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Oligarchie transnazionali e collaborazionismo delle sinistre

di Il Pedante

automatFalce e cartello, matrimonio imperfetto

Si è già visto su questo blog come le politiche reclamate dai grandi detentori di capitali a detrimento della restante umanità spesso coincidano stranamente con quelle auspicate da coloro che dovrebbero esserne i nemici più consapevoli e attrezzati: cioè le sinistre "vere", quelle che si identificano nell'impostazione originaria e più che mai attuale della lotta tra chi lavora e chi specula.

Ripassiamone qualche esempio:

le tasse patrimoniali (ne abbiamo parlato qui) invocate insieme dalle sinistre tsipro-rifondarole e dagli strozzini del FMI;

il reddito di cittadinanza e altre forme di elemosina o trickle-down (v. qui), che mettono d'accordo non solo i miliardari à la Grillo, gli zerbini finanziari à la Renzi a botte di 80 denari e, nell'ultima versione pervenuta, gli affamatori della BCE con l'helicopter money, ma anche i Vendola, i Ferrero e tutta la sinistra compagnia di chi baratterebbe il lavoro per una briciola di capitale;

l'apertura senza limiti all'immigrazione, poco importa se da stipare nei lager o negli agrumeti a 3 euro l'ora, cavallo di battaglia dei pauperisti di sinistra e, insieme, del re degli speculatori George Soros che investe milioni per promuovere lo sversamento del Terzo Mondo in Europa e USA;

 l'integrazione politica e la moneta unica europee, difese dall'impero americano e dal caviar-marxista Varoufakis, da Goldman Sachs e da Giulietto Chiesa (che pare abbia cambiato idea);

i diritti civili aka cosmetici LGBT, abortisti, antitradizionalisti e gender, i cui paladini contano su un'alluvione di finanziamenti da parte di multinazionali, banche d'affari e ricchi conservatori di destra, oltre che del solito Soros; nei casi più moderati (cioè deteriori), la demonizzazione dell'evasione fiscale, della corruzione e del denaro contante, già cara a Mario Monti e ai banchieri centrali.

Questa sbalorditiva comunione di intenti tra falce e cartello, questi amorosi sensi tra guevaristi e multinazionali, si prestano a diverse chiavi di lettura. Sul piano delle intenzioni ci assiste la categoria già analizzata in questo bog del questismo.

Le sinistre sedicenti alternative non vogliono questa patrimoniale che colpisce la prima e unica casa delle famiglie e/o i risparmi degli anziani, ma un prelievo sui patrimoni dei super ricchi: cioè quella che non esiste. Non vogliono questo reddito di cittadinanza per ricattare gli indigenti (come in Inghilterra e Germania), ma un sostegno incondizionato e universale: cioè quello che non esiste. Non vogliono questa immigrazione da condannare allo sfruttamento, allo sradicamento e alla discriminazione, ma un'integrazione piena degli stranieri con la dignità di un reddito oggi negata agli stessi italiani: che quindi non esiste. Non vogliono questa Europa dei banchieri, ma quella dei popoli: che non esiste. Eccetera.

Il questismo incarna una visione consolatoria dove le politiche non sono sbagliate in sé, ma lo sono l'intenzione e il sostrato ideologico che le declinano, alimentando così l'illusione di condurre una battaglia schiettamente ideale che non metta in discussione gli atti del nemico, ma li orienti verso un fine migliore. In questa pia illusione manca naturalmente l'idea dei rapporti di forza in gioco. Se le politiche in oggetto sono progettate e concepite all'origine per servire determinati fini, e se chi le gestisce ne manovra indisturbato e sovrano l'applicazione, la scelta di sostenerle coincide con l'accettazione dei loro obiettivi.

Come si è già osservato, il questismo nasce con la pretesa di mettere i sogni in concorrenza con la realtà e finisce per mettere i sogni al servizio della realtà. Il realismo politico di chi fa il lavoro di Soros per sconfiggere Soros è pari a quello di chi avesse chiesto al Reich di non fermare la costruzione dei lager ma di farne dei luoghi di pace e riflessione. Come è poi effettivamente successo: dopo qualche milione di morti.

Si consideri poi l'inclinazione antagonista di queste forze politiche, il cui impegno si esprime di norma nell'individuazione di un nemico di facile e simbolica identificazione. In ciò si può concedere il pregio di focalizzare gli sforzi, ma solo a patto di mantenere ben aggiornato l'identikit dei bersagli demistificandone i travestimenti nell'arco mutevole delle circostanze storiche e dei posizionamenti politici.

