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controlacrisi

Perché l’uscita dall’euro è internazionalista

III. Oltre il rifiuto del politico. L’euro come anello fondamentale del recupero della lotta politica

di Domenico Moro

Qui e qui le parti precedenti

Riunione segreta massonicaÈ necessario sul piano politico e prima ancora sul piano teorico il superamento di una visione unilaterale della realtà, che guardi unicamente o al livello statale o a quello sovrastatale. In ogni fase storica va definito qual è il rapporto concreto che lega i livelli statale e sovrastatale dell’accumulazione di capitale. Nell’epoca del capitalismo globalizzato lo stato nazionale non si eclissa, si trasforma. Le funzioni che è più utile tenere al suo interno e sulle quali il controllo della classe dominante è più saldo, vengono rafforzate. Viceversa, vengono delegate a organismi sovrastatali le funzioni il cui controllo da parte della classe dominante è più debole o incerto o la cui modifica è richiesta dalle caratteristiche della fase dell’accumulazione capitalistica.

La conseguenza principale dell’unione economica e valutaria europea (Uem) non è stata l’eliminazione della sovranità nazionale dello stato, ma la modificazione dei rapporti di forza tra le classi all’interno dello Stato, a favore dello strato di vertice e internazionalizzato del capitale. Di conseguenza, l’obiettivo politico principale della classe lavoratrice nel contesto europeo non è tanto la rivendicazione della sovranità nazionale, quanto il recupero e l’allargamento dei livelli precedenti di sovranità democratica e popolare.

Il recupero della sovranità democratica e popolare non va confuso con il ristabilimento di un governo popolare, in realtà mai realizzatosi e impossibile in un contesto di rapporti di produzione e sociali capitalistici. Il recupero della sovranità democratica e popolare è, prima di tutto, il ristabilimento di un contesto di lotta in cui i subalterni non siano sconfitti in partenza, mediante la reintroduzione di meccanismi economico-istituzionali che consentano di ridefinire rapporti di forza più favorevoli al lavoro salariato. Questi meccanismi si concretizzano, innanzi tutto, nella ricollocazione al livello statale del controllo sulla valuta, al fine di manovrare sui cambi e di attribuire alla Banca centrale il ruolo di prestatore di ultima istanza e di acquisto dei titoli di stato. Ovviamente, queste misure non risolvono di per sé tutte le contraddizioni del capitalismo né i problemi dei lavoratori. Tantomeno sono propedeutiche alla trasformazione dei rapporti di produzione capitalistici in rapporti di produzione socialisti. Tuttavia, indeboliscono i rapporti di produzione capitalistici, perché l’euro è una importante leva di imposizione del comando del capitale sulla forza-lavoro e di ristrutturazione della produzione di profitto, mediante l’internazionalizzazione del capitale, elemento decisivo del capitalismo odierno. L’uscita dall’euro, dunque, è una condizione certamente non sufficiente ma necessaria, sul piano politico, e non solo sul piano economico, per il lavoro salariato. È una condicio sine qua non, cioè senza la quale non si può né portare avanti una politica di bilancio pubblico espansiva, né un allagamento dell’intervento pubblico, mediante vere pubblicizzazioni di banche o aziende di carattere strategico, né tantomeno difendere efficacemente salari e welfare. All’interno dell’euro si può e si deve lottare per il lavoro, il salario e il welfare, ma non ci sono le condizioni per dispiegare con efficacia tale lotta.

