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La crisi marxista del Novecento: un’ipotesi d’interpretazione

di Stefano Garroni

schiele127“Tempo, incomincio qui la storia di Lenin.
Non perché la tristezza sia spenta,

ma perché quell’angoscia
s’è fatta chiaro cosciente dolore.
O tempo, scatena ancora
Le parole d’ordine leniniste.
Dobbiamo forse affondare
In uno stagno di lacrime?”
(Majakovskij)

Quelle che qui seguono sono schematiche osservazioni, spero raccolte con una certa logica e sistematicità, il cui scopo è prospettare una possibilità di lettura d’un groviglio di eventi, quanto mai complicato e dalle molte sfaccettature, che – nonostante certa uggiosa retorica <novista> – costituiscono tuttora la nostra contemporaneità. Che si tratti di una possibilità di lettura significa non solo il limite della mia cultura (ad es., non sono un economista, né uno storico), ma anche che la cosa stessa si dispone secondo diverse prospettive e angolazioni (aspetto questo che certamente non meraviglia chi abbia qualche familiarità con la dialetticità della storia). Come che sia, non è dubbio che quanto andrò scrivendo non solo è unilaterale, ma anche passibile di revisioni (anche profonde) per me stesso – se lo studio ulteriore portasse a conclusioni non compatibili con l’ipotesi, che qui schematicamente espongo.

 

1. A mio avviso, sarebbe un grave errore affrontare la questione del movimento comunista nel secolo passato, in termini eminentemente teorici.

Sarebbe un grave errore, per due motivi: (a) perché rischierebbe, in generale, di proporre una visione non razionale, ma sì intellettualistica del movimento storico; e (b) perché perderebbe, forse, proprio il tratto specifico della situazione in analisi. Più in dettaglio, è questo che voglio dire.

(a) Un tema fondamentale della prospettiva dialettica di pensiero è quello della realizzazione della filosofia: le pagine di Hegel e di Marx non lasciano dubbi circa il significato della cosa.

La filosofia – e in generale la coscienza teorica – è l’espressione, nel pensiero, delle strutture dinamiche fondamentali1 di un’epoca; il che comporta che la filosofia (la coscienza teorica) deve cogliersi come momento ed espressione del movimento storico-sociale ma, nello stesso tempo, significa che quest’ultimo deve riconoscere nelle esigenze della filosofia/teoria le sue proprie esigenze.

Se ciò è vero, esiste allora un’integrazione profonda fra ciò, che di fondamentale, avviene al livello del movimento storico-sociale e ciò che (di fondamentale!) avviene al livello della teoria.

Dunque, i due lati della medaglia (movimento e teoria) non sono comprensibili, se non relazionati l’uno all’altro. E, quindi, per scadere nella volgarità dell’esempio, coloro i quali scrivono <mai più Stalin!> sono paragonabili alle sterili anime belle, nel senso che sfuggono a qualunque analisi che ci faccia comprendere come, in quale contesto, di fronte a quali contraddizioni (internazionali e nazionali) si è andato costituendo, ciò che del tutto impropriamente siamo abituati a denotare stalinismo. Insomma, costoro – per principio – non ci mettono in condizione di capire cosa di sostanziale si sia espresso anche in quel periodo.

Ben al contrario, la questione è, invece, proprio questa: non porsi di fronte all’avvenimento storico, con il puro atteggiamento dello spirito giudicante, che dall’esterno degli eventi approva e condanna; sì piuttosto comprendere la logica di certi processi storici, nella sua essenzialità e determinatezza.

È questo che significa assumere un atteggiamento razionale e non intellettualistico o, se si preferisce (perché di fatto è la stessa cosa) porsi dialetticamente di fronte alla storia.

(b) A ciò va aggiunto quello che, probabilmente, è un essenziale tratto specifico del periodo storico, che ci interessa – mi riferisco a quel paradosso, che già Merleau Ponty in qualche modo denunciava in un suo noto scritto2.

La vicenda storica (la Rivoluzione d’Ottobre), che inizia nella forma di una realistica scommessa (tutte le grandi azioni, politiche o non, sono in qualche misura scommesse e, dunque, implicano il rischio di uno scacco); ma che, in corso d’opera, vede trasformarsi la situazione obiettiva e le sue prospettive (sconfitta in Polonia e in Germania), con il risultato che un processo, il cui naturale sbocco era giungere ad un punto alto dello sviluppo scientifico, tecnologico, politico e culturale (e così infliggere un effettivo colpo alla dominazione del mercato mondiale capitalistico, legando civiltà tedesca con risorse e popolazione russe), proprio questo processo, proprio quella vicenda storica si vedono costretti, invece, a rinserrarsi nella ‘barbarie dell’arretratezza’ (Lenin)3.

Naturalmente, non è qui il luogo per tentare una ricostruzione storica, in qualche misura dettagliata, di codesto drammatico svolgimento. Ciò che solo possiamo fare, probabilmente, è richiamare – sia pure a larghi tratti – le conseguenze (o, almeno, alcune conseguenze) di quel mutamento di circostanze obiettive, a cui facevo riferimento. Tuttavia, anche qui, vale forse la pena di fare un’osservazione preliminare.

È ben vero che la storia del movimento comunista (come anche la storia del marxismo) è stata sostanzialmente trascurata, tranne pochissime eccezioni, proprio da parte comunista ed è anche vero che moltissime delle cose scritte in proposito (sempre da parte comunista) valgono a disonore del movimento piuttosto che essere esempi, in qualche misura proponibili, di indagine scientifica. Sarebbe errato, tuttavia, ritenere che qualche punto di consapevolezza non sia stato raggiunto.

In questa misura, possiamo tentare un ragionamento, che, basandosi su punti ormai acquisiti, stimoli almeno ad ulteriori ricerche e contribuisca (sarebbe un risultato davvero enorme. Anche se tardivo) a rendere meno credibile una certa apologetica, una certa valutazione acritica (a proposito di eventi e di personaggi), che ancora per molti si identifica perfino con la stessa teoria marxista. Valga un esempio.

Com’è noto il 24 dicembre del 1917 Gramsci pubblicò sull’Avanti! un articolo dallo choccante titolo “La rivoluzione contro il Capitale”: il contenuto dello scritto giustificava appieno la smarrita sorpresa che il titolo destava.

La rivoluzione dei bolsceviki […] è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppur pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolsceviki rinnegano Carlo Marx, affermano, e con la testimonianza dell’azione esplicita, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così ferrei come si potrebbe pensare e si è pensato4.

