione del fenomeno mafioso non è il mezzo usato dalla mafia per conseguire certi risultati, ma, appunto, il fine che rappresenta la stessa ragion d’essere dell’organizzazione criminale. Ed è precisamente questa ragion d’essere che rende perfettamente assimilabile la mafia alle organizzazioni “convenzionali” che hanno nel profitto – e nella difesa dei rapporti sociali che rendono possibile l’esistenza del profitto: vedi lo Stato – il loro scopo, il loro essenziale movente. Com’è abbastanza facile capire, la mafia non si spiega, in linea di principio, con l’uso della violenza, che ha una funzione strumentale, ma con il potere totalitario del denaro, per ottenere il quale ogni mezzo è legittimo sul piano della prassi storico-sociale. In senso generale, si può senz’altro dire che le organizzazioni orientate al profitto/denaro considerate criminali dallo Stato rappresentano la continuazione del Capitalismo con mezzi particolari, sotto un particolare regime sanzionatorio. È oltremodo evidente che la prassi delle organizzazioni criminali deve, a volte, entrare in rotta di collisione con l’organizzazione che detiene il monopolio sociale della violenza, la quale difende gli «interessi generali della intera classe borghese, espressi in leggi borghesi» (6); ma ciò costituisce un dettaglio nella complessità della cosa. So benissimo di affermare tesi che urtano assai il politically correct, e che forse inciampano su qualche Articolo del creativo codice penale italiano (basti pensare al famigerato “concorso esterno”); tesi che fanno rabbrividire chi è abituato a pensare in termini di Stato (buono) e Antistato (cattivo), distinzione che personalmente trovo ridicola; ma dire la verità sulla cattiva società è il solo principio etico che mi sforzo di praticare.

«Un argomento di tipo più utilitarista afferma che se molti cittadini si rifiutassero di obbedire alle leggi e di pagare le tasse lo Stato crollerebbe lasciando la società nel caos più completo. Il risultato, secondo la spaventosa descrizione dello stato di natura fatta da Thomas Hobbes nella sua celeberrima opera Il Leviatano (1651), sarebbe la guerra costante di tutti contro tutti. Non ci sarebbero industria, commercio o cultura, perché ognuno cercherebbe di depredare il prossimo e vivrebbe con la paura costante di una morte violenta. L’autorità politica è dunque giustificata dalla necessità di impedire le terribili conseguenze derivanti dall’assenza di un governo. Questo scenario catastrofico sembra però poco realistico, anche perché non è facile portare degli esempi storici a suo sostegno. Le famiglie e gli individui che convivono in aree isolate, lontane dalle istituzioni governative, normalmente non si comportano nel modo ipotizzato da Hobbes. In tali circostanze aggredire i propri vicini per rapinarli sarebbe un comportamento veramente illogico. I rischi di attaccare qualcuno dotato di una forza analoga alla propria superano di gran lunga i benefici, perché l’aggredito o i suoi famigliari potrebbero difendersi o reagire in ritorsione. Gli atteggiamenti violenti inoltre suscitano la diffidenza degli altri abitanti, che adotterebbero misure preventive. La verità è che, con buona pace di Hobbes, la maggior parte degli esseri umani non è sociopatica, ma desidera vivere in pace col prossimo. La grande maggioranza delle persone ha forti obiezioni morali e forti sentimenti negativi nei confronti della violenza e del furto, e quando la prudenza e la morale puntano verso la stessa direzione, osserva Huemer, praticamente tutti sceglieranno quel percorso. La stragrande maggioranza degli individui preferisce vivere in pace con il suo prossimo, trova più vantaggioso e profittevole collaborare e cooperare con lui, e reputa una strategia dominante il produrre, comprare, vendere, scambiare con mutuo profitto beni, informazioni e risorse, anziché ricorrere a soluzioni violente e conflittuali. Il principio strategico generale, spiega Huemer, è che l’uguaglianza di potere genera il rispetto. Nessuna persona razionale ha interesse a entrare in un conflitto violento con avversari che hanno la stessa forza. Le probabilità di perdere il conflitto sono troppo alte» (7).

In sostanza, Huemer immagina una società civile composta esclusivamente da capitalisti, più o meno grandi, i quali si scambiano fra loro beni e servizi in piena armonia: il migliore dei mondi possibili, insomma.

«Per il borghese le cose stanno realmente così: egli crede di essere un individuo solo in quanto è un borghese. i teorici della borghesia dànno a questa tesi un’espressione generale, identificano anche teoricamente la proprietà del borghese con l’individualità e vogliono giustificare logicamente questa identificazione» (8).

La società civile come hobbesiano mondo degli interessi tematizzata dalla migliore filosofia politica borghese dal XVI secolo in poi è un concetto che non riscuote il consenso del Nostro filosofo, il quale ripone grande fiducia nell’orientamento verso il bene della «maggior parte degli esseri umani», fiducia che sconfina nell’ingenuità se il pensiero non fa i conti, non con una presunta/mitologica «natura umana», benigna o maligna che sia, ma con la natura dei rapporti sociali (benigni o maligni, ossia umani o disumani) che informano i nostri comportamenti, che plasmano in modo sempre più stringente la nostra intera esistenza.