Il superamento della moneta comune europea non va confuso con un cedimento al nazionalismo, sul quale vale la pena fare qualche precisazione. Come i classici del marxismo hanno ripetuto più volte, da Marx e Engels a Luxemburg a Lenin, i nazionalismi non sono qualitativamente tutti uguali dal punto di vista di classei. Il loro carattere di classe dipende da come si collocano nei rapporti economici e sociali, soprattutto nell’epoca dell’imperialismo. Il nazionalismo della nazione oppressa dall’imperialismo e il nazionalismo dei Paesi imperialisti sono molto diversi tra loro. Ad esempio, non si può confondere il nazionalismo arabo, in particolare quello dei Palestinesi, che si oppongono al dominio neocoloniale israeliano con il nazionalismo italiano novecentesco che fece da giustificazione all’invasione coloniale della Libia e dell’Etiopia. Oggi, l’ideologia maggiormente coerente con il capitalismo e con l’imperialismo nella forma globalizzata, non è tanto quella nazionalistica quanto quella cosmopolita. Ciò non toglie che nel concreto possano realizzarsi delle combinazioni tra le due tendenze idoelogico-politiche, ma l’aspetto globalista e cosmopolita tende a prevalere, a meno di cambiamenti strutturali. Ciò, però, non significa che lo stato nazionale non si faccia carico di difendere i settori a base nazionale del capitale, anche se questi agiscono a un livello transnazionale o multinazionale, all’interno di una dialettica tra stati e frazioni di capitale europei. Quello che vogliamo dire è che il capitale non si può schematizzare e che il capitale europeo non ha interesse ad adottare una ideologia nazionalista organica, così come non ha necessariamente interesse alla diffusione di massa della xenofobia o del rifiuto degli immigrati. Al di là di certi livelli, la tendenza xenofoba supererebbe i vantaggi dati dalla divisione interna al lavoro salariato e, determinando il blocco dei flussi di immigrati, potrebbe ostacolare la creazione di una massa di disoccupati e occupati precari, cioè di quell’esercito industriale di riserva che è vitale per l’accumulazione di capitale, specialmente nell’attuale contesto di riduzione e di invecchiamento della popolazione europea. Secondo lo scenario demografico delineato da Eurostat, la popolazione della Ue, senza l’apporto degli immigrati, nel 2060 sarebbe inferiore di 60 milioni a quella del 2015, e la popolazione della Germania sarebbe inferiore di 18,5 milioniii. Non è un caso che il paese più aperto all’immigrazione sia proprio la Germania, che, avendo il più basso tasso di natalità e la popolazioni più anziana in Europa, ha bisogno di un flusso continuo e consistente di immigrati se vuole mantenere il suo ruolo di potenza economica mondiale. Né è un caso, dall’altra parte, che proprio il liberale e europeista Macron, che avrebbe dovuto salvare l’unità europea, proprio sugli immigrati rifiuti di collaborare con l’Italia (ma non era la Le Pen quella anti-immigrati?). Infatti, sempre tra 2015 e 2060, la Francia sarebbe l’unico Paese europeo (insieme a Irlanda e Norvegia) a aumentare la sua popolazione, anche senza immigrati, di 3,2 milioni, superando la Germania come Paese più popoloso d’Europa. È, quindi, evidente che dietro l’immigrazione ci sono potenti interessi, accentuati dal fatto che l’immigrazione incide sulla modificazione dei rapporti di forza e di potere tra i Paesi più importanti dell’Europa.

L’ideologia xenofoba e nazionalistica, oltre a essere agitata da forze piccolo-borghesi, alcune volte ma non sempre di origine neo-fascista, diventa espressione di una parte delle masse lavoratrici salariate, spesso ridotte alla condizione di sottoproletariato dalla internazionalizzazione dell’economia, dalle delocalizzazioni e dall’austerity europea. Per la verità, è persino difficile qualificare come nazionalismo l’insieme contraddittorio e multiforme delle posizioni che emergono un po’ dappertutto in Europa. Quello che chiamiamo ripresa del nazionalismo non si caratterizza per l’esaltazione della propria identità contro gli altri Paesi europei, né appare essere un sostegno ideologico all’aggressione militare e all’espansionismo imperialista, come nell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento. A guidare l’interventismo militare occidentale negli ultimi decenni sono state dirigenze politiche tutt’altro che classicamente nazionaliste e che semmai si sono caratterizzate per un orientamento globalista e cosmopolita, come quelle liberal e socialdemocratiche di Clinton, Blair, D’Alema e Hollande. Al contrario, il “nazionalismo” attuale ha un carattere difensivo, di reazione verso i costi della globalizzazione e della integrazione europea. Oggi, l’aggressione e l’espansionismo in Europa avvengono direttamente sul piano economico, mediante meccanismi “neutrali”, che si servono dell’integrazione monetaria e economica europea. La Germania attuale, a differenza di quella guglielmina e di quella nazista, non elimina le resistenze interne del lavoro salariato e non raggiunge l’egemonia in Europa mediante la violenza aperta, ma mediante i meccanismi impersonali del mercato, di cui l’euro e i vincoli di bilancio europei sono “facilitatori”. A “spezzare le reni” alla Grecia questa volta non sono state le colonne di panzer germanici ma i vincoli del Fiscal compact e dell’euro.