Sicché farsi ossessionare oggi da chi porta i fiori a Predappio o sventola la croce celtica negli stadi è un caso di discronia ideologica da parte di chi ignora che, ormai da decenni, il capitale si è reincarnato nei partiti progressisti che onorano la lotta partigiana. Ma forse più grave è il disprezzo sessantottardo che in certi casi si leva contro la residua classe media, quella che un tempo chiamavano borghesia, alla quale si rimprovera l'egoismo meschino e pantofolaio dei privilegiati. Non che molti dei suoi esponenti non lo meritino: questo blog ospita una fenomenologia dei moderati dove se ne deplora la dominante ideologia lumacona e gregaria, pavida e osannatrice del potere di turno.

Ma stigmatizzare lo squallore intellettuale di una classe - peraltro neanche tutta - è ben diverso dal disprezzarne le istanze di sicurezza economica e sociale. Nel difendere con le unghie benessere e patrimoni maturati nella parentesi del dopoguerra, la classe media italiana - anche quella che vota Meloni, anche quella che legge Libero, anche quella che ha paura degli immigrati - difende le conquiste di una sinistra che ha dato il sangue per l'emancipazione dei deboli. La stessa esistenza di una classe media, in Italia come all'estero, è il documento storico di una vittoria sul capitale certamente incompleta, ma unica per estensione e profondità nella storia, dalla quale è d'obbligo ripartire senza arretrare di un millimetro.

Schifare le paure piccolo-borghesi per l'orticello è sputare sulla tomba di chi cent'anni fa scioperava sotto i fucili per quell'orticello. Ma è anche mettersi al servizio di un capitale che oggi ha deciso di riprenderselo, anzi di riprendersi tutto: diritti del lavoro, salari, patrimonio, welfare, incominciando come è ovvio da chi ha ricevuto di più. E non certo per ridistribuirlo ai poveri. Se riconoscere i propri nemici è importante, lo è altrettanto riconoscere i nemici dei propri nemici. Chi straccia i libri di Salvini rende un favore a Mario Draghi e Bini Smaghi - i cui libri infatti riposano intonsi. Se il primo difende solo i redditi degli italiani infischiandosene del mondo, i secondi, da veri internazionalisti, puntano a ridurre i redditi di chiunque viva in Europa.

Il capitale agisce secondo opportunità, non simboli o appartenenza. In questo agile agnosticismo sta il segreto delle sue vittorie nella guerra dei consensi. Mentre gli avversari danno la caccia ai fantasmi di Ciano e di donna Rachele, il capitale si è già disfatto dell'impresentabile autoritarismo di destra per indossare il tweed delle sinistre internazionali, progressiste e democratiche. E mentre queste ultime sembrano declinare nel gradimento dei consumatori, già invita a colazione le facce pulite del movimentismo che avanza. Se invece dovessero prevalere i nazionalisti, si adopererà per infiltrare anche questi. Il capitale è rosso sul rosso, nero sul nero. Intinge i suoi interessi nella vaselina dei valori di volta in volta più nobili e/o in voga: la solidarietà, l'onestà, il sacrificio, la fratellanza tra i popoli, la pace, la libertà sessuale ecc. come ieri la patria, la religione, l'onore, il re.

Il mimetismo del grande capitale vince perché i consumatori della politica leggono le etichette senza assaggiare il prodotto. Indossa la casacca dei suoi oppositori per farseli complici, ne asseconda le passioni e le mode per sdoganare i suoi fini. È, insomma, la dementia symboli:

portare la guerra promettendo la pace,

portare lo sfruttamento promettendo l'integrazione,

portare la corruzione promettendo l'onestà,

portare la dittatura promettendo la democrazia,

portare il conflitto sociale promettendo la fratellanza,

portare il fascismo promettendo l'antifascismo,

ecc.

Se invece di interrogarci sui significati - o peggio sui significanti - osservassimo gli effetti, la storia recente sarebbe un libro aperto e le politiche in corso si rivelebbero per ciò che sono e che i numeri dimostrano: strumenti usa-e-getta per affermare gli interessi di pochissimi a spese di tutti. Gli atti di chi porta interessi opposti ai miei sono atti che ledono i miei interessi. Punto. E va da sé che assomiglino tanto ai miei sogni: la rassomiglianza non è casuale, è una strategia di marketing.

Oppure...