Per parafrasare Hegel (9), il Dominio rende possibile l’ingresso dello Stato nel mondo, la cui presenza attesta nel modo più categorico l’assenza in questo mondo dell’uomo in quanto uomo. «L’unica società nella quale lo sviluppo originale e libero degli individui non è una frase» 457 è quella «che sollecita le capacità degli individui a svilupparsi realmente», cosa che presuppone il passaggio dell’intera prassi sociale, a cominciare dalle attività che rendono possibile la vita stessa degli individui (la produzione di cibo, vestiti, abiti, strumenti di lavoro), «sotto il controllo degli individui» stessi (p. 291). Premessa ineludibile di ciò è il superamento della divisione classista della comunità umana, e l’estinzione dello Stato attesterà il raggiungimento di questa straordinaria meta, la quale in linea di principio è perfettamente concepibile e realizzabile, nonostante essa ci appaia, e sia in realtà, negata tutti i santi giorni nel modo più netto, tale da lasciare ben poco spazio alla speranza. E qui fanno capolino il poeta: «Un imprevisto è la sola speranza. Ma mi dicono che è una stoltezza dirselo» (E. Montale, Prima del viaggio), e il profeta: «Dobbiamo farci speranza, essere noi stessi quella speranza che il mondo ci nega in modo così ottuso e brutale» (Isaia).

A questo punto l’obiezione “classica” dell’antistatalista, a maggior ragione se orientato in senso anarco-capitalista, è più che giustificata: «Abbiamo visto come è andata a finire in Russia, in Cina e ovunque i comunisti si sono impossessati del potere». Se l’obiezione è fondata nei confronti dei cosiddetti “comunisti” nostalgici del mondo perduto centrato sul bipolarismo imperialistico Stati Uniti-Unione Sovietica, essa non sfiora neanche la posizione di chi ha sempre condannato i regimi cosiddetti socialisti, denunciandone la natura rigorosamente capitalistica (10). Dal pulpito dell’antistalinismo radicale è facile cogliere nell’arco-capitalismo e nello stalinismo le facce di una stessa cattivissima medaglia – chiamata dominio capitalistico.

Scriveva Max Stirner nel suo famoso libro del 1844 (L’unico e la sua proprietà): «Il modo di procedere dello Stato è violenza, ed esso lo chiama diritto. Ma la violenza dell’individuo esso la chiama delitto». Giustissimo. A suo tempo Marx non scriveva cose diverse. Ciò che il comunista tedesco non condivideva della riflessione stirneriana era la sua inconsistenza storica e sociale, ossia il fatto che i reali rapporti sociali e il reale processo storico non vi avessero il posto che invece essi meritavano ai fini della comprensione dello Stato in generale, e del moderno Stato borghese in particolare. La società moderna come società borghese non trovò in Stirner un adeguato approfondimento critico. A causa di questo grave limite teorico la critica stirneriana non andava molto al di là dagli acquisti concettuali ottenuti dalla dottrina hegeliana dello Stato e del diritto.

«Si tratta qui, ancora una volta, soltanto del fatto che ci si deve cacciare dalla testa l’idea fissa dello Stato. Jacques le bonhomme [cioè Stirner] continua sempre a sognare che lo Stato sia una semplice idea, e crede nel potere autonomo di questa idea dello Stato. Egli è il vero “credente dello Stato”. Hegel idealizzava la rappresentazione che dello Stato avevano gli ideologi politici, […] e Jacques le bonhomme prende bona fide questa idealizzazione dell’ideologia per la concezione giusta dello Stato e la critica»  (11).

Com’è noto, secondo Hegel la società civile non costituisce il presupposto dello Stato, ma piuttosto è vero il contrario:

«Il reale rapporto della famiglia e della società civile con lo Stato è inteso come interna, immaginaria attività dello Stato. Famiglia e società civile sono i presupposti dello Stato, sono essi propriamente attivi. Ma nella speculazione diventa il contrario: mentre l’idea è trasformata in soggetto, quivi i soggetti reali, la società civile, la famiglia, “le circostanze, l’arbitrio” ecc., diventano dei momenti obiettivi dell’idea, irreali, allegorici» (12).

Nella posizione stirneriana Marx coglie l’ingenua illusione di una fuga individuale dall’oppressiva totalità sociale quale si dà nella moderna società borghese – degli anni Quaranta del XIX secolo: figuriamoci oggi! Il comunista di Treviri non attacca l’ideologia dell’Unico perché centrata sull’individuo, come hanno sostenuto anche molti “marxisti”, dimostrando con ciò stesso di non aver letto, non dico capito, L’Ideologia tedesca; bensì in quanto in essa l’individualismo è radicato su una concezione astorica della società e su una concezione volgare («triviale») del comunismo, il cui concetto era nel pensiero stirneriano «tanto miserevole che può avere importanza soltanto nella società odierna e nella sua immagine ideale». Per questo l’individualismo di «San Max» appariva a San Marx gravato di pessimi pregiudizi piccolo borghesi, mentre si trattava di ricavare l’urgenza di un assetto umano della Comunità dal reale processo storico-reale, e non da astratti e storicamente infondati principi ideali (13). Sulla polemica Marx-Stirner rinvio a Eutanasia del Dominio.