 

Coscienza politica di classe

Insomma, è accaduto quello che accade in questi casi: le classi subalterne, in assenza di una ideologia e di una soggettività politica organizzata, che siano autonome espressioni dei loro interessi, adottano l’ideologia immediatamente disponibile, o che nasce spontaneamente sulla base delle percezioni soggettive. In altri termini, prevale quello che Lukacs chiamava il “pensiero della vita quotidiana”, cioè una coscienza della realtà e del mondo basata su esperienze immediate, particolari e frammentate, invece che sulla costruzione di una visione organica e generale di classe, basata sulla comprensione scientifica delle cause degli eventi socialiiii. Oggi, chi voglia ricostruire un antagonismo e una coscienza di classe è costretto a procedere faticosamente in mezzo a un coacervo di tendenze contrastanti. La prima tendenza è quella che indirizza i lavoratori o verso avversari secondari e “superficiali”, come la politica e i partiti, compresi indistintamente nella non categoria della “casta”, o contro avversari fittizi, come gli immigrati. La seconda è quella che si fonda sulla combinazione di globalismo (che in Europa assume la forma dell’europeismo), e di una cultura basata sui diritti della persona astratta, e, quindi, sulle diversità e sulla difesa delle minoranze, declinate, però, in alternativa (e in implicita contrapposizione) alla contraddizione tra lavoro-salariato e capitale e soprattutto alla trasformazione dei rapporti di produzione. La terza consiste in una concezione fondamentalmente anarchica dello Stato, che considera lo Stato tout court il nemico, indipendentemente dal suo carattere di classe e finisce per ignorarlo come obiettivo e terreno della lotta. Di conseguenza, non ci si pone l’obiettivo di lottare per l’abbattimento dello stato del capitale e per la sua trasformazione in senso democratico e socialista. Si pensa di poter agire al di fuori e a prescindere dallo Stato, creando spazi sociali paralleli a quelli del capitale e illusoriamente “liberati”. Di conseguenza, la globalizzazione viene persino considerata positiva nella misura in cui permetterebbe di superare e rendere obsoleto lo Stato, identificato con lo stato nazione, liberando così le possibilità di riscatto delle “moltitudini”. La quarta tendenza, conseguenza delle precedenti tendenze, consiste nel rifiuto della politica, che si estende fino al rifiuto della forma del partito politico. In alcuni casi si tratta di un rifiuto consapevole, in altri della implicita fuoriuscita dal terreno della politica. Per politica intendiamo l’orientamento a muoversi sul terreno dei rapporti di forza complessivi tra le classi per realizzare la loro modificazione. Marx prima e Lenin poi hanno definito l’azione politica da parte del lavoro salariato come la capacità di superare il particolare per andare al generale. Ciò significa andare oltre la lotta che contrappone il singolo capitalista ai suoi operai o persino oltre la lotta che oppone l’insieme dei capitalisti all’insieme degli operai per andare sul terreno dei rapporti e della lotta fra tutte le classi, che avesse come obiettivo la lotta contro lo Stato, inteso come sintesi della generalità dei rapporti sociali. Lenin definiva la tendenza particolaristica con il termine di economicismo o di trade-unionismo, perché impersonata dal sindacato, e quella generale come coscienza di classe, questa sarebbe dovuta provenire dall’esterno. Ma, al contrario di come alcuni hanno voluto interpretare, l’”esterno” per Lenin non è il partito, inteso come avanguardia separata e detentrice di una verità assoluta da calare nelle teste dei lavoratori, bensì è il processo esperienziale delle lotte generali, la capacità di ricollegare nella pratica particolare e generale, tattica e strategia:

“La coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il campo dal quale soltanto è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti tra tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi.”iv