Per quanto possa sorprendere a tutta prima, la tesi di Gramsci è, nella sostanza, rigorosa (quali che siano le influenze, che su di essa potesse di fatto avere l’attualismo gentiliano): con Struve in Russia, con varie e diverse fonti nella II Internazionale, sta di fatto che la lettura di Marx, considerata all’epoca ortodossa, era fortemente segnata dal darwinismo sociale, dal positivismo, dall’evoluzionismo, per cui la dialettica storica era ridotta ad una riedizione dell’oggettivismo, di cui la mente e la volontà umane non potevano far altro che prender atto5.

Insomma, così e così procede la storia – questo si pensava – e l’uomo non deve far altro che riprodurre tale procedere nella propria mente e adeguarvi il proprio comportamento.

Va da sé che in questo modo – intendo contrapponendo rigidamente soggetto (l’uomo) e oggetto (la storia) – la dialettica scompariva e si imponeva, invece, una concezione naturalistica della storia (di cui l’economicismo è parte inevitabile). Ma il merito di Gramsci va al di là: si noti infatti come egli descrive la riflessione di Lenin e dei bolscevico-leninisti. Se – egli scrive –

i bolsceviki rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono <marxisti>, ecco tutto, non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore, di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco […]. E questo pensiero pone sempre come massimo fattore di storia non i fatti economici, bruti, ma l’uomo, ma le società degli uomini, degli uomini che si accostano tra di loro, sviluppano attraverso questi contatti (civiltà) una volontà sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici, e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diviene la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebollizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace6.

Ancora una volta l’influenza su Gramsci dell’attualismo gentiliano è evidente e pressoché esplicita. Conta, però, sottolineare con forza la contrapposizione, che Gramsci opera tra un marxismo, ortodosso, che è evoluzionista, scientista, predeterminista nel senso della lettura economica della storia; ed un marxismo, invece, che è dialettico, che vive dell’eredità idealistica7 e che riconosce alla coscienza un ruolo determinante la vicenda storica8.

È chiara, dunque, nella prospettiva di Gramsci la contrapposizione tra un marxismo, irrigidito negli schemi sistematici e dogmatici9 dell’ortodossia così detta, ed un marxismo (di Lenin!), che invece è radicalmente dialettico.

È estremamente interessante notare che se finora Gramsci ha contrapposto il pensiero bolscevico-leninista all’oggettivismo secondo-internazionalista, quando si occuperà di caratterizzare l’ortodossia della terza internazionale, farà ricorso a termini strettamente analoghi. Valga per tutti un esempio (fra i tanti possibili).

Nella raccolta di scritti dei Quaderni de carcere, edita col titolo Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Gramsci10 dice degli ortodossi terzo-internazionalisti che sono, sostanzialmente, marxisti di formazione positivistica e scientista (notiamo che Gramsci porta l’esempio di Plechanov). Coloro che hanno cercato, invece, di realizzare un’influenza del marxismo sull’ambiente filosofico, generalmente, hanno operato a contatto con correnti idealistiche. La conseguenza è che gli ortodossi hanno ignorato l’influenza filosofica del marxismo. Ciò che caratterizza gli ortodossi è il fatto di assumere come filosofia del marxismo il materialismo volgare.

Come si vede, le due ortodossie – della seconda e della terza Internazionale – appaiono a Gramsci sostanzialmente una cosa sola.

Ed oggi noi possiamo affermare una consonanza profonda tra Gramsci e Lukàcs, dacché quest’ultimo, rispondendo, nel 1925, ai critici di Storia e coscienza di classe, sottolineava come il marxismo, ufficializzato dalla Terza Internazionale di Stalin e di Bucharin, non tanto avesse Lenin a proprio fondamento, quanto piuttosto Plechanov11 ed esibisse esattamente le caratteristiche attribuitegli da Gramsci.

Si comprende bene l’importanza di questa convergenza Gramsci/Lukàcs: quando alcuni imbecilli (o provocatori) pretendono oggi di azzerare il ‘marxismo del Novecento’, mostrano (o fingono) di ignorare che i confini tra marxismo novecentesco e ottocentesco sono sufficientemente vaghi; come anche che è, in sé, vaga l’espressione ‘marxismo del Novecento’ – infatti, cosa si intende con essa? L’‘ortodossia’ sovietica – di fatto, smentita dalle stesse grandi opere della cultura sovietica del Novecento –, oppure costruzioni così diverse, come, poniamo, il marxismo di Gramsci, o di Lukàcs o di Zhdanov o di Bucharin, ecc.?

La realtà è questa: il fatto che il processo di costruzione di una società di transizione al comunismo dovesse – per forza di cose, non per scelta o per inedita fondazione teorica – svolgersi nel confine dell’arretratezza e, almeno in certi momenti, con l’apparente prospettiva di ulteriore svolgimenti in Oriente e non nel luogo di nascita (di origine e di giustificazione) del marxismo stesso, ha comportato oggettivi prezzi da pagare12.

Ad es., lo stravolgimento della lezione di Marx e di Lenin, nel senso di uno scientismo, volgarmente materialistico e più pragmatico che dialettico13 (qui trova posto la fallacia politicistica – ovvero, la tendenza a ridurre il significato di un evento culturale al senso, ch’esso può avere in un certo contesto di lotta di classe); la perdita conseguente della capacità critica, trasformativa e liberatoria del marxismo in quanto pensiero dialettico e l’innaturale chiudersi, infine, della cultura marxista entro pretese sue proprie leggi di sviluppo, del tutto autonome dal confronto con i momenti alti della scienza e della cultura dell’Occidente (confronto fitto e continuo, che invece aveva reso possibile, a suo tempo, la nascita stessa e lo sviluppo della riflessione di Marx e di Lenin).

E d’altra parte, comprendiamo tutti perfettamente che il costituirsi di una ideologia – rigida, sistematica, compatta (quale appare dai tanti manuali di marxismo-leninismo, che furono pubblicati) – solo in parte corrisponde alla generale esigenza di conformismo, che qualunque forma sociale richiede.

In realtà, quell’ideologia, in quella forma cristallizzatasi, corrisponde, anche, ad un preciso processo di verticalizzazione del potere che, pur svolgendosi apparentemente entro forme ‘leniniste’, in realtà marciava in una direzione opposta, in quanto sanciva un distacco invalicabile fra i centri di decisione e le varie forme di vita associata (soviet in testa), che avrebbero dovuto assicurare la crescente partecipazione popolare alla decisione economica e politica14.