Sullo Stato, e su tutto il resto, Loretta Napoleoni la pensa in maniera assai diversa da quanto finora sostenuto:

«La genesi dello stato-nazione è la storia del contratto sociale attraverso il quale gli individui creano le nazioni e ne preservano all’interno l’ordine sociale. I presupposti di tale contratto dipendono dalla volontà dei cittadini di cedere alcuni diritti al governo in cambio della garanzia di pace e stabilità. La legittimità dei politici nasce quindi dalla volontà del popolo di ratificare il contratto sociale. Alla radice del contratto sociale c’è il caos dello stato di natura, sinonimo di anarchia. In tale stato non esiste la nozione di diritto. […] L’economa canaglia, caotica, anarchica e illegale, ricorda lo stato di natura» (14).

Qui la concezione pattizia che fonda sul piano politico-ideologico il potere delle classi dominanti non poteva essere esplicitata in termini più chiari e semplici, e forse con intenti pedagogici. Alla radice del cosiddetto contratto sociale ovviamente non c’è «il caos dello stato di natura», ma precisi rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, per tutelare i quali i dominanti si sono legittimamente impossessati del monopolio della violenza (usato anche come potente strumento di accumulazione capitalistica originaria), imposto ai dominati col crisma della difesa del «bene comune» e della comune Civiltà. La genesi del moderno Stato-Nazione è la storia della moderna «società civile», spinta dal processo sociale sul terreno delle grandi aspirazioni storiche, ben oltre i vecchi limiti feudali e comunali. «La società civile è il campo di battaglia dell’interesse privato individuale di tutti contro tutti», scriveva Hegel; «la definizione della società civile come bellum omnium contra omnes è notevole», chiosava Marx (15), che aggiungeva:

«Poiché lo Stato è la forma in cui gli individui di una classe dominante fanno valere i loro interessi comuni e in cui si riassume l’intera società civile di un’epoca, ne segue che tutte le istituzioni comuni passano attraverso l’intermediario dello Stato e ricevono una forma politica. Di qui l’illusione che la legge riposi sulla volontà e anzi sulla volontà strappata dalla sua base reale, sulla volontà libera. Allo stesso modo, il diritto a sua volta viene ridotto alla legge» (16).

Nel Capitalismo, ossia nella società più selvaggia e violenta che sia mai comparsa sulla faccia della Terra, il Diritto e la Politica devono necessariamente assecondare i processi sociali che disegnano sempre di nuovo il territorio della «società civile», ossia il luogo hobbesiano degli interessi materiali. Canaglia, per riprendere il titolo del libro scritto ormai otto anni fa dalla Napoleoni, è l’economia capitalistica tout court, dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Russia al Brasile, dalla Svezia al Sudafrica.

«Huemer contesta l’idea che l’abolizione dello Stato sia utopistica. La distinzione tra utopismo e realismo, infatti, non dipende da quanto una proposta sia lontana dallo status quo o di quanto sia lontana dalle tendenze dominanti del pensiero politico. La distinzione tra utopismo e realismo riguarda principalmente se un’idea politica o sociale richiede delle violazioni della natura umana. Per questa ragione sono il socialismo e lo statalismo, e non l’anarco-capitalismo proposto da Huemer, che presentano dei caratteri utopistici, a partire dall’eccessivo affidamento sull’altruismo dei governanti».

Naturalmente al filosofo americano, che evidentemente conosce solo il “socialismo” di matrice stalinista/maoista, sfugge completamente, o semplicemente lo nega, il presupposto storico-sociale fondamentale della genesi e dell’esistenza dello Stato: la divisione degli individui in classi sociali, o, detto in altri termini, il rapporto sociale di dominio e di sfruttamento (essendo l’uno il necessario presupposto dell’altro) nei confronti del quale lo Stato svolge la vitale funzione di cane da guardia, oltre ad altre funzioni che potenziano le capacità di dominio (materiale, ideologico, psicologico) delle classi che vivono dell’altrui lavoro, da esse sfruttato nei modi consentiti dal processo storico – dalla schiavitù “classica” alla «schiavitù salariale». E qui il lettore mi consenta una citazione intesa a riprendere le tesi da me sviluppate due settimane fa contro la Costituzione Italiana e la «Repubblica democratica fondata sul lavoro» (salariato): «Lo stato moderno, il dominio della borghesia, è fondato sulla libertà del lavoro. […] La libertà del lavoro è la libera concorrenza fra gli operai. […] Il lavoro è libero in tutti i paesi civili; non si tratta di liberare il lavoro, ma di abolirlo» (17). Qui è appena il caso di precisare che si tratta non di generico lavoro, ma del lavoro salariato che fa dell’intera esistenza dei salariati una merce e della loro capacità lavorativa un valore d’uso nella legittima disponibilità dei capitalisti. Chiudo la breve parentesi “anticostituzionale”.