Ovviamente con questo Lenin non intendeva giudicare inutile la lotta economica o le lotte spontanee dei subalterni, ma evidenziava la necessità di costruire una sintesi dialettica e più alta delle lotte economiche e politiche. Del resto, la storia della sinistra di classe in Europa e negli Stati Uniti dagli anni ’70 e ’80 dell’Ottocento agli anni ’70 del Novecento è il tentativo, a volte riuscito a volte fallito, di combinare l’economico e il politico, superandone la separazione determinata dalla struttura stessa dei rapporti sociali capitalistici e dalla dialettica politico-rappresentativa borghese. Oggi, la frammentazione e il particolarismo delle lotte sono molto più accentuati che all’inizio del Novecento. Non esiste soltanto un problema di economicismo, cioè di restringimento delle lotte dei salariati entro il perimetro della mera rivendicazione economica e dell’ambiente lavorativo. La contraddizione tra lavoro salariato e capitale è percepita all’interno della sinistra, a partire dagli anni ’80-’90, sempre come più secondaria, confondendosi in mezzo a una serie di altre tematiche, che non vengono collegate tra di loro né – ed è l’aspetto peggiore - a una critica globale al sistema capitalistico. La tendenza dominante è quella a sviluppare lotte a un livello sempre più particolaristico e locale, fino ad arrivare a quelle lotte autoreferenziali che sono definite con l’acronimo inglese nimby (not in my backyard, cioè non nel mio giardino di casa). In genere, si tratta di lotte che, non solo sono senza collegamento con una critica al modo di produzione capitalistico, ma che fondamentalmente sono scollegate da una interpretazione più complessiva delle relazioni economiche e sociali e, quindi, sono incapaci di prospettate alternative e soluzioni realistiche ed efficaci anche nel contesto dei rapporti di produzione vigenti. Spesso tale approccio è motivato dalla sfiducia verso una prospettiva di cambiamento complessivo e dalla erronea convinzione che il perseguimento di obiettivi limitati sia il modo migliore per risolvere i propri problemi.

 

Cos’è la politica e come recuperare un discorso politico di classe

In un tale contesto la politica non ha spazio. Ovviamente non ha spazio la politica in senso proprio, cioè quella intesa come critica e modifica dei rapporti di forza generali e delle condizioni complessive delle classi subalterne. Visto che le linee guida generali su cui si muove la società sono decise a livello governativo e intergovernativo e si manifestano come conseguenza dei meccanismi impersonali dei mercati, la politica si riduce a scontro di potere tra fazioni della classe dominante, degenerando in accaparramento privato di risorse pubbliche, particolarismo e scambio locale di favori, ecc. È naturale che, in un tale contesto, venga meno la necessità e la spinta al dibattito e al confronto ideologico e programmatico interno ai partiti. Ciò rende asfittica la vita democratica interna ai partiti e facilita l’emergere, al livello nazionale, del leaderismo personalistico e, al livello locale, dei potentati e del notabilato, generando al contempo, insieme alle privatizzazioni e alle esternalizzazioni dei servizi pubblici, un terreno fertile per lo sviluppo di fenomeni di corruzione e criminalità politica. Di fronte alla percezione della inutilità della politica ad affrontare le questioni veramente nodali - dalla disoccupazione di massa al collasso dei servizi essenziali a livello nazionale e locale -, l’astensionismo cresce dappertutto in Europa. L’unico margine di partecipazione, lasciato ai cittadini dai sistemi elettorali maggioritari, è la scelta del “meno peggio” o la speranza della sostituzione di un partito con un altro al governo del Paese, sulla base di una valutazione il più delle volte morale, come se le cause della crisi fossero dovute alla maggiore o minore onestà o alla semplice efficienza del ceto politico e non invece ai rapporti di produzione, alle scelte di politica economica e ai meccanismi valutari, all’interno dei quali quelle scelte vengono attuate.

La politica, come abbiamo detto, è capacità di operare su di un piano generale. Quindi, compito principale di un partito è, in primo luogo, definire e fornire ai suoi riferenti sociali un indirizzo, un orientamento generale. Ne consegue che l’abilità di un vero politico consiste nel capire qual è l’anello principale della catena dei fatti complessi e multiformi della realtà e tenerlo saldamente in pugno. La ricostruzione di una linea e di una organizzazione politica delle classi subalterne passa, quindi, per il recupero di una prospettiva generale, che superi, inglobandole in modo organico, le particolarità locali e le specificità tematiche in una critica complessiva al responsabile delle situazione, cioè il modo di produzione capitalistico. Qual è oggi l’anello principale che si deve tenere in pugno? Secondo la nostra opinione, per le ragioni fin qui esposte, è l’integrazione europea e in particolare l’integrazione valutaria. In effetti, non è credibile lottare per la sanità, per il salario, per la creazione di posti di lavoro, per i servizi del proprio comune se si cozza contro la gabbia dell’integrazione europea, soprattutto valutaria. Né è possibile lottare per altre questioni, comprese quelle di genere e ambientali, se non ci si pone la questione dell’Europa. Inoltre, attaccare l’austerity e l’euro vuol dire attaccare il capitale non solo nel suo punto centrale, ma anche lì dove è più facile far leva, perché è lì che l’avversario è più debole. È nella sbilenca costruzione europea e nella tutt’altro che ottimale unione monetaria che il capitale europeo mostra più chiaramente le sue irrisolvibili contraddizioni. In questo senso, l’obiettivo del superamento dell’euro permette di recuperare i salariati, i disoccupati e i giovani alla partecipazione politica e di ricostruire una coscienza di classe a livello europeo.