Verticalizzazione, anch’essa, non ‘frutto del demonio’ o della mente perversa di qualcuno. Ma sì piuttosto arma difensiva di una Russia sovietica debole, militarmente assai esposta e continuo oggetto di sabotaggi, ricatti e tentativi di ribaltare la sua organizzazione politica e sociale.

Consultando in particolare il vol. 33 dell’Opera di Lenin –il quale comprende gli ultimi interventi del grande dirigente russo-, è formidabile notare sia l’enorme consapevolezza, che Lenin dimostra della drammaticità della situazione russa; sia la spregiudicatezza con cui di queste cose il Partito allora discutesse; sia infine la chiara coscienza che i drammatici fattori internazionali s’intrecciavano con dinamiche interne alla società sovietica, altrettanto drammatiche e pericolose.

Ancora una volta è proprio Lenin a mostrarsi attento e preoccupatissimo osservatore di questo intreccio esplosivo, che a suo avviso – apertamente dichiarato – avrebbe potuto condurre – addirittura, malgré lui, mediante l’azione del Partito – alla restaurazione del capitalismo!15

Ed un punto su cui Lenin insisteva era questo: <il socialismo non è fatto dal Partito ma dai lavoratori>; e, dunque, proprio compito del Partito doveva essere quello di favorire tutte le forme di più larga partecipazione popolare al governo del Paese. Ma qui si incontrava un ostacolo fondamentale: l’arretratezza della società russa, l’arretratezza delle sue masse lavoratrici. E quell’istituzione, che dava persino il nome alla nuova costruzione statuale – intendo, ovviamente, il soviet – stentava a definirsi, a prender corpo, oscillando costantemente tra l’essere la cellula di base del nuovo potere proletario, oppure una sorta di luogo di apprendimento politico per i lavoratori o, addirittura, uno strumento in mano al Partito per comprendere lo stato d’animo delle masse.

A render la situazione ancora più complessa, Lenin scorgeva il sorgere di un processo di burocratizzazione del nuovo potere proletario, capace non solo di emarginare i lavoratori dai momenti di decisione effettiva, ma anche di creare zone interne di privilegio e solidarietà, mafiose diremmo noi, che reinserivano negli istituti politici e statali la feccia dell’antico potere zarista.

Si aggiunga una terza componente. La sconfitta degli Imperi centrali – massimamente dell’Impero austro-ungarico – significò, certo, una stimolazione forte perché riprendessero forza tendenze separatistiche e nazionalistiche all’interno stesso dell’ex-Impero zarista, provocando situazioni di incertezza ed instabilità anche al nuovo potere proletario.

Insomma, ciò che conta comprendere è che l’isolamento della rivoluzione bolscevica e l’arretratezza complessiva della società russa (la quale emergeva tutta, una volta separata la Russia o dai suoi profondi legami con l’imperialismo internazionale, o dalla classe operaia dei Paesi capitalisticamente evoluti), inevitabilmente, conducevano ad una costruzione del nuovo potere proletario, che scartava dalle grandi linee del progetto leniniano, snaturando in questo modo il senso e il ruolo di ogni categoria centrale, all’interno di quel progetto.

In questa prospettiva comprendiamo bene che ciò che abbiamo chiamato fallacia politicistica, o indicato come riduzionismo economicistico, non costituiscono esempi di cattiva interpretazione –quasi che un richiamo alla correttezza filologica potesse bastare a toglierli; ben al contrario, si tratta di processi assai più complessi e che, in ultima istanza, stanno a dire della pressione di una certa situazione storica sulla stessa interpretazione delle pagine di Marx e di Lenin e del modo di organizzarle e farle operare in funzione delle urgenze politiche che angustiavano la Russia sovietica. Qui forse vale fermarsi un attimo, per chiarir meglio un punto, allo scopo da allontanare ogni sospetto di intellettualismo dall’ipotesi interpretativa (parziale e unilaterale, evidentemente), che stiamo schematicamente prospettando.

Cosa possa voler dire “interpretare un testo” è problema complicatissimo – e legato, per altro, al tipo di testo di cui è questione. Alcuni punti, tuttavia, mi pare si possano elementarmente stabilire.

Un testo – ovviamente, sto pensando a Marx e a Lenin in particolare – è, a dir così, un circoscritto “campo” di possibili sensi o significati; una sorta di strumento o utensile, con il quale si possono compiere una serie di mosse (ma non altre), in certe forme (ma non altre). In questa accezione, dico che un testo è disponibile ad un certo “gioco” – così come si parla di un “gioco” possibile ad una certa leva, poniamo. Quale gioco esattamente?

Ovviamente, non si può rispondere a priori, perché un testo funziona, sempre, in un con-testo – in un ambiente, in una situazione. Ed il suo senso o significato è frutto del rinvio continuo tra domande, poste al testo dalla situazione, e risposte, che il testo è disponibile a dare, restando il “campo” o “gioco”, che lo caratterizza.

Se ciò è vero, allora è vero che l'interpretazione, che un certo testo riceve in una situazione data, è inseparabile dai caratteri propri del tempo, in cui quell'interpretazione vien data.

Detta in altre parole, l'interpretazione di un testo risulta dal rinvio tra possibilità di senso o significato a cui il testo è disponibile, da un lato, e domande che un certo tempo pone ad esso, da un altro. La conclusione è evidente: il nostro problema non è, al fondo, quello d'una insufficiente, lacunosa lettura di Marx e di Lenin; ma sì del modo in cui si sono usati certi testi, delle domande che, giusta una situazione storica data, abbiamo posto a certi testi, ad un determinato patrimonio di elaborazione teorica e politica.

La conclusione mi pare importante, perché aiuta a capire che l'interpretazione di un testo non è, appunto, un mero fatto intellettuale. Al contrario, quell’interpretazione rimanda subito – in realtà, con essi quasi si identifica – a quell'intreccio di bisogni, esigenze e possibilità, che sono la concretezza storica, politica e sociale di colui che interpreta il testo.

Nell'interpretazione, insomma, è anche il soggetto interpretante, che si rivela – nel nostro caso, un certo movimento comunista, di una certa fase storica. E questo soggetto, in rapida sintesi, è quel movimento comunista che – lo abbiamo visto –, fallite le possibilità rivoluzionarie in Germania e, in generale, nei punti alti dello sviluppo capitalistico, confina la propria azione (o è costretto a farlo) entro la “barbarie asiatica”.

Movimento comunista che è costretto, per altro, a forzare la realtà su cui opera allo scopo di conseguire un rapido processo di ammodernamento, per raggiungere il quale è costretto ad assegnare un ruolo centrale al potere politico, al Partito, ben più enfatizzato di quanto non prevedesse la stessa elaborazione leniniana.