Non volere lo Stato senza mettere in questione i suoi fondamenti storico-sociali è più che una contraddizione: è una sciocchezza al contempo reazionaria e infantile – o ingenua. In realtà, e checché ne pensi l’interessato, la chimera anarco-capitalista di Huemer, lungi dal prefigurare «l’abolizione dello Stato», si limita a portare acqua al mulino della battaglia per uno “Stato minimo”, uno Stato ridotto all’osso (chiamato a gestire solo quelle poche funzioni che non possono essere affidate ai privati: in particolare difesa, giustizia e polizia), da sempre caro ai liberisti; essa si colloca insomma all’interno della secolare disputa tra liberisti e statalisti, tra sostenitori del libero mercato e sostenitori del Capitalismo fortemente regolamentato dallo Stato. Scrive Maurizio Stefanini: «L’interesse crescente per l’anarco-capitalismo dimostra come anche negli Stati Uniti il più liberale degli apparati statuali inizia a essere percepito come troppo apparato, troppo statuale e troppo poco liberale» (18). Come per lo statalista ideologico c’è sempre troppo “privato” anche in regime di Capitalismo di Stato, analogamente per il liberale/liberista ideologico c’è sempre troppo “pubblico” anche in regime di “liberismo selvaggio”. «Sdegnato dagli anarco-collettivisti», continua Stefanini, «l’anarco-capitalismo è però in qualche modo un anarchismo più conseguente. Non difende infatti le ragioni dell’individuo solo dallo stato, ma anche dalla comunità in cui si trova inserito». In questo scritto sto provando a cogliere i limiti, diciamo così, di questa “difesa”.

La mia condanna del Leviatano si fonda sul presupposto fin qui abbozzato, il quale segna l’abissale distanza che separa il mio punto di vista “antistatalista” da quello di Huemer, il quale concepisce lo Stato come una sommatoria di servizi da esso arbitrariamente assunti in regime di monopolio:

«Secondo l’opinione dominante solo lo Stato può fornire beni e servizi basilari per il consorzio civile, come la sicurezza, la giustizia, la protezione contro le aggressioni esterne, la realizzazione di infrastrutture indispensabili, l’assistenza e la tutela delle persone più deboli e indifese. […] I servizi di protezione e polizia potrebbero essere erogati da agenzie di sicurezza private, in regime di concorrenza; la risoluzione delle controversie potrebbe essere affidata al giudizio di un arbitro terzo, scelto di comune fiducia tra le parti; le strade e le altre infrastrutture potrebbero essere gestite e mantenute da gruppi e/o da associazioni di proprietari locali, come spesso accade in alcune “privatopie” statunitensi; le leggi potrebbero essere prodotte e generate nell’ambito della conduzione della stessa attività di arbitraggio, sulla falsariga di quanto già ora accade nei sistemi di common law. […] “Il modello di transizione più plausibile è quello in cui le società democratiche si muovano gradualmente verso l’anarco-capitalismo con il progressivo appalto esterno delle funzioni statali a società concorrenti. Non esistono altri ostacoli salvo l’opinione pubblica e l’inerzia degli Stati medesimi” (p. 507)» (19).

Sperare che il Leviatano collabori alla propria estinzione mi sembra, a occhio, una pretesa eccessiva. Ma posso sbagliarmi, si capisce. Come vediamo, alla fine il discorso di Huemer si riduce all’affermazione della necessità di privatizzare le funzioni oggi svolte dallo Stato, senza che la natura classista di queste funzioni ne risulti intaccata minimamente. E ciò è perfettamente coerente con il punto di vista anarco-capitalista.

Scrive Huemer:

«Una versione più modesta delle condizioni di onnicomprensività e di indipendenza dai contenuti sosterrebbe che lo Stato non ha reale autorità salvo che almeno la maggioranza delle cose che di solito fa e che generalmente si considera sia autorizzato a fare risulti in effetti moralmente ammissibile. Se la gamma di azioni coercitive che lo Stato è in effetti autorizzato a compiere è solo una piccola frazione di ciò che effettivamente fa, allora penso che lo Stato non ha una vera autorità legittima» (20).

Ma cosa conferisce allo Stato «una vera autorità legittima»? Il diritto delle classi dominanti a conservare, rafforzare ed espandere il loro potere sociale. Come ho scritto altre volte, il diritto equivale a forza, di più: il diritto è forza (materiale, politica, culturale, ideologica, psicologica, in una sola parola: sistemica). Scriveva Marx:

«Gli economisti borghesi vedono soltanto che con la polizia moderna si può produrre meglio che, ad es., con il diritto del più forte. Essi dimenticano soltanto che anche il diritto del più forte è un diritto, e che il diritto del più forte continua a vivere sotto altra forma nel loro Stato di diritto» (21).

