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Record italiani

Rossana Rossanda

Il fine e la fine della transizione italiana dalla prima alla seconda Repubblica consisteva dunque nel cancellare dalla scena istituzionale qualsiasi sinistra proveniente dal movimento operaio. In verità siamo approdati non a una «seconda» Repubblica, ma a un tipo di repubblica finora inesistente nell'Europa postbellica. Anche con il comunismo reale all'angolo di casa la Germania ne ha mantenuto più che un residuo nella socialdemocrazia perché se a Bad Godesberg la Spd aveva dismesso ogni idea di trasformazione anticapitalista, il conflitto sociale restava legittimato, il lavoro dipendente andava organizzato e rappresentato. Se Andrea Ipsilanti si propone, anche con difficoltà, di allearsi con la Linke, significa che il problema è del tutto aperto. Anche il Labour, finita la seduzione di Tony Blair, è in fibrillazione.

Soltanto in Italia no. Bisognava liquidare ogni rappresentanza politica del conflitto sociale, consegnandolo alle manifestazioni di piazza o a sussulti di protesta che, come tutti sanno, sono affare di polizia (un tempo dei «carabinieri a cavallo»). A questa operazione è servita una legge elettorale di cui tutti si vergognavano finché Veltroni ha capito che poteva servire all'uopo e ha deciso di «correre da solo» a costo di non vincere, tosto imitato da Silvio Berlusconi.

Non ci manca che consegnare a fine mese la capitale, Roma, nelle mani di un giovane ex fascista, e tutt'altro che stupido, e segneremo il record della destra in Europa.

I politologi si rallegrano della semplificazione che ne è seguita, quattro partiti alla Camera e tre al Senato, che non più disturbati da una sinistra definita estremista e massimalista soltanto perché sollevava i suoi dubbi sui milioni di pensionati a 500 euro e i salari più bassi del continente, competeranno sulla crescita modello Montezemolo-Mercegaglia. Pd e Pdl concordano per mutare la Costituzione in senso presidenzialista, con questo interdicendone anche la prima parte, come limpidamente ha scritto Gianni Ferrara. Resta la domanda se sarà Veltroni a mangiare la Margherita alleandosi con l'Udc, o se la Margherita e l'Udc rifaranno un centro tutto democristiano sganciando Veltroni. Ma non è un dilemma appassionante.

Quanto al Popolo della Libertà, sola formazione di governo in Europa che accoglie gli ex fascisti e si spartirà i ministri con la Lega di Bossi, è anch'essa un primato. L'alternanza fra costoro è garantita, dato che in tempi di vacche magre ogni governo scontenta e alla scadenza cede il posto senza grandi variazioni al suo vis-à-vis.

Il vero senso della «modernizzazione» e «semplificazione» è messo a nudo, e forse farà impressione anche ai suoi più accesi araldi. Ma se Veltroni ne è stato «l'audace artefice», non è possibile attribuire a lui solo e al marchingegno di Calderoli il precipitare d'un processo di queste dimensioni. Con quella stessa legge era passata, sia pur sul filo di lana, la maggioranza di Prodi (e resta misterioso perché Prodi, Bertinotti e Marini non si siano affrettati per prima cosa a cambiarla). Né si può ridurre alle trappole d'un sistema elettivo il fatto che i tre quarti di quello che era ancora pochi anni fa l'arcipelago a sinistra dell'Unione - e del quale Alberto Asor Rosa aveva tentato qualche coordinamento ricevendo strali da tutte le parti - nonché metà dell'elettorato stabile di Rifondazione siano confluiti nel Pd. Il quale a sua volta non è riuscito nemmeno a scalfire né il centro né la Lega. Il primo ha alle spalle la gerarchia vaticana e la seconda ci interpella con violenza: l'essere il partito più forte in città decisive del nord e il penetrare ormai anche altrove dimostra che quello che avevamo considerato una patologia parossistica e transitoria - eppure c'era chi ci aveva messo in guardia - segnala invece un radicamento politico-sociale impressionante.

Sia la ex Sinistra Arcobaleno sia la «società civile» dei territori e dei movimenti sembrano ancora una volta rispondere dividendosi, deriva classica delle disfatte. La ricerca delle colpe reciproche va a tutto vapore - non è difficile. Il tentativo di mettere al centro il che fare invece d'un regolamento dei conti sembra fallito. Nel suo piccolo, anche il gatto del lunedì ha fatto l'ennesimo plof.