Oppure c'è un'altra ipotesi, la più penosa da credere. Che alcuni compagni, in un ribaltamento allucinato dei rapporti di forza, credano di sfruttare l'abbrivio del capitale triumphans per avvicinarsi astutamente alla rivoluzione, e di saltar giù dal treno dei ricchi prima dello schianto. Ad esempio per mettere fuori gioco i nemici del momento (mister B, i razzisti, i fascioleghisti ecc.) o per realizzare obiettivi ritenuti propedeutici e urgenti. Così Jacopo Fo, il più patologico e sincero, quello che dio-è-comunista-e-femmina, nel 2012:

Il motivo per cui io ringrazio Monti, teatralmente in ginocchio, è perché, nonostante una serie di azioni indegne, è riuscito (miracolosamente!) a evitare che il capitano Schettino portasse la nave a inabissarsi!!! E vorrei aggiungere che alcune leggi terribili le ha fatte forse anche perché erano la contropartita per ottenere alcune cose essenziali.

O ancora nel 2014:

Il pericolo oggi... è quello di non capire che anche se Renzi è cattivo dentro riuscirà a realizzare un’enorme riforma dello stato, culturale e legislativa. Non farà le riforme come le farei io, non saranno perfette, non renderanno l’Italia un paese giusto. Ma è un fatto che oggi esiste una maggioranza di italiani... che pretende il cambiamento e che pure gli interessi del grande capitale e degli imprenditori spingono in questa direzione: portare l’Italia a un livello austriaco di legalità ed efficienza.

Furbissimo.

 

#NoBorders, WTO e c'era una volta Seattle

Ecco una testimonianza:

C'è anche un lato oscuro nella reazione alla globalizzazione. Per qualcuno, l'attacco alle economie aperte è parte di un più ampio attacco contro l'internazionalismo, cioè contro gli stranieri, l'immigrazione e un mondo più plurale e integrato. Il no alla globalizzazione è solo l'ultimo capitolo di un richiamo antico al separatismo, al tribalismo e al razzismo: una visione del mondo in cui si contrappongono "noi" e "loro". Quando ero giovane la parola internazionalismo era una parola nobile. Aveva anche un significato autentico per le lotte dei lavoratori. Le vecchie canzoni sulla solidarietà internazionale e sulla fratellanza tra gli uomini ci scaldavano il cuore. Ma adesso l'idea dell'internazionalismo è diventata qualcosa da temere o da attaccare. Mi preoccupa che molti di coloro che desiderano sinceramente un mondo più giusto e migliore si trovino oggi schierati con chi si oppone all'internazionalismo in ogni sua forma.

Chi scrive? Un socialista fedele all'inno? Il portavoce di un collettivo antirazzismo? Un anarchico dalle trincee del Brennero? Un missionario? Miss America?

No.

È Mike Moore, già ministro e premier neozelandese, direttore generale dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) fino al 2002 e uomo-chiave nei negoziati GATT 1986-1994 (il cosiddetto Uruguay Round), da cui nacque lo stesso WTO. Per capirci, il GATT è il predecessore del TTIP e il WTO è l'evoluzione del GATT con poteri regolatori e sanzionatori. Il WTO è quel costoso baraccone legale che quando va bene non funziona - cioè, fortunatamente, quasi sempre - e quando va male costringe le economie deboli e locali a competere con le economie forti e globali - cioè americane. Affinché chi ha già vinto possa vincere ancora, e di più.

Che c'entrano la pluralità, l'integrazione e il razzismo con l'idea di mandare in rovina i piccoli coltivatori caraibici e africani? O di rendere obbligatorio il brevetto delle terapie salvavita quadruplicandone il prezzo? Ovviamente nulla, anzi. Ma si è già visto - in particolare qui - quanto siano centrali le tecniche di colpevolizzazione per oltrepassare le barriere razionali del pubblico e indurlo ad abbracciare esiti contrari al proprio interesse: "Non vuoi la precarietà? Sei un bamboccione. Non vuoi competere coi più forti? Sei un pavido. Non vuoi lo stato di polizia fiscale? Hai qualcosa da nascondere. Non vuoi le economie aperte? Sei razzista". Eccetera. Ma non solo: si è anche visto, nella puntata precedente, come di norma i valori prostituiti al vantaggio del più ricco siano anche quelli che più facilmente muovono le corde dei suoi possibili oppositori - in questo caso le sinistre - così da assicurarsene l'ignara e gratuita collaborazione.