Senonché, anche questa centralità della politica (e, quindi, del Partito e dello Stato, che, d’ora in poi, rivendicheranno a sé l'ultima parola in ogni ambito) sollecita ad un duplice immiserimento del marxismo – da un lato riducendo il concetto dialettico di praxis semplicemente a quello di pratica politica; dall’altro, facendo della teoria nulla più che una guida (scientifica!) per l’azione e, dunque, un supporto ideologico delle scelte (inevitabilmente momentanee), che l’istituto politico ritiene di dover prendere in contesti ben circoscritti e determinati16.

 

2. Letta la parte 1 di questo lavoro, dovrebbe risultar chiaro (sia per la sua specificità che per i suoi limiti) come tendo a mettere a fuoco il problema che ci interessa.

In questa parte 2 cambio, in un certo senso, di registro –m’interessa, infatti, soffermarmi su un certo nodo di questioni propriamente politiche, per ricavarne qualche conclusione più generale, capace (come mi sembra) di dar forza al ragionamento precedentemente condotto.

Per fare quanto mi riprometto, è necessario ‘partir di lontano’, nel senso che il mio tentativo è di isolare un tema –quello dell’Unione europea-, che già all’epoca della prima guerra mondiale era al centro dell’attenzione leninista, per seguirlo poi nel modo, in cui i comunisti lo affrontarono dopo la seconda guerra mondiale.

Naturalmente, a questo tema (ed in parte lo vedremo) se ne legano tanti altri, non solo propriamente politici, ma anche economici, militari e culturali; senonché, in buona parte dovremo, sciaguratamente, fare astrazione da tutto ciò, tranne per quelle connessioni, che permettono un richiamo ai temi, affrontati precedentemente da questo stesso lavoro. Vediamo.

Nel 1915, insieme a Zinov’ev, Lenin pubblica a Ginevra, sulla rivista Sozialdemokrat, un articolo “Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa”17: se per alcuni aspetti questo scritto risulta ormai ‘datato’, per altri al contrario mostra, a mio giudizio, spunti di grande attualità – ed è appunto su questi che ci soffermeremo.

In primo luogo, sembra fondamentale sottolineare la convinzione dei due autori, giusta la quale, se l’unificazione europea dovesse avvenire sotto l’egida della dominazione imperialistica, allora o fallirebbe o sarebbe di necessità una costruzione reazionaria.

Prescindiamo dal pur inevitabile richiamo alla nostra esperienza, che ci mostra con chiarezza non la ovvietà secondo cui reazionaria è l’Europa di Aznar e di Berlusconi, ma la circostanza (appena appena meno ovvia), per cui reazionaria è l’Europa dei Blair, dei D’Alema, dei Jospin, degli Schröder, cioè, di quella che oggi è la ‘socialdemocrazia’ (uso le virgolette, perché la socialdemocrazia senza virgolette, cioè quella di Kautsky –e perfino quella di Willy Brandt-, era ben altra faccenda!).

Prescindiamo da ciò (che però è un elemento importante, che corrobora il giudizio di Lenin e Zinov’ev), per andare alla radice teorica dell’affermazione dei due dirigenti russi.

Tale radice possiamo ricavarla da due giudizi molto chiari e netti.

(i) “l’epoca in cui la causa della democrazia e quella del socialismo erano legate alle sorti dell’Europa è definitivamente tramontata.”;

(ii) “le trasformazioni politiche dirette in un senso effettivamente democratico ed, a fortiori, le rivoluzioni politiche, non possono mai, in nessun caso, occultare o rendere più debole la parola d’ordine della rivoluzione socialista … le rivoluzioni politiche sono inevitabili lungo il cammino per la rivoluzione socialista, che non va considerata come un solo atto, ma come un’intera epoca di tumulti, di cambiamenti politici ed economici, di lotte di classe assai acute, di guerra civile, di rivoluzioni e di controrivoluzioni.”18

In (i) leggiamo la consapevolezza dei due rivoluzionari russi che la guerra mondiale segnerà il declino dell’Europa e l’emergere al suo posto della crescente egemonia statunitense; ma forse anche la consapevolezza dello sconvolgimento che dal rilancio del principio di nazionalità deriverà agli imperi coloniali europei (e non solo).

In (ii) Lenin e Zinov’ev problematizzano la nozione di democrazia, distinguendo tra effettiva democrazia e (liberal/) democrazia, caratterizzando la prima per la continuità, in cui si colloca rispetto all’obiettivo della rivoluzione comunista; ed è importante sottolineare che, per Lenin e Zinov’ev, solo l’effettiva democrazia deve esser perseguita dal movimento dei lavoratori –sottolineatura né retorica, né superflua, dacché (implicitamente) sollecita il movimento operaio a riconoscere nell’altra democrazia (quella che ho indicato come liberal/democrazia) qualcosa di estraneo al processo, che conduce verso la rivoluzione socialista19. Insomma, sto proponendo di interpretare l’affermazione di Lenin e Zinov’ev come un’implicita (ulteriore) polemica contro il parlamentarismo, malattia che angustia un movimento operaio, che non sa distinguere, appunto, tra liberal/democrazia e democrazia effettiva.

Nei primi anni venti il tema degli Stati uniti d’Europa interessa molto l’Internazionale Comunista ed è, appunto, in questo contesto che la Pravda del 30 giugno 1923 pubblica, perché venga discusso, un articolo di Trockij, allora importante dirigente del Partito bolscevico e dell’IC.20

Subito troviamo nello scritto di Trockij un motivo che, sia pure sotto forme mutate, sarà destinato ad una lunga fortuna all’interno del movimento comunista: per dare una prospettiva ai problemi, che angustiano l’Europa, - ritiene in sostanza Trockij- bisogna lanciare, combinate l’una con l’altra, le due parole d’ordine degli Stati uniti d’Europa e del governo operaio-contadino; ma subito lo stesso Trockij chiarisce che la formula <governo operaio e contadino> non vuol dire regime dei soviet, sì piuttosto una forma politica, che pur implicando un forte vincolo al capitalismo e il riconoscimento d’un importante ruolo politico dei lavoratori, non s’identifica comunque né col socialismo, né con la dittatura del proletariato.

Dunque, nel testo che Trockij propone alla discussione internazionale, da un lato, è ribadita di fatto la convinzione leniniana che un’Europa unificata sotto l’egida del capitalismo sarebbe inevitabilmente reazionaria; dall’altro lato, appare la tesi, secondo cui è realistico un regime politico (per quanto provvisorio), che si collochi nella possibile prospettiva socialista, pur non identificandosi ancora con essa – pur questo, in fin dei conti, potrebbe esser riconosciuto come motivo leniniano, se ricordiamo la distinzione tra democrazia effettiva e liberal/democrazia, su cui prima ci siamo soffermati.