Come già sostenuto, l’ideologia pattizia, che pone lo Stato (con tanto di spada sguainata per scoraggiare i nemici interni ed esterni della Nazione) nella funzione di supremo garante del Contratto sociale, cela la natura di classe dello Stato borghese. Sotto questo aspetto, la forma democratica dello Stato è quella che meglio si presta a mistificare la realtà del Dominio.

Il diritto sanziona sul piano politico, giuridico, normativo e ideologico la realtà del dominio di classe. E siccome, come scriveva Lenin (in Stato e rivoluzione), «il diritto è nulla senza un apparato capace di costringere all’osservanza delle sue norme», ne ricaviamo la necessità, ai fini del mantenimento dello status quo sociale, del Moloch chiamato appunto Stato.

Il punto di vista critico-radicale mette in questione gli stessi concetti di legalità e illegalità declinati sulla scorta di una concezione pattizia (contrattualistica, insomma borghese) delle relazioni sociali. Parlare, ad esempio, di responsabilità personale, in campo penale o sul terreno dell’etica, significa negare la realtà di un processo sociale che stritola ogni reale autonomia degli individui, ogni loro autentica libertà, la stessa possibilità di agire in ogni circostanza in modo umano. Parlare di libero arbitrio e di etica della responsabilità individuale nella società borghese significa fare dell’ideologia apologetica.

La dialettica tra banalità e radicalità del male a suo tempo tematizzata da Hannah Arendt, potrebbe a tal proposito suggerirci pensieri non banali e certamente radicali. Sbagliato non è il comportamento di chi infrange la legge, sbagliata, cioè disumana, è la società che non consente agli individui di vivere un’esistenza autenticamente umana, cosa impossibile in un’epoca storica in cui gli interessi economici dominano in modo sempre più stringente la vita di individui ridotti ad atomi idonei a costituire una massa.

«La massa è un prodotto sociale – non un’invariante naturale; un amalgama ottenuto sfruttando razionalmente fattori psicologici irrazionali – non una comunità posta in originaria prossimità all’individuo. Essa dà agli individui un illusorio senso di prossimità e unione: ma proprio questa illusione presuppone l’atomizzazione, alienazione e impotenza dei singoli. La debolezza obiettiva di tutti nella moderna società» (22).

È il processo sociale oggettivo che distrugge le “difese immunitarie”, per dir così, degli individui, preparandoli a un’esistenza di cittadini socialmente abili e responsabili ed esponendoli, soprattutto in situazioni socialmente critiche, al suadente canto delle sirene populiste e demagogiche d’ogni tipo e orientamento politico. Da sempre sono gli ultimi fra gli ultimi nella scala gerarchica i più esposti a queste sirene, come dimostra, fra l’altro, l’ondata sovranista, nazionalista e razzista che scuote diversi Paesi europei, e che costringe partiti e governi “progressisti”e “centristi” a cavalcare il disagio sociale con slogan e promesse elettorali che solo qualche anno fa appartenevano in esclusiva al repertorio dell’estrema destra. La miseria, il senso di precarietà, l’insicurezza generale, la paura di cadere ancora più in basso, il bisogno di razionalizzare in qualche modo l’irrazionale, insomma: la posizione sociale delle classi subalterne è tale da spingerle verso posizioni politiche, sentimenti e pulsioni contrarie al senso di umanità e alla prospettiva dell’emancipazione universale.

È «la debolezza obiettiva di tutti nella moderna società» che ci rende così disponibili alla voce del Padrone. È la struttura oggettiva degli interessi sociali che spiega la struttura psicologico-caratteriale degli individui e della massa; per il pensiero critico si tratta di imparare a cogliere le molteplici mediazioni che connettono la seconda alla prima, senza concedere nulla al facile determinismo. Qui la micologia – o microfisica, per dirla con Foucault – del Dominio può dare eccellenti supporti fattuali e concettuali.

Scrive Aldo Maria Valli:

«Vogliamo parlare del principio di responsabilità? Ogni volta che invochiamo l’intervento dello Stato, di questa astrazione senza forma né volto, non facciamo che alimentare un mito e rinforzare l’idea secondo cui qualcuno, non si sa bene chi né dove, debba risolverci i problemi. Così cresce l’inerzia, così si favorisce l’irresponsabilità personale. […] Guardiamoci attorno: a forza di delegare, ci siamo dati sistemi sociali in cui la legge ha raggiunto gradi incredibili di complessità, invadenza e prepotenza. Abbiamo leggi per tutto e la nostra vita è regolata sotto ogni minimo aspetto. Ma possiamo davvero dire di essere liberi, felici e tutelati? O non siamo invece, anche in questo caso, tenuti a bada come bambini sconsiderati e immaturi, costantemente sottoposti alla minaccia della punizione? Questa sarebbe libertà?» (23).

Ben detto. Ma il problema è ancora più radicale di quanto non appaia dai passi appena citati, frutto di una riflessione che rimane alla superficie del problema.