Il binomio moralistico protezionismo-razzismo è riuscito così bene a sedurre l'internazionalismo dei gonzi da riapparire nelle campagne mediatiche sul TTIP, che si candida a emendare le inefficienze del GATT-WTO amplificandone gli effetti:

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Ma facciamo un passo indietro. Il comunicato stampa di Moore, di cui abbiamo riportato uno stralcio, è del 28 novembre 1999. Due giorni dopo, a Seattle, circa 50.000 persone si riunivano da tutto il mondo per protestare contro i nuovi negoziati WTO (Millenium Round) e l'ulteriore liberalizzazione dei mercati e dei diritti che ne sarebbe uscita. Nasceva così il movimento no-global. Senza voler mitizzare quell'esperienza, alla quale molti parteciparono per gregarismo, dopo quasi vent'anni va riconosciuto che i no-global non solo avevano ragione, ma facevano in effetti paura ai candidati padroni del mondo.

Lo dimostra il fatto che avessero compreso con precisione il disegno di centralizzazione produttiva a vantaggio di pochi e di attacco all'autodeterminazione delle comunità che oggi si dispiega sotto i nostri occhi. Lo dimostra la repressione feroce, le torture e la violenza impunita della soldataglia a Seattle e, due anni dopo, in Piazza Manin e a Bolzaneto. E lo dimostra la campagna di demonizzazione dei dimostranti, così martellante da avere inchiodato per sempre nei microcefali dei moderati il binomio no-global = vandalo, coniando un marchio di infamia destinato a durare e a seppellire quegli ideali nell'immaginario dei più.

Ma c'è da credere che il fenomeno no-global facesse paura anche ai gestori del consenso, perché politicamente trasversale e difficile, se non impossibile, da ricondurre agli schemi simbolici con cui sedurre, manovrare e disperdere le masse mettendo le vittime contro le vittime. Se oggi, per le suddette campagne di stampa orwelliane, no-global è automaticamente associato ai centri sociali, nella realtà basta scorrere l'elenco dei membri del Genoa Social Forum per riscontrarvi ben altra ampiezza: dai comunisti ai federalisti europei, dalle associazioni gay-lesbiche alle Suore del Buon Pastore, da Banca Etica alle chiese evangeliche e metodiste, dai sindacati alle associazioni di categoria.

Per spezzare questo fronte non erano sufficienti le calunnie e le botte, ci voleva un'operazione di marketing, un divide et impera che facesse leva sugli automatismi culturali dei suoi membri. Si riesumò quindi l'asse classico destra-sinistra e, sfruttando l'ossessione di quest'ultima per il fascismo storico, che era nazionalista e patriottico, si creò un cortocircuito valoriale in cui tutto ciò che implicasse la protezione delle economie nazionali e l'affermazione di una discrezionalità sovrana da contrapporre ai ricatti sovranazionali era da considerarsi autarchico, reazionario e incompatibile con la vocazione universalista del verbo socialista. Sicché i compagni, per dissociarsi dal fascismo nazionalista dei morti, finirono per associarsi a quello internazionalista dei vivi.

Da lì in poi la strada era in discesa. Il vuoto creatosi a sinistra fu occupato dalle destre che rimasero sole al timone del fronte antimondialista, raccogliendone i frutti e fornendo un facile bersaglio a chi con agile balzo era migrato - chissà quanto consapevolmente - dal no-global al no-borders, oltrepassando la barricata e trovandosi a condividere la retorica dei padroni. ma non il desco.

***

Ad articolo già pubblicato, un lettore mi ha giustamente suggerito di considerare tra i principali fattori storici innescanti questa mutazione la recente crisi dei migranti e l'effetto shock therapy che con essa si è abbattuto sulle coscienze del pubblico più impegnato. Se la diagnosi no-global sugli effetti di un mondo sempre più aperto era macroeconomicamente inattaccabile, occorreva allora indirizzare i colpi nelle parti basse delle emozioni e della colpa e sostituire, nel dibattito, la pena dell'umanità in fuga alle merci delle multinazionali. L'accelerazione dei movimenti migratori, le cui cause restano poco chiare e comunque poco "naturali" (guerre e fame esistevano anche prima, purtroppo), fece sì che le istanze umanitarie scalzassero quelle economiche - che restavano comunque irrisolte e avrebbero in primis ripresentato il conto agli stessi immigrati, destinati allo sfruttamento.