Notiamo bene codesta problematica, perché –come avremo motivo di registrare- sarà viva tra i comunisti anche a partire dal secondo dopoguerra (sia pure, lo accennavo, in forme diverse).

E’ interessante, anche, come Trockij caratterizza i contrasti interni all’Europa capitalistica e imperialista, dandocene un quadro di grande attualità (ovviamente, con i mutamenti necessari, data la presenza degli USA).

La prima guerra mondiale, egli afferma, è stata fondamentalmente scontro fra capitali europei: infatti, se la Germania punta (e non da ora) a organizzare sotto il suo dominio l’Europa intera, per poi volgersi contro l’Inghilterra21; da parte sua la Francia, non avendo né la forza economica né quella militare della Germania, punta piuttosto a ‘balcanizzare’ l’Europa in funzione antitedesca. L’Inghilterra, infine, pur ostentando la propria indipendenza dal continente, tuttavia appoggia dietro le quinte la Francia.

Questa rapida disamina (che nel testo di Trockij è ovviamente più complessa e riguarda anche l’Italia, ad es., ed i Paesi balcanici) dei rapporti conflittuali all’interno dell’Europa, serve per giungere a questa duplice conclusione:

(a) “L’Europa non può sviluppare la sua economia entro le frontiere doganali e statali, che essa stessa si è imposta mediante il Trattato di Versailles. La borghesia è costretta ad abbattere queste frontiere, pena una completa decadenza economica; ma i metodi impiegati dalla borghesia dirigente per sopprimere quelle barriere, che ella stessa ha creato, non fanno che aumentare il caos e accelerare la disorganizzazione.”

(b) “L’incapacità della borghesia a risolvere i problemi essenziali della ricostruzione economica d’Europa si chiarisce in modo sempre più netto alle masse lavoratrici. La parola d’ordine del <governo operaio e contadino> si pone alla testa di questa crescente aspirazione dei lavoratori a trovare, con le loro stesse forze, una fuoriuscita dalla situazione critica.” In conclusione, mi sembra che si possa tentare questa ipotesi.

Dunque, già a partire dalla prima guerra mondiale l’ambiente, che poi diverrà comunista e bolscevico, segue con estrema attenzione la questione dell’unificazione politica dell’Europa; però, essendo profondamente convinto che la borghesia europea non sarà capace di superare le proprie discordie e darsi effettivamente un ordinamento continentale.

Ne consegue che è il proletariato a doversi far carico dell’obiettivo europeo, all’interno di una prospettiva politica, la quale non può certamente essere subito socialista, ma che pure –altrettanto certamente- deve avere la capacità sia di porre vincoli precisi al potere economico del capitale, sia di assicurare un forte ruolo di direzione alla classe operaia e ai suoi alleati22. Tiriamo le conclusioni che ci interessano per il proseguo della nostra parziale ricostruzione.

Fin dalla prima guerra mondiale, dunque, il movimento comunista (possiamo semplificando dir così) mette a fuoco il problema dell’unità europea, all’interno di alcune coordinate fondamentali: - incapacità del capitale europeo di superare le proprie interne conflittualità e, dunque, di realizzare l’unificazione europea, se non in forma reazionaria; - necessità di un protagonismo operaio (del proletariato e dei suoi alleati), capace sia di superare lo Stato-nazione in una prospettiva continentale, sia di dare all’Europa la capacità di crescita generale e non solo di sviluppo economico, impedendone in questo modo la trasformazione in zona sottoposta alla dominazione dell’imperialismo Usa.

Fissati questi punti, cerchiamo ora di seguire come il Movimento comunista europeo abbia affrontato lo stesso tema, ma a partire dalla fine della seconda guerra mondiale – come testo base di riferimento avremo la raccolta di Risoluzioni e documenti dell’Ufficio di Informazione dei Partiti comunisti ed operai (1947 – 1951).23

Non per caso, questa importante documentazione fu messa a disposizione dei delegati al VII Congresso del Pci24.

In un documento del 1949, compreso nella raccolta citata, Malenkov scriveva: “il popolo sovietico non teme la competizione pacifica col capitalismo. Ecco perché esso si leva contro una nuova guerra, per la difesa della pace …”25

Per comprendere appieno il senso di questa affermazione di Malenkov, dobbiamo tener presente la lucidissima immagine, che l’Urss aveva delle linee fondamentali della politica estera statunitense, come appare da una Dichiarazione del 1947, firmata da tutti i Partiti comunisti ed operai europei.

“Al piano di asservimento economico e politico dell’Europa da parte dell’imperialismo americano, leggiamo nella Dichiarazione, si aggiungono i piani di asservimento economico e politico della Cina, dell’Indocina, dei paesi dell’America del sud. Gli Usa preparano gli aggressori di ieri, i magnati capitalisti della Germania e del Giappone, ad adempiere un nuovo compito, il compito di strumenti della politica imperialista americana in Europa e in Asia.”.

“Il campo imperialista ricorre ai mezzi tattici più vari, in cui si combinano la minaccia dell’impiego diretto della forza, il ricatto, le violenze, ogni sorta di provvedimenti, di pressione politica ed economica, la corruzione, l’utilizzazione dei conflitti e delle contraddizioni interne, allo scopo di rafforzare le posizioni imperialiste. Tutto ciò è dissimulato sotto la maschera del liberalismo e del pacifismo per ingannare e imbrogliare la gente priva di esperienza politica.”

Sulla base, dunque, di una piena consapevolezza delle direttrici e del senso fondamentali della politica statunitense (si ricordi che il documento è del 1947 e non del 2003!), la capacità dimostrata dall’Urss nella guerra contro la potenza nazi-fascista e l’efficacia della sua mobilitazione generale per la ricostruzione dell’economia sovietica producono la convinzione comunista che il nuovo regime sociale, a patto che gli sia garantito un sufficiente periodo di pace, è in condizione di ottenere risultati tali, da spostare progressivamente a proprio favore i rapporti di forza su scala mondiale, riducendo la potenza sia oggettiva che ideologica e politica dello stesso imperialismo Usa.

Per ottenere tale risultato, è indispensabile però garantire un sufficiente periodo di pace, prima di tutto in Europa.

Allo scopo il Movimento comunista sembra muoversi, secondo due prospettive, francamente non facili da mediare ma che, tuttavia (sia pure in misura e modi diversi) sono entrambe presenti nella sua linea politica.

