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La democrazia come doxa dei corpi vivi e come sistema di partiti

Risposta a Piccinelli

di Alfredo Morganti

Il testo che segue ci è stato inviato dall’autore come risposta all’articolo di Francesco Piccinelli uscito su questo sito, in merito all’ipotesi di una democrazia senza partiti e alle prospettive che potrebbe offrire l’intelligenza artificiale a riguardo. L’autore intende porre in risalto alcuni punti discutibili, che ritiene imprescindibili, che ha trovato nell’articolo di Piccinelli, accanto ad osservazioni stimolanti

sindaci istituzioni1. “I partiti servono a mettere in contatto cittadini e istituzioni”. Attraverso di essi, “le domande che arrivano dall’esterno arrivano dove vengono prese le decisioni”. Così scrive Piccinelli. Osservo che i partiti, nel loro ruolo di ponte tra società civile e Stato, non possono limitarsi a raccogliere domande “che arrivano dall’esterno” per trasferirle tutte d’un pezzo, come un’eco, all’interno degli organi decisionali. I partiti sono soggetti che selezionano quelle domande, le organizzano e spesso ne propongono dialetticamente delle altre, alternative o laterali, e non possono affatto limitarsi al ruolo di passacarte. Questa visione unidirezionale è esattamente il portato ideologico attuale più forte della crisi dei partiti, e della convinzione diffusa che la voce dei cittadini sia il solo ed unico antecedente dell’azione politica, l’ascolto senza filtri dei partiti sia l’atto successivo e il ‘canale’ di trasmissione debba essere tutto a senso unico, direzionato dalla periferia al centro. No invece, perché se così fosse l’origine della crisi della democrazia rappresentativa sarebbe lampante. Generata dalla morte dei partiti ridotti a portavoce, passacarte appunto, e a comitati elettorali. La ‘rappresentanza’ muore, difatti, con la politica ridotta a marketing, con la personalizzazione mediale, con lo sciocco cortocircuito tra elettore e leadership.

 

2. I partiti sono mediazione, in realtà, non nel senso che ‘mettono in contatto’ tecnicamente parti distinte – come suggerisce Piccinelli -, ma nel senso che essi intervengono attivamente e positivamente sulle posizioni in campo, e agiscono su di esse. Essi svolgono almeno tre funzioni: organizzano la domanda, rappresentano la società nelle sue contraddizioni, partecipano alla formazione delle decisioni. Con la fine dei partiti è venuta a mancare questa caratteristica essenziale del sistema politico, il suo sale. E si è dissolta quella soggettività che, sulla base di cultura politica, dialettica interna, esercizio politico quotidiano innalzava la qualità della domanda dei cittadini e proponeva un’offerta politica di sostegno concreto al lavoro delle istituzioni rappresentative. È in virtù di questo che parlamento ed esecutivo, quando la politica funziona, non “prendono decisioni” esternamente a questa dialettica di cittadini, partiti e Stato, ma si adoperano per intensificarla, quale proprio compito essenziale. Ciò è vero anche in epoche in cui i partiti sembrano vittime di corruttela e di malcostume. La centralità dei partiti è valida anche se una parte del sistema politico fosse marcio. In assenza dei partiti, difatti, la corruzione è comunque gestita in proprio dai singoli, dal clan o dalle lobby.

 

3. La crisi della democrazia rappresentativa non per questo ne segna il de profundis. E soprattutto quella crisi non può ridursi alla ricerca di una pura alternativa ‘metodologica’: “non si può rinunciare a un metodo democratico nella gestione del potere” scrive Piccinelli (corsivo mio). Giusto. Ma la democrazia è sostanza, prima ancora che forma o meccanismo di scelta. È parlamento più che metodo elettorale, anche se la rilevanza di quest’ultimo è dimostrata proprio dalle vicende italiane. Effettivamente, insistere sul metodo riduce la complessità del problema, e soprattutto lascia immaginare che una soluzione ‘tecnica’ adeguata, efficace possa supplire al problema storico-concreto della rappresentanza e della soggettività. Nel saggio di Piccinelli avverto un certo fascino per il ‘tecnicismo’, e c’è senz’altro l’ipotesi (tutta da verificare, certo) che i canali digitali possano tradurre ‘democraticamente’ il mondo analogico, sfoltirlo, ‘rappresentarlo’ in forme semplificate e addomesticate, tabellari, algoritmiche, in un linguaggio artificiale realizzato per l’occasione e dosato opportunamente, sfrondando ciò che ‘eccede’ la forma giusta, normale, comprimendo i segni che non si prestano alle regole della macchina. Il mito di un mondo senza partiti politici (ergo senza democrazia) è la stessa cosa del mito di un mondo che si affida alle tecniche, alle procedure, alla combinazioni appropriate di cifre, saltando a piè pari la questione della corporeità.