Nella misura in cui, per mutuare sempre indegnamente il Ragno di Stoccarda, è il tutto che dà verità, struttura e funzione a ogni particolare condizione, relazione e cosa, non può darsi reale libertà nella società che vede gli individui di tutte le classi sociali venir assoggettati da un Moloch che essi non controllano e dal quale sono invece controllati, incalzati, minacciati. E non sto parlando solo dello Stato, come invece inclinano a pensare i liberali/liberisti, ma della totalità sociale, a cominciare da quella «potenza sociale estranea e ostile» chiamata Capitale che detta le sue bronzee leggi a tutti e a tutto – Stato compreso (24). Persino i singoli funzionari del Capitale devono inchinarsi a ciò che risulta dalla complessa e altamente contraddittoria totalità della prassi economica, che essi sono lungi dal controllare e che piuttosto devono subire, come appare evidente soprattutto in tempi di crisi economica. Tutti devono inchinarsi alle mostruose – disumane – necessità del Moloch, anche se ovviamente tale sudditanza assume un significato diverso nelle differenti stratificazioni sociali: un conto è subire i diktat del mostro come dominanti, un altro è subirli nella triste qualità di dominati. La barca, per usare la nota metafora, è la stessa, ma non tutti hanno l’interesse a mantenerla a galla.

«Nonostante tutta la loro attività, gli uomini diventano più passivi, nonostante tutto il loro potere sulla natura diventano più impotenti rispetto alla società e a se stessi. La società si muove spontaneamente in direzione dello stato di atomizzazione delle masse auspicato dai dittatori» (25).

È questa radicale mancanza di potere sociale che fa degli individui degli eterni bambini alla ricerca di un’Autorità che dia loro un indirizzo preciso, una guida, un senso al complesso e il più delle volte incomprensibile (irrazionale) mondo. Come Freud capì bene, è qui che si radica quella mentalità passivamente gregaria che espone gli individui alle avventure politiche più disastrose e violente. E qui ritorniamo alla necessità di un assetto umano della Comunità.

«Finchè un uomo è nella miseria per la cattiva organizzazione sociale, l’identificazione con questo ordine in nome dell’umanità è un controsenso. L’adattamento pratico può essere inevitabile per l’individuo, ma l’occultamento dell’opposizione tra il concetto di uomo e la realtà capitalistica uccide il pensiero di ogni verità. […] Più il potere della concentrazione di capitale e l’impotenza dell’individuo sono incommensurabili, più è difficile per l’individuo svelare l’origine della sua miseria».

Qui il concetto di miseria deve essere declinato in termini squisitamente sociali (“esistenziali”, direi), e non riduttivamente materiali – economici. È in primo luogo il velo tecnologico e il velo del denaro, e non la maligna astuzia del potere politico, che concorrono a mantenere gli individui dentro il cerchio stregato del Dominio. Ancora Horkheimer:

«Oggi gli ideali possono mutare con la stessa velocità dei trattati e delle alleanze [il filosofo tedesco ovviamente non conosceva la “vita fluida” al tempo dei cosiddetti social network, quando gli “ideali” hanno la stessa scadenza dei prodotti a rapidissima deperibilità]. L’ideologia sta piuttosto nella condizione degli uomini stessi, nella loro riduzione spirituale, nel non aver altra risorsa che la dipendenza. Ogni cosa è vissuta da essi solo in rapporto al sistema concettuale convenzionale della società» (26).

Se le cose stanno così, è facile capire come l’idea secondo la quale la gestione del potere è un’incombenza troppo complessa e difficile per lasciarla nelle mani della “gente comune” si affermi quasi spontaneamente – “naturalmente” – fra le “larghe messe”, peraltro abituate fin dall’infanzia alla divisione sociale del lavoro.

La fuoriuscita dell’uomo dalla minorità di cui egli stesso è l’artefice: in questo, secondo Kant, si compendia il significato ultimo dell’illuminismo. Il progetto illuminista non poteva non fallire, giacché esso affidava l’emancipazione universale degli individui a una rivoluzione antropologica (culturale, morale, etica) che lasciava intatta quella struttura classista che li sequestrava (e continua a sequestrarli) nella dimensione disumana del lavoro sfruttato, reificato e alienante.

Il principio di autorità politica, che perpetua il potere degli Stati e la condizione di servitù volontaria dei cittadini-sudditi, non si fonda dunque, in primo luogo, sull’inganno, come pensa illuministicamente il professore dell’Università del Colorado qui preso di mira, ma su peculiari rapporti sociali. Naturalmente tutta questa riflessione non importa un fico secco al nostro anarco-capitalista, il quale vuole solo convincerci che «i servizi di protezione e polizia potrebbero essere erogati da agenzie di sicurezza private, in regime di concorrenza»: che gigantesca conquista sarebbe per l’umanità!

«Lo Stato», scrive Huemer, «viene trattato come se fosse al di sopra del mondo umano empirico, trascendendo non solo i limiti morali ma anche le forze psicologiche che si applicano agli essere umani individuali. Qualsiasi sistema sociale, sia esso anarchico o statalista, deve essere giudicato per come si comporterebbe quando abitato da persone reali, come quelle che troviamo nel mondo reale» (27).