Sulla base di una denuncia insistente del significato reale, che va riconosciuto alla politica Usa di aiuti economici all’Europa (liberazione di scorte invendute; condizionamento della ripresa economica nel vecchio continente; ricomposizione di una classe dirigente europea, legata a filo doppio agli Stati Uniti), il Movimento comunista enfatizza il rischio di perdita di indipendenza nazionale, a cui vanno incontro i vari Stati europei. Ed in particolare, il Movimento comunista denuncia come il blocco anglo-americano punti su una Germania, tutt’altro che liberata dai poteri che l’hanno portata al nazismo, per una politica aggressiva, particolarmente indirizzata verso l’Europa centrale e orientale, ma anche volta più in generare ad assicurarsi l’egemonia continentale. Dunque, il centro della denuncia è la messa in luce dei pericoli di perdita d’indipendenza nazionale, nel quadro di un’Europa, egemonizzata dalla Germania ma, più profondamente, legata al carro anglo-americano.

E’ in questo contesto che nasce l’immagine del comunista, che in una mano stringe la bandiera rossa e, nell’altra, quella nazionale.

In realtà, la politica ‘europea’ dei comunisti aveva il suo finish in un ulteriore elemento: la sollecitazione al capitale europeo ad orientarsi verso una politica di investimenti e di scambi liberi con l’Urss e gli altri Paesi di democrazia popolare, in modo da avere un riavvio della situazione economia europea, che non comportasse pagare agli Usa il prezzo della perdita di indipendenza nazionale.

Riandando ai documenti dei primi decenni del secolo, mi sembra che possiamo registrare questi mutamenti.

I comunisti non sostengono più che l’unità continentale, sotto l’egida del capitale europeo, non potrà che essere reazionaria; al contrario, essi propongono ora una sorta di alleanza tra proletariato e borghesia, in funzione di uno sviluppo sociale e politico, libero dall’egemonismo nordamericano e rispettoso delle indipendenze nazionali.

Coerentemente a questo mutamento, anche l’altra tematica (intendo della possibilità di un regime politico transitorio, caratterizzato da effettiva democrazia, ma non ancora socialista) viene riproposta non più come momento di rottura –comunque- della dominazione del capitale, sì piuttosto come una fase di compromesso fra le due classi fondamentali della società moderna, entro l’alveo di un regime di democrazia progressista o di nuova democrazia o di democrazia anti-fascista (che continuasse, cioè, l’ispirazione, che aveva guidato gli Alleati nella guerra al nazi-fascismo).

Come questi mutamenti della prospettiva comunista riflettessero la realtà dei rapporti internazionali e delle differenze tecnologico-militari fra quelli che, rapidamente, diverranno i due blocchi, è del tutto ovvio.

E, quindi, è altrettanto ovvio che non avrebbe senso giudicare la nuova politica europea dei comunisti, utilizzando parametri dei primissimi decenni del Novecento. Tuttavia, un’osservazione si può fare.

Quando la proposta comunista punta a realizzare un compromesso fra le due classi fondamentali, non opera nessun abbandono, tradimento, stravolgimento ecc. dell’orientamento leninista. Proprio lo stesso Lenin, infatti, si era fatto promotore di progetti, volti a stimolare investimenti capitalistici nella nascente Russia sovietica, anche a costo di pagare per ciò prezzi economici e politici di grande portata. Come al solito, non fa problema la ricerca di soluzioni di compromesso, quando la situazione reale le solleciti.

Le perplessità nascono, quando si consideri la disinvoltura, con cui le articolazioni fondamentali di una politica di compromesso (democrazia progressiva; programmazione democratica; giusto profitto, ecc.) vennero presentate dai comunisti come se fossero nuove acquisizioni teoriche, arricchimenti di principio della teoria marxista; dunque, le perplessità nascono quando si vede operare nell’elaborazione comunista –con una dovizia degna di miglior causa- la fallacia politicistica e la riduzione del marxismo a semplice guida o giustificazione delle (momentanee) scelte politiche dei Partiti. Ma prima di insistere su questo lato, cerchiamo di mettere in luce l’altra variante della politica europea dei comunisti, nel periodo che ci interessa.

In realtà, al suo schema fondamentale già abbiamo accennato: proporre ai paesi capitalistici, infatti, di investire nell’<altra> Europa, in un regime di eguaglianza e collaborazione ma, anche, di contrapposizione alla politica di guerra degli anglo-americani, a ben vedere, abbozzava uno schema di Europa che, per quanto approssimativo, era tuttavia sufficientemente preciso.

Ed allora si comprende che la politica comunista era, in realtà, orientata a ricomporre l’unità antifascista contro il nuovo fascismo, rappresentato dall’imperialismo nord-americano. E sappiamo altrettanto bene che mai i comunisti hanno pensato l’unità antifascista come qualcosa di provvisorio –almeno nel senso che l’interclassismo della nuova democrazia (o democrazia effettiva) avrebbe dovuto durare, fino a che lo spostamento dei rapporti di forza (economica, sociale e politica) internazionali a favore dell’Urss e del campo socialista, non avesse reso realistici obiettivi politici più avanzati, all’interno dei singoli paesi.

Ma, allora, si scopre che la precedente denuncia dell’egemonismo nordamericano, perché mette in discussione l’autonomia e indipendenza delle nazioni, in realtà non era il tema di fondo della politica europea dei comunisti.

Infatti, essi puntavano esattamente (senza dirlo, però, in modo chiaro; anzi, facendosi perfino paladini dell’idiotismo nazionale) ad una forma di unificazione europea, forse tanto affascinante, quanto discutibile nel suo realismo, posta la situazione internazionale degli anni quaranta e cinquanta.

Se tutto ciò è vero, se ne conclude che una politica europea, non chiara nei suoi motivi di fondo, veniva sostenuta da parte comunista con elaborazioni, che mentre erano strettamente politiche, pretendevano invece d’aver la dignità dello sviluppo di principio.

Tutto ciò, quali che ne fossero le motivazioni politiche oggettive, non poteva che arrecare gran danno al marxismo in quanto teoria.

Un modo per valutare i danni derivanti da quella forma di riduzionismo marxista, su cui più volte ci siamo soffermati, può essere questa.

Almeno a partire dagli anni trenta del Novecento, la crisi della civiltà capitalistica trova incisive espressioni, anche, in importanti (e diffusi) orientamenti filosofici quali l‘esistenzialismo e la fenomenologia.