Quando il Manifesto pubblicò in prima pagina la fotografia di un bambino curdo annegato mentre fuggiva dalla guerra e il relativo commento, il contrordine era lampante: i confini condannano i deboli alla morte e all'inedia, difenderli è antistorico, disumano e fascista. Così gli ex nemici di Moore, presi a pugni nei sentimenti più nobili, ripetevano le parole di Moore con quindici anni di ritardo e sbandierando i corpi di coloro che ne sono stati e ne saranno le principali vittime.

 

Le groupies #NoBorders e il senso delle nazioni

Per quanto indubbiamente opere dell'uomo, le nazioni e i confini sono retaggi consegnatici dai millenni: come l'orografia, il clima, gli oceani. Esistono, esistevano da molto prima che nascessimo, e noi stessi ne siamo anche fisicamente il prodotto. Salvo rare eccezioni, essi nascono e si dissolvono nel sangue, il che è già un primo, ottimo motivo per lasciarli lì dove stanno e non crearne di nuovi rincorrendo ogni volta sogni che, dacché esiste l'umanità, distruggono vite e civiltà al grido di #questavoltaèdiverso.

Al netto della storia e della sua violenza, le nazioni sono anche giurisdizioni, cioè spazi delimitati - come lo è ogni cosa per esistere - in cui si applicano le politiche di una comunità e se ne impone il rispetto. Sicché le nazioni sono il luogo della politica. A chi da sinistra schifa le categorie nazionali è fin troppo facile portare l'esempio dei governi socialisti, tutti immancabilmente patriottici e pronti a difendere con le armi la propria autodeterminazione: URSS, Cina, Vietnam, Cuba, Venezuela ecc. E non potrebbe essere altrimenti. Quando un'idea politica si cala nella realtà deve attecchire in uno spazio fisico che va tutelato con l'esercizio della sovranità. Così il socialistissimo Venezuela di Maduro, che l'anno scorso indirizzava al governo golpista di Obama una canzone da far piangere sangue agli internazionalisti de noantri:

Viva Venezuela mi patria querida
quien la libertó mi hermano
fue Simón Bolívar.

Para defender la patria
Nos hace fuertes la unión
somos una misma sangre
con un solo corazón
.

Cabalgaremos los sueños
De construir una patria
Que sea libre y soberana
[ovvove!]

...

Per concludere così:

Viva Venezuela libre
Viva mi patria querida
Viva la paz de los pueblos
Viva la América unida

Evidentemente, per i socialisti venezuelani l'aspirazione a una "patria libre e soberana" e l'omaggio patriottico ai suoi liberatori non contraddice né ostacola il cammino verso la "paz de los pueblos" e la "América unida". Per un motivo che dovrebbe essere ovvio: un progetto politico va coltivato e difeso prima di essere eventualmente offerto al mondo. In questo senso la nazione è celebrata non solo e non tanto in sé, ma in quanto incubatrice e roccaforte di una visione politica che senza di essa vivrebbe solo nell'immaginario e nei discorsi dei rivoluzionari da bar.

In Italia non vige il socialismo reale, ma la democrazia: che non è un'idea né un'inclinazione morale dei suoi cittadini, ma la norma prescritta da una Costituzione che si applica al'interno dei confini nazionali. Sicché è facile intuire perché chi mal sopporta la democrazia costituzionale predichi a un tempo il superamento della nazione e la cessione della sua sovranità.

Interrogarsi sul vettore storico e non sui contenuti è il modo migliore per farsi rifilare qualsiasi sbobba purché corredata dai simboli a sé cari. Tra i primi provvedimenti adottati da Thomas Sankara, che pure era socialista e panafricanista convintissimo, vi furono severe misure protezionistiche per assicurare l'autosufficienza alimentare al proprio paese. Non era un ideale, ma uno strumento urgente per salvare milioni di vite. Forse oggi qualche intellettuale da circolo avrebbe suggerito all'eroe africano di lasciare il suo popolo nella fame per non tradire i doveri dell'internazionalismo, in attesa di un'Africa unita sotto la stella rossa. Nel qual caso probabilmente Thomas sarebbe ancora tra noi e, una volta all'anno, volerebbe a Cernobbio al seguito del più giovane Varoufakis per deliziare la platea con la scimmietta di una rivoluzione romantica e senza rischi.

Proteggere una giurisdizione da merci, prassi commerciali e flussi migratori non è una forma di governo né una filosofia, ma un normale atto di amministrazione. Ciò che andrebbe valutato, e giudicato, sono le politiche che in tal modo si intende difendere e quelle da cui ci si intende difendere.

Nelle esperienze qui citate appare anche una tensione patriottica da cui trarre un insegnamento: che cioè il patriottismo ha in sé anche una dimensione a-simbolica e funzionale che nulla ha a che vedere con la volontà di aggredire, sottomettere o disprezzare gli eteroctoni. L'amore per la propria nazione, regione o comunità è all'origine una forma di amore di prossimità antropologicamente affine all'amore famigliare, con l'utile e legittimo fine di valorizzare ciò che si è e che si ha. Voler bene ai propri figli, fratelli, coniugi e genitori non significa approvarne incondizionatamente gli atti, né idolatrarli, né tantomeno odiare il resto dell'umanità. Anzi, è il contrario: a chi non sa amare i propri figli non è saggio affidare i figli altrui. E a chi non sa amare la propria comunità non è saggio affidare il mondo.

Che esistano una, cento o mille nazioni è in teoria del tutto indifferente. Nella pratica è invece prudente tenercele strette: non solo per non smuovere le polveri delle guerre civili, ma soprattutto perché quel poco o tanto che le masse hanno conquistato è appeso agli ordinamenti nazionali, non a un iperuranio che ce lo conserverà per un improbabile e venturo impero dei giusti. Non sono i confini a condannare i disperati del mondo, ma le politiche di coloro che vogliono abolire i confini per fare della disperazione la norma. Cioè degli stessi che da tempo preparano e consolidano le fondamenta di un governo dai confini sempre più ampi, a tendere verso il sogno (per pochi) o l'incubo (per tutti) di governi continentali se non addirittura di un governo mondiale in cui il dominio dei pochissimi avrebbe la meglio sulle resistenze politiche e costituzionali maturate - che piaccia o meno - all'interno delle esperienze nazionali.

Non c'è motivo per credere che la riduzione del mondo a pochi superstati - non a caso, come aveva immaginato Orwell - segnerebbe la fine dei nazionalismi fanatici e guerrafondai. Anzi. Ai nazionalismi del presente si sostituirebbe un neonazionalismo posticcio e retorico, conflittuale al suo interno e aggressivo verso l'esterno. Gli imperi del passato si facevano la guerra esattamente come le città-stato del Peloponneso o le tribù della Gallia, ma con ben altra disponibilità di mezzi e quindi procurando più lutti.

In compenso, una razionalizzazione di questo tipo produrrebbe - e sta già producendo - un effetto tonnara dove la riduzione dei centri decisionali estenderebbe il potere di chi già li occupa a popolazioni e territori sempre più vasti, a parità di sforzo. Gestire singolarmente campagne di comunicazione e di lobbying in decine di paesi è molto costoso, ma soprattutto espone al rischio di conseguire esiti eterogenei per modalità ed efficacia. Sicché conviene concentrare gli sforzi in un'unica sede, ad esempio nei corridoi asettici di Bruxelles, lontani dagli occhi degli elettori e dal cuore dei potentati locali. La centralizzazione è l'aspirazione naturale del dispotismo. Come Luigi XIV eresse la reggia di Versailles per allontanare l'aristocrazia dalle province ed estendervi il suo dominio assoluto, oggi le élites finanziarie coltivano il feticcio di un mondo fraterno e senza confini per levarsi i popoli, e i cosiddetti intellettuali, dai piedi.

Comments

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Valdo
Wednesday, 14 December 2016 00:10
Che cosa c'entra il Pedante con la sinistra (parlo della sinistra vera, quella che cerca giustizia sociale e nemica del neoliberismo)? Il Pedante, pur dotato di ottima prosa e acutezza, è una emanazione del sovranismo di destra e porta acqua alla Lega per sottrarne ai 5 Stelle, che detesta cme i suoi mentori Bagnai e Barra Caracciolo. Basta vedere la ignobile affermazione sul reddito di cittadinanza, che - costoro lo ripetono ossessivamente da anni - sarebbe favorevole al neoliberismo e ora leggo la stupida, piddinissima battuta su Grillo miliardario. Naturalmente si scordano sempre di dire che tale reddito è misura temporanea ed emergenziale visto che la povera gente non può aspettare Bagnai che tra qualche anno ci porta fuori dall'euro! Piccolo borghese impoverito che riscopre la giustizia sociale adesso che è lui ad essere colpito dalla crisi, ma che delle esigenze di chi ha la panza vuota davvero, cioè del popolo, se ne frega (infatti nessuna alternativa immediata al RdC viene presentata), questo il Pedante! Che ci fa in un sito di sinistra? Ma scriva su Imolaoggi!
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