 

4. Qui, difatti, sorge la seconda osservazione di base: la politica è fatta da corpi, corpi materiali e viventi, singolari e collettivi, sennò non è politica (governo della polis) ma gioco di ruolo, evento, algoritmo, ars combinatoria di enti numerici. Una cosa, insomma, in cui il corpo sparisce, si dilegua, liquefatto da un prodigio tecnico che ne prende le veci. Il corpo diventa un ‘dato’, insomma, viene superato nella sua carne e nelle sue ossa. “Si può immaginare una politica automatizzata basata su intelligenze artificiali supplenti rispetto ai politici in carne e ossa?”, questo si chiede, difatti, Piccinelli. Una domanda a cui io rispondo con decisione: ‘no’. L’automa non esprime una doxa, l’automa corrisponde razionalmente a dei dati, anzi si confronta con l’attuale messe di macro dati e, con ciò, soprapassa la questione dell’opinione pubblica (o politica), gestendo cifre, rilevazioni, informazioni, tutto meno che vita reale, tutto meno che il sangue-sudore-lacrime che spinge gli individui o i soggetti collettivi a gesti, relazioni, comportamenti, parole spesso eccedenti o eccezionali o fondativi, verso cui i partiti (con le loro benedette imperfezioni!), le loro classi dirigenti, i loro militanti e iscritti si prodigano a scovare una strategia d’approccio, rispondere culturalmente, organizzare in forma adeguate, secondo una visione lungimirante, e non semplicemente aderendo piattamente alla cruda conformazione di un data base che riflette scelte e comportamenti di utenti disincarnati. I cittadini non sono dei consumatori, questo dovrebbe essere chiaro (o almeno una volta era chiaro, oggi non so). E la rete dei consumi non c’entra proprio nulla con la democrazia.

 

5. Che cosa distingue politicamente i corpi viventi da un semplice meccanismo digitale, da un data base, da un algoritmo? Cosa distingue un cittadino analogico da uno digitale? Una cosa semplicissima: quello digitale sceglie nella propria solitudine di utente quasi smaterializzato – quello analogico si organizza, si ribella, lotta, partecipa a iniziative, ci mette tutti i sentimenti, non è solo l’astratto protagonista di un test on line, di un social, di un videogioco. Quello analogico, se vuole, potrebbe anche non scegliere alcunché, ma non perciò andrebbe considerato fuori dai computi. Anzi, l’interesse per chi si astiene resta un punto essenziale dei partiti, mentre si presenta solo come un dato percentuale per i tecnici che gestiscono i data base o analizzano i big data. I corpi, inoltre, imprimono un carattere specifico alla politica, che ‘eccede’ così la mera razionalità strumentale dell’apparato o della rete. La politica assume, perciò, anche le fattezze del sentimento, della passione, dell’empatia possibile, della vita tout court e mai un percorso algoritmico, diretto, lineare determinato da un input iniziale e dalla meta a ‘vincere’. La politica ‘spuria’ dei corpi viventi è altra cosa rispetto a quella ipotetica degli individui in rete, che sposano opzioni o eleggono rappresentanti-avatar che ripetono, spesso col medesimo tono, i cori da stadio che sentono urlare sulle ‘curve’ sociali.

 

6. Lo abbiamo già accennato. L’ideologia della tecnica, l’idea che la tecnologia possa in qualche modo certificare e surrogare la crisi della rappresentanza e dei partiti, nonché la potenza di mediazione con soluzioni istantanee, quella ideologia si oppone in primo luogo al carattere essenziale di doxa democratica, al fatto che dinanzi alle questioni si confrontino apertamente e liberamente ogni volta opinioni e soluzioni tutte legittime, e che esse si medino, si trasformino anche, all’interno di organismi collettivi come i partiti, che sono parte della società e assieme parte dello Stato. La doxa è la garanzia che su ogni termine del problema sussistano almeno due soluzioni, ognuna delle quali esprime aree sociali e interessi differenti, e che la scelta conclusiva tra queste soluzioni sia parte di un movimento più ampio, complesso, tutto meno che metodo digitale diretto, fluido, istantaneo. Al contrario della doxa, la tecnica (in quanto ideologia) rappresenta l’idea che la soluzione sia una, unica, quella ritenuta più efficace, e che non si tratti propriamente di sceglierla tra tante possibili, ma di scovarla, magari provando e sperimentando come in un laboratorio scientifico. Questa visione ‘tecnica’ della democrazia (anzi del metodo democratico) e del governo è, in fondo, la stessa cosa che sperimentare positivisticamente soluzioni neutre alle questioni, per cui non c’è più chi sceglie, né più chi lotta, né più un agorà calpestato da corpi umani in tensione e conflitto in quanto corpi tra loro, ma un tecnico che si interfaccia con le macchine e coi sensori, analizza la massa enorme di big data, affianca il decisore oppure lo esautora, visto che sono i dati a scegliere, gli algoritmi a trattare i dati stessi, e non c’è più alcuna decisione effettiva da prendere, ma solo una presa d’atto del ‘portato’ digitale, che somiglia tantissimo alla conservazione degli assetti di potere esistenti. Ideologia con parvenze di scientificità, insomma.