Eppure quel che accade va inserito nell'onda lunga che viene dalla crisi dei comunismi e socialismi, e che la caduta del Muro di Berlino e quel che ne è seguito simboleggia nelle sue speranze e nei suoi limiti. L'obsolescenza di quella tradizione è venuta clamorosamente in luce con il movimento, davvero mondiale, del 1968, aborrito dagli stati e rimandato a un delirio di giovinezza dalla maggioranza dei suoi stessi leader. «Oublier mai '68», dimenticare il maggio, è l'eloquente titolo del volume appena uscito a Parigi di Daniel Cohn-Bendit. Ma le classi dominanti non si erano ingannate, e ne è seguita una ristrutturazione delle forme di produzione e della finanziarizzazione che non ha guardato in faccia né gli assetti della proprietà né quelli degli stati, e ha messo per così dire tutto il mondo al lavoro ai fini dell'accumulazione capitalistica. Mai è stata così estesa la proletarizzazione come ora. E però mai è stata così debole e inadeguata la sua rappresentanza politica e una ricostruzione delle forme di resistenza alla mercificazione totale del vivente. Mai proletari e dominati sono stati così privi d'un referente e d'una elaborazione a misura del cambiamento.

Usa dire da tutte le parti che l'operaio non c'è più: come se fosse mai esistito come figura sociale senza una soggettività politica collettiva. Mancandone, esso non è che alienazione pura, forza di lavoro fisico o mentale, fatica che si dibatte in un flusso accelerato di trasformazioni che non domina e che lo risucchiano. La coscienza operaia immediata non riesce a svincolarsi né dalla pressione dell'impresa a pagare il lavoro sempre meno - arrivata al culmine con l'usa e getta del precariato - né dalla perdita di fiducia che un altro sistema sia possibile. Così si spiega la deriva del comunismo italiano che pur aveva segnato felicemente per qualche decennio il paese e il formarsi e tracollare di movimenti e soggetti incapaci di egemonia. Penso alle assemblee del 1968 e 1969, al fermento degli anni '70, alle vicende dei gruppi extraparlamentari. Le tappe delle assenze o degli errori o delle colpe sono fin troppo evidenti: dall'insensato calo di Lama all'Università di Roma, finito a botte fra il servizio d'ordine del sindacato e i movimenti e l'ingloriosa cacciata del segretario della più grande confederazione sindacale italiana, alla risposta, altrettanto miope, del movimento o con il ripiegare o con le armi o con l'attacco ai garantiti, che già non lo erano più. I 35 giorni alla Fiat hanno segnato nel conflitto sociale la rotta che queste ultime elezioni segnano sulla scena politica. Poi tutto si disperde nel mutamento dell'organizzazione del lavoro e della proprietà, che oggi informano la mondializzazione e dove sono in incubazione le guerre commerciali fra i centri occidentali ed asiatici della crescita.

Nel medesimo tempo si sono andate sviluppando nel corpo sociale nuovi soggetti di protesta o affermazione che anche quando non si lasciano abbattere, come il femminismo, o diventano oggetto di rivoluzione passiva, come può accadere all'ecologia, o infine non si perdono in velleità identitarie, non sono in grado di collegarsi e anzi tendono reciprocamente a escludersi. Forse, e qui ha ragione Gramsci, i processi liberatori iniziano più dallo spirito di scissione che da una solidarietà di interessi. Ma ora come ora è la frammentazione a dominare.

Intanto, dalla fine degli anni '60 ad oggi, l'Italia è tutta attraversata dalle tensioni che si sono dispiegate, non senza morti e feriti. Ma non c'è un bilancio che dia ragione del passato per capire come reagire al presente. Sembra che ognuno abbia sofferto per conto suo. E sull'inquietudine e scontento si è venuto rigenerando uno scenario politico che nessuno di noi, neanche i più pessimisti, prevedevano. E vi galleggia sopra. Ma poi non tanto, se metà del paese gravita ormai attorno a un modello di arricchimento personale e di consumo che non esita a farsi largo a gomitate. Se la democrazia rappresentativa non produrrà mai una rivoluzione, le forme di repressione che può produrre sono molte. Non usciremo senza piaghe dai prossimi cinque anni.

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