Insomma: lo Stato non va idealizzato secondo gli schemi cari ai sacerdoti del Leviatano. Giustissimo. Ma se, come ho cercato di spiegare, prescindiamo dal considerare la struttura classista della società, con ciò che questa struttura presuppone e pone sempre di nuovo a ogni livello della prassi sociale, in ogni ambito della nostra esistenza, le «persone reali» diventano irreali, e il «mondo reale» è tale solo nella testa degli idealisti, inclusi quelli che sprizzano pragmatismo e concretezza da tutti i pori. Il «mondo umano empirico» ha una precisa dimensione storico-sociale, e non tenerne conto conduce il pensiero a farsi un’immagine ideologica di questo mondo e delle sue diverse articolazioni economiche, politiche, istituzionali. Per dirla con Hegel, se ci sfugge l’essenza del fenomeno fondiamo i nostri concetti su una cattiva empiria, e quindi la comprensione della vera natura del fenomeno ci rimane preclusa, necessariamente. Pensiamo di avere in mano la cosa concreta (il «mondo umano empirico», le «persone reali»), mentre in realtà ragioniamo sulla base di concetti astratti. Qui noi prendiamo in considerazione non il generico “uomo” concepito nella sua inessenziale nudità antropologica, l’uomo colto sottraendo dalla sua esistenza “fattuale” la sostanza storico-sociale che gli consente di non essere un incomprensibile concetto, bensì «l’uomo come si è ridotto sotto l’impero di rapporti ed elementi non umani: in una parola, dell’uomo che non è ancora un essere umano» (28). Di qui, il concetto di non-ancora-uomo, concetto che, non mi stanco di ripeterlo, non ha niente a che vedere con le utopie (meglio: le chimere) antropologiche intorno alla possibilità di un uomo “perfetto”, senza macchia né peccato, e corbellerie di simile scadentissimo conio. La “perfezione” non è di questo mondo, né dell’altro. Si tratta piuttosto di prendere seriamente in considerazione la possibilità di condizioni sociali in grado di consentire agli uomini di vivere su una Terra che non conosce le classi sociali e i rapporti di dominio e di sfruttamento che sono alla base dello Stato e, più in generale, della politica. Pensare questa possibilità significa, a mio avviso, mettersi all’altezza del processo storico-sociale oggettivo.

La falsa neutralità dello Stato emerge non in rapporto al comportamento delle «persone reali», ma in relazione alla divisione classista che attraversa la vita di queste persone: è il rapporto sociale oggi dominante su scala planetaria l’essenza che va cercata nei fenomeni che indaghiamo. Alla luce della concezione storico-classista della società e dello Stato qui solo abbozzata il pensiero di Huemer appare, oltre che ultrareazionario (esattamente come lo è il pensiero statalista che egli combatte), ingenuo fino a sconfinare nell’infantilismo.