 

7. Questo dibattito che appare innovativo, moderno, avveniristico in realtà sa di vecchio. Perché pensa la forma e il contenuto come due aspetti interagenti, certo, ma per lo più ben distinti tra loro. E dunque puri: il contenuto come informità assoluta, la forma come cristallinità. Non è così, però. La forma politica non è affatto cristallina, anzi presenta una torbidezza di fondo, che la fa scambiare continuamente col proprio contenuto corrispondente, che la fa mischiare a esso. La passionalità politica è tutto meno che nitida forma, ma anzi ne restituisce opacamente la verità più profonda. Perché la politica ha una sua bellezza (ricordate Baaria di Tornatore?) e non solo un’efficacia, e la democrazia, di questa politica innervata da lotte e passioni, ne è infarcita sino al midollo. La forma politica, in un certo senso, è eccedenza, è continua straordinarietà. Vive di soprassalti, e solo così diventa grande politica, tracimando dalla mera amministrazione, che è l’aspetto più vicino alla metodologia digitale e algoritmica indagata nel saggio di Piccinelli. Ogni volta che c’è un cambio di scala, di scenario, una discontinuità, un salto storico vuol dire che è entrata in campo grande politica, e dunque un’onda forte di passionalità, una spinta eccedente dove le soluzioni da laboratorio non possono di certo avere cittadinanza. Ora, se è vero che viviamo una crisi profonda della politica stessa, della democrazia rappresentativa, dei partiti, non vi pare limitato, minimalista, riduttivo affrontare il problema, come sembra suggerire Piccinelli, sul lato dell’amministrazione tecnico-democratica delle decisioni? Non è invece il caso che si affronti il punto tentando un sobbalzo di grande politica, mettendo cioè le passioni in campo, con gli esseri umani protagonisti, e quindi una democrazia di forme che si eccedono, un sistema di partiti che sia interlocutore dei cittadini e delle forze sociali e non solo portavoce dei poteri e delle lobbies più forti oppure di chi urla di più? O persino di chi urla di meno, e agisce nell’ombra? Non è il caso che si dia voce alla doxa e meno che mai la tecnica scenda in campo a occuparlo per intero? Il limite del saggio di Piccinelli, pur stimolante, è nel perdere di vista questo aspetto di eccedenza, di passioni vive, di sangue e terra, di scontro e confronto, che gli uomini con le loro opinioni, le loro idee, la loro forza sociale e intellettuale sono pronti a mettere in campo secondo un concetto di ‘partecipazione’ irriducibile a un post in rete oppure a un like. Questo può andar bene in una strategia di marketing, oppure nella riduzione della politica ad amministrazione, ma non quando si tratta di ribaltare ingiustizie, assetti di potere, promuovere la partecipazione, eccedere con la propria vita per intero le forme della democrazia, e quando si tratta di farlo mettendo in campo i partiti, che nascono per questo, che della società sono enzimi essenziali, non solo portalettere delle domande e delle esigenze comprese le più insulse. Perciò dico: e se invece di trovare nei videogiochi la soluzione, la trovassimo nella realtà? Tipo lavorare a un progressivo ritorno dei partiti e della partecipazione, che poi non è un regredire (pensare la regressione ha lo stesso difetto di pensare il progresso delle “magnifiche sorti”), ma l’unico modo possibile per pensare concretamente la democrazia rappresentativa, a partire dalle ragioni stesse della sua crisi: ossia una modalità di governo equilibratrice e assieme potenzialmente sovvertitrice dell’ordine sociale. L’unico efficace, checché se ne dica, di rimettere in campo gli uomini con la loro vita, le loro idee, e nella loro interezza.

Comments

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renata puleo
Sunday, 02 October 2016 13:50
E' vero, il saggio di Piccinelli è stimolante,infatti ha provocato questa bella reazione, ma è un po' troppo affascinato dalle nuove frontiere.
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