E’ da notare, per altro, che un punto di riferimento indubbio di quelle due filosofie fu costituito dalla prima grande opera di Hegel – intendo, ovviamente la Fenomenologia.

Ma sappiamo bene che ruolo importante esattamente quell’opera ebbe per la costituzione, anche, del punto di vista di Marx (e, preciso, del Marx maturo –se esiste ancora qualcuno, che dia grande importanza alla distinzione fra Marx giovane e, appunto, maturo). Non per caso, ad es. in Francia, la ripresa di interesse per quell’opera hegeliana rappresentò una delle principali condizioni di possibilità per una lettura di Marx, quale quella che proporrà Hyppolite e che Eric Weil ha in larga parte ripreso.

Orbene, appunto questa rinnovata scoperta dell’intimità del rapporto di Marx a Hegel consentì il primo delinearsi di un’interpretazione del pensiero di Marx, capace di render conto dei – e superarli teoreticamente- limiti invalicabili della cultura e della scienza della grande società capitalistica evoluta.

Ma si trattava, appunto, di una riscoperta del rapporto tra elaborazione marxiana e tradizione della filosofia classica tedesca, dunque, di una ribadita sottolineatura che la ‘toil de fond” del marxismo e del progetto comunista andava rintracciata in un retroterra, del tutto diverso da quello dell’<arretratezza asiatica> (o della tradizione russa). Il che significava, anche, entrare direttamente in contrasto con la vulgata marxista, che l’ortodossia presentava (ed imponeva, in una certa misura).

Dunque, questi spunti, queste possibilità di rinverdire la capacità critica e dialettica del marxismo si scontrarono contro la forza organizzata (è il caso di dirlo) del dogma.

La conseguenza fu che al marxismo fu tolta la possibilità di offrire della crisi della civiltà borghese quell’interpretazione ampia, articolata e profonda, che è nelle sue possibilità e che avrebbe potuto andare oltre i limiti e gli equivoci delle, pur importantissime, versioni esistenzialistiche e fenomenologiche.

L’aprirsi di tale scarto (fra problematica della crisi borghese e elaborazione marxista) fu una delle condizioni, per cui, nello svolgersi degli anni sessanta, si aprisse un gap fra radicalismo di una diffusa piccola-borghesia, che vedeva rimesso in questione il suo status tradizionale dagli sviluppi tecnologico-organizzativi del capitalismo, e il movimento politico, tradizionalmente legato alla riflessione marxista.

Di qui, una crisi (morale, psicologica, politica) che continua a svilupparsi e ad aggravarsi; con la sola novità che, ormai, non c’è neanche più una cultura marxista (ma, solo, casi individuali di ricerca e riflessione, che continua), la quale cerchi di riproporsi sia quale strumento dialettico di riconoscimento della crisi e delle sue radici, ed anche come prospettiva di superamento di essa.

Rimando l’approfondimento di questo discorso ad uno scritto futuro, che in cui cercherò di avanzare nella riflessione qui proposta.


Note

1 Fondamentali – il che esclude sia quello storicismo imbelle, che sancisce ogni accadimento, senza distinguere tra ciò che è fondamentale e ciò che è di superficie; sia lo storicismo (tipo Scuola storica del diritto), che sancisce qualunque istituzione, purché sia antica.

2 Umanesimo e terrore. Le avventure della dialettica, Sugar, 1965.

3 Drammaticamente significativo è questo passaggio di Lenin, che parla all’ XI Congresso del Partito nel 1922: “Abbiamo detto fin dall’inizio che dovevamo accingerci ad un’opera del tutto nuova, e se i compagni operai dei paesi capitalisticamente più sviluppati non ci fossero venuti al più presto in aiuto la nostra opera sarebbe stata incredibilmente difficile, e nel compierla si sarebbero indubbiamente commessi molti errori. L’essenziale è di saper trovare a mente fredda dove sono stati commessi questi errori, e rifare tutto da capo. Se sarà necessario rifare tutto da capo, non due, ma anche più volte, sarà provato che affrontiamo il più grande compito del mondo senza pregiudizi e rendendoci ben conto della situazione” (V.I. Lenin, Opere, vol. 33, Roma, Editori riuniti, 1967, pp. 244s).

4 A. Gramsci, La città futura (1917-1918), Torino, Einaudi, 1982, pp. 513ss.

5 Grande merito di Antonio Labriola, di cui fitto è lo scambio epistolare con Engels, è la costante polemica contro questo modo di concepire il marxismo, rivendicandone invece il carattere dialettico.

6 Gramsci, op. cit., pp. 513s. Si noti come, all’inizio del Novecento, Husserl caratterizzasse il naturalismo: “la caratteristica de naturalismo estremo e conseguente, dal materialismo popolare al più moderno monismo sensualistico e all’energetismo, sta nella naturalizzazione della coscienza da un canto, ... e nella naturalizzazione delle idee dall’altro, con la conseguente naturalizzazione delle idee assolute e delle norme” (E. Husserl, L’obiettivismo moderno. Riflessioni storico-critiche sul pensiero europeo dall’età di Galileo, Milano, Il Saggiatore, 1961, p. XXI).

7 Si ricordi Marx che assegna al proletariato la determinazione di farsi erede della filosofia classica tedesca, di quella cioè che, tradizionalmente e in gran parte sbagliando, si indica come la tradizione idealistica moderna.

8 Va da sé che se Gramsci ha ragione, allora è fondamentale, per comprendere le vicende reali del movimento comunista, accertare (anche!), a quale tipo di teoria esso, di fatto, si sia richiamato.

9 Uso il termine dogmatismo, nel senso il cui lo scetticismo classico voleva essere critica di ogni dogmatismo e nel senso, in cui la ragione dialettica critica le rigidità dell’intelletto.

10 Torino, Einaudi, 1952, p. 81.

11 Per questo rinvio alla mia recensione, apparsa su “Nuova unità”, n. 9/2002, del testo di Lukàcs, Dialectique et spontanéité, recentemente pubblicato in Francia.

12 Un documento importante di questo tentativo di separare il marxismo dalle sue condizioni di possibilità (la cosiddetta Herkunft occidentale), per inserirlo immediatamente in un contesto estraneo (il cosiddetto Oriente), è questa pagina di Mao Tsedong, che risale al 1948: “Dopo la disfatta della Cina, nel corso della guerra dell'oppio nel 1840; i cinesi progressivi hanno dovuto passare attraverso innumerevoli prove per ricercare la verità nei Paesi occidentali. Hun-Sui-Ciuang, Kang-Yu-Vei, Yan-Fu e Sun-Yat-Sen furono gli uomini che si sforzarono di trovare la via della verità in Occidente, fino al momento in cui nacque il Partito comunista cinese. In quest'epoca i cinesi che aspiravano al progresso studiarono le nuove teorie occidentali. Considerevole fu il numero delle persone che andarono a studiare in Giappone, in Inghilterra, in America, in Francia e in Germania. Essi fecero ogni sforzo per studiare l'Occidente. Il vecchio sistema di esami per l'accesso agli impieghi statali fu soppresso e aumentò il numero delle scuole. Anch'io, nella mia giovinezza, organizzai così i miei studi. Era la cultura della democrazia borghese occidentale, o, come veniva chiamata, della nuova scuola, che comprendeva le teorie sociologiche e delle scienze naturali e si opponeva alla cultura del feudalismo cinese, o, come veniva chiamata, della vecchia scuola. Per lunghi anni gli uomini che avevano assimilato le teorie nuove fermamente credettero che la nuova scuola avrebbe salvato la Cina. A parte i rappresentanti della vecchia scuola, soltanto pochissimi erano i rappresentanti della nuova scuola che ne dubitavano. A parer loro l’unico mezzo per salvare il Paese era di realizzare delle riforme e, per far questo, bisognava studiare, imparare dalle potenze straniere. Tra le potenze straniere di quell’epoca le sole progressiste erano i paesi capitalistici occidentali. Questi Paesi avevano creato uno Stato borghese moderno. I giapponesi avevano ottenuto grandi risultati studiando, imparando dagli occidentali. A loro volta i cinesi volevano imparare dai giapponesi. Per i cinesi la Russia era in quell'epoca un Paese arretrato e molto rari erano coloro che volevano imparare da essa. Avvenne cosi che i cinesi, dal 1840 al principio del XX secolo, andarono a scuola dagli Stati stranieri. L'aggressione imperialista soffocò le speranze dei cinesi di imparare dall'Occidente. È veramente strano che i maestri invadano sempre i Paesi che vogliono essere loro allievi […]. La prima guerra mondiale ha lacerato il mondo intero. I russi hanno compiuto la Rivoluzione d'ottobre, creando il primo Stato socialista del mondo. Sotto la direzione di Lenin e di Stalin, l'energia rivoluzionaria del grande proletariato e del popolo lavoratore russo, fino ad allora sconosciuti agli occhi degli stranieri, eruppe improvvisamente, come un vulcano. Tutta l'umanità, compresi i cinesi, reagì in modo differente nei confronti della Russia. Fu allora e solamente allora che i cinesi che lavoravano nel campo della ideologia, entrarono in una fase assolutamente nuova. I cinesi hanno scoperto essi stessi l'universale verità del marxismo-leninismo, dovunque applicabile, e l'aspetto della Cina è mutato. I cinesi hanno conosciuto il marxismo quando esso fu applicato dai russi. Fino alla Rivoluzione di ottobre, i cinesi non soltanto non conoscevano né Lenin né Stalin. ma nemmeno Marx ed Engels. Le cannonate della Rivoluzione d'ottobre hanno portato il marxismo fino a noi” (La dittatura della democrazia popolare, in Risoluzioni e documenti dell’Ufficio di informazione dei Partiti comunisti e operai [1947-1951], Roma, 1952, pp. 1951ss.

13“Che la vita sia piena di contraddizioni, la coscienza immediata [naturalmente materialistica], siccome poggia fiduciosa e sicura su ciò che qual sacro cespito riscuote da un passato [cioè, la coscienza immediata non ha ancora imparato che l’esperienza inganna, oltre che farci apprendere], non lo sospetta nemmeno” (S. Kierkegaard, Sul concetto di ironia. In riferimento costante a Socrate, Milano, Rizzoli, 1995, p. 208).

14 Quanto tale verticalizzazione, dal punto di vista teorico, sia estranea alla tradizione, entro cui si colloca il pensiero di Marx, lo mostra bene la polemica, che già Hegel conduceva contro il riformismo d’ispirazione illuministica e, in particolare, contro il pensiero politico di Fichte (G.W.F. Hegel, Scritti politici, a cura di C. Cesa, Torino, Einaudi, 1972, pp. 30s).

15 Formidabile in questo senso il rapporto politico del CC del PCR(b), che Lenin presenta il 27 marzo 1922 all’XI Congresso del PCR(b).

16 Come esempio delle aberrazioni a cui può condurre questa concezione strumentale della cultura, si tenga presente quanto scrisse Molotov nel 1948: “Noi dobbiamo ricordare il compito posto ai nostri scienziati dal compagno Stalin. Il compito non soltanto di raggiungere ma di superare nel prossimo futuro ogni risultato della scienza al di fuori del nostro Paese. La discussione sulle questioni biologiche è stata di grande significato pratico, specialmente per l'ulteriore progresso della nostra agricoltura socialista. Non è stata una circostanza fortuita che questa lotta sia stata guidata dall'accademico Lyssenko (!?) i cui meriti nella nostra lotta comune per lo sviluppo dell'agricoltura socialista sono ben noti. La nota fondamentale di questa discussione è stata il famoso motto di Miciurin: non possiamo aspettare i favori della natura, dobbiamo strapparglieli. Questo imperativo di Miciurin, può dirsi, è connaturato allo spirito bolscevico, e costituisce una esortazione non soltanto per i lavoratori della scienza ma anche per milioni di agricoltori ad impegnarsi in un lavoro attivo e creativo per il bene e la gloria del nostro popolo. La discussione scientifica sulle questioni biologiche è stata condotta sotto l'influenza dirigente del nostro Partito. Anche qui le idee direttive del compagno Stalin hanno avuto una parte positiva, aprendo prospettive vaste e nuove nel campo del lavoro scientifico e pratico” (AAVV, 0072: 39). È bene, tuttavia, tener presente anche questa osservazione di Husserl: “L’esclusività con cui, nella seconda metà del XIX secolo, la visione del mondo complessiva dell’uomo moderno accettò di venir determinata dalla scienze positive e con cui si lasciò abbagliare dalla <prosperity> che ne derivava, significò un allontanamento da quei problemi che sono decisivi per un’umanità autentica” (E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, Il Saggiatore, 1975, p. 35).

L’osservazione di Husserl ci mette di fronte ad un aspetto, che potrebbe facilmente sfuggire: intendo che l’atteggiamento ‘materialistico’ e ‘positivistico’ di fronte al conoscere, al sapere ed in generale all’ordinamento, che regola il reale, non è solo un ricadere indietro, ad epoche pre-scettiche e pre-dialettiche; al contrario, è anche un prodotto ‘spontaneo’