Note
(1) «Può esserci allora democrazia senza Stato? Certo che sì. Anzi, spesso lo Stato, pur dicendosi a favore della democrazia, nei fatti la ostacola, come si vede bene in tutti i casi in cui la burocrazia statale rende difficile se non impossibile il godimento di alcuni principi democratici. Ma il grande problema resta la tassazione, che a volte assume la forma di una rapina. Forte con i deboli e debole con i forti, lo Stato pretende ma non restituisce nulla, oppure restituisce in minima parte o restituisce male. E il cittadino-suddito, sottoposto alla vessazione, non ha alcuna possibilità di far valere le sue ragioni» (A. M. Valli, Cittadini o sudditi?).
(2) N. Porro, Se l’essenza dello Stato è la violenza, Il Giornale, 5 settembre 2016.
(3) M. Huemer, Il problema dell’autorità politica, p. 215, Liberilibri, 2015.
(4) http://www.tramedoro.eu., p. 8.
(5) M. Horkheimer, Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, p. 107, Savelli, 1932.
(6) Marx-Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, p. 216, Ed. Riuniti, 1971.
(7) http://www.tramedoro.eu., p. 7.
(8) Marx-Engels, L’ideologia tedesca, p. 224.
(9) «Lo Stato è l’ingresso di Dio nel mondo, certo esso sta nel mondo ed è quindi soggetto a svisamenti e ad errori. Ma come l’uomo più odioso, un delinquente, uno storpio, un ammalato sono pur sempre uomini, così è dello Stato» (G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, p.430, Laterza, 1979).
(10) «La società della Russia aveva sostituito i capitalisti privati con l’illimitato dominio dello stato. Il nome con cui venne definito tutto questo non ha importanza, ma è chiaro che in senso strettamente marxista e rigorosamente sociologico il capitalismo di stato si era sostituito al capitalismo privato. Il concetto di capitalismo non è determinato dall’esistenza di singoli capitalisti ma dall’esistenza dell’economia di mercato e del lavoro salariato. In seguito alla crisi economica mondiale del 1929-1933, anche in Germania e in America cominciarono a verificarsi processi sociali che si svilupparono in direzione del capitalismo di stato» (W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, p. 325, Sugarco, 1982). Scrive Reich nella Prefazione a Psicologia di massa del 1942: «Bisogna dire chiaramente che anche nella Russia sovietica non esiste un socialismo di Stato, ma un rigoroso capitalismo di stato, in senso strettamente marxista. La condizione sociale di “capitalismo” secondo Marx non è data, come credono i marxisti volgari, dalla presenza di capitalisti individuali ma dalla presenza dello specifico “modo di produzione capitalistico”, e cioè dell’economia di mercato anziché dall’”economia d’uso”, dal lavoro salariato delle masse e dalla produzione di plusvalore, indipendentemente dal fatto che questo plusvalore torni a vantaggio dello stato al di sopra della società o di capitalisti individuali attraverso l’appropriazione privata della produzione sociale. In questo senso strettamente marxista in Russia esiste tuttora il sistema capitalistico» (ibidem, p. 29). Personalmente sono giunto a queste conclusioni intorno al 1979/’80, sulla scorta degli scritti della Sinistra Comunista italiana ed europea, il cui antistalinismo orientato in senso marxista rimonta alla fine degli anni Venti del secolo scorso. Cosa che, ad esempio, mi ha evitato di versare lacrime amare nel famigerato (per i nostalgici del “socialismo reale”) 1989 e negli anni della dissoluzione dell’Unione Sovietica.  Nel saggio Lo scoglio e il mare provo a spiegare come si arrivò a costruire in Russia il Capitalismo (più o meno “di Stato”) sotto le bandiere di un falso socialismo.
(11) Marx-Engels, L’ideologia tedesca, p. 356.
(12) K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, p. 26, Editori Riuniti, 1983.
(13) «Voi amate l’uomo, e perciò tormentate il singolo essere, l’egoista; il vostro amore degli uomini è tormento di essi» (M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, 1845, p. 274, Ed. Anarchismo, 1987). Nient’affatto, risponde Marx: noi desideriamo che «il singolo essere, l’egoista» diventi un uomo in carne ed ossa, desideriamo che il concetto prenda corpo, corpo umano. «Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l’allargarsi dell’attività sul piano storico universale, sono stati sempre asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del mondo), a un potere del cosiddetto spirito che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale. Ma è altrettanto empiricamente dimostrato che col rovesciamento dello stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista questo potere così smisurato per i teorici tedeschi verrà liquidato, e allora verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo» (Marx-Engels, L’ideologia tedesca, p. 66). Nota bene: di ogni singolo individuo. Nella Comunità umana non solo l’individuo non è sacrificato alle necessità della totalità sociale, come avviene nelle società classiste, ma essa è, per così dire, predisposta fin nei dettagli per rendere possibile il libero dispiegamento del potere «di ogni singolo individuo» sulla propria esistenza. Solo così la totalità sociale, sottomessa al controllo degli individui, non ha modo di darsi in guisa di potere sociale estraneo e ostile che si afferma sulla testa dei suoi stessi creatori, secondo la maligna dialettica che da sempre ha inquietato i poeti e i filosofi umanamente sensibili. Umana è la Comunità che fa dell’uomo, del singolo individuo, la sua totalità.
(14) L. Napoleoni, Economia canaglia, Il Saggiatore, p. 251, 2008.
(15) K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, p. 63.
(16) K. Marx, L’Ideologia tedesca, p. 76.
(17) Ibidem, p. 198.
(18) Il Foglio, 9 giugno 2016.
(19) http://www.tramedoro.eu., p. 10.
(20) M. Huemer, Il problema dell’autorità politica, p. 174.
(21) K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, I, La Nuova Italia, 1978.
(22) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Lezioni di sociologia, p. 96, Einaudi, 2001.
(23) A. M. Valli, Cittadini o sudditi?
(24) «Non voglio dire che lo Stato non sia importante; quel che voglio dire è che i rapporti di potere e di conseguenza l’analisi che se ne deve fare deve andare al di là del quadro dello Stato» (M. Foucault, Microfisica del potere, p. 16, Einaudi, 1982). L’analisi del potere politico deve sempre essere considerato alla luce del più complessivo potere sociale, il quale ha molte sorgenti – pensiamo sempre al concetto hegeliano, ripreso e approfondito criticamente da Marx, di «società civile». «Ciò di cui abbiamo bisogno è una filosofia politica che non sia costruita intorno al problema della sovranità, dunque della legge, dunque dell’interdizione. Bisogna tagliare la testa del re: non lo si è ancora fatto nella teoria politica» (ibidem, p. 15).
(25) M. Horkheimer, La trasformazione dell’uomo, in La società di transizione, p. 92, Einaudi, 1980.
(26) M. Horkheimer, Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, 1932, p. 125, Savelli.
(27) M. Huemer, Il problema dell’autorità politica, p. 313.
(28) K. Marx, La Questione ebraica, p. 73, Newton, 1975.

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