Infatti, l’euro determina non la convergenza dei Paesi europei, bensì, ampliando i divari economici, aumenta la divergenza tra i Paesi europei e tra le classi all’interno dei singoli Paesi. L’aumento dei divari economici tra Paesi e classi e l’espulsione di vaste masse dal mondo del lavoro garantito e dalla capacità di incidere sul processo decisionale, hanno causato la disaffezione verso la politica e i partiti tradizionali di centro-sinistra e centro-destra e un conseguente vuoto di rappresentanza. In assenza di una risposta adeguata da parte delle forze politiche della sinistra antagonista e del lavoro, ciò ha costituito il terreno favorevole, oltre che per l’aumento dell’astensionismo, per lo sviluppo delle uniche forze che si sono presentate sulla scena. Sono le forze di estrema destra, xenofobe, nazionaliste o legate a espressioni di una critica superficiale e moralistica al sistema della politica. L’euro, in quanto espressione e risposta del capitale alla sua crisi strutturale, ha contribuito in modo determinante a riprodurre in Europa occidentale il nazionalismo e la xenofobia a livello di massa, per la prima volta dopo settanta anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. I meccanismi dell’integrazione valutaria creano o approfondiscono le divisioni tra le classi operaie dei singoli Paesi, mettendole in competizione le une contro le altre sul piano salariale e della riduzione del welfare e dividendo i popoli in “cicale” e spreconi, come i greci e gli italiani, e in “formiche” e probi, come i tedeschi. Ben altro, quindi, che lo sviluppo di solidarietà e valori comuni, ben altro che il superamento del nazionalismo e la ricomposizione di classe grazie alla globalizzazione e all’Europa. Solamente una elaborazione politica che metta al centro la pratica dell’obiettivo del superamento dell’euro, collegandola a una critica dei rapporti di produzione, alla crisi del capitale e al neoliberismo, può permettere di rilanciare una politica che sia insieme efficace a livello nazionale e internazionalista a livello europeo, permettendo alla sinistra di classe di ricreare una forza politica che non sia vista come residuale e ormai destinata al cimitero della storia.

Per concludere, lo scopo di una organizzazione politica della classe lavoratrice non deve essere soltanto quello di raggiungere determinati obiettivi pratici, di miglioramento delle condizioni di vita immediate dei lavoratori salariati, cioè di essere “utile”. Ovviamente, non stiamo dicendo che non sia importante rendersi utili e che ciò non sia importante per poter fondare un orientamento generale. Vogliamo dire che compito principale di una forza politica che intenda crescere e radicarsi è soprattutto quello di ragionare in prospettiva, sedimentando coscienza di classe, come base essenziale della costruzione di rapporti di forza progressivamente sempre più favorevoli. Ciò significa promuovere la maturazione nelle classi subalterne della consapevolezza dei rapporti di produzione, di come questi funzionino e di quali siano gli interessi complessivi dei salariati in quanto classe. Lo strumento di tale sedimentazione non può limitarsi alla diffusione ideologica, sebbene la elaborazione e la diffusione di una visione del mondo organica e scientifica sia fondamentale. La sedimentazione della coscienza di classe a livello più largo non può che avvenire sul terreno della politica, nel senso più alto del termine, dimostrando a quanti sono sfiduciati e si astengono e che un’altra politica è possibile. Una politica diversa da quella delle lotte per questo o quell’obiettivo particolare o dalla competizione per qualche punto percentuale in più o in meno di voti allo scopo di superare uno sbarramento elettorale.

La politica è uno strumento di trasformazione soltanto quando la strategia di trasformazione della realtà in senso complessivo e socialista si collega con la tattica, cioè con la capacità di identificare e tenere con mano salda gli anelli che risultano di volta in volta decisivi nella catena del divenire storico della società capitalistica. Oggi, in Europa occidentale, questo anello è rappresentato dall’integrazione economica e valutaria.


Note

i Lenin, Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale, in “L’internazionale comunista”, n.11, 14 giugno 1920.

ii Eurostat, Population on 1st January by age, sex and type of projection.

iii György Lukàcs, Estetica, volume primo, pp. 40-41, Einaudi, Milano 1975.

iv Lenin, Che fare?, in Lenin, Trockij, “Luxemburg, Rivoluzione e polemica sul partito”, Newton compton editori, Roma 1973, pag. 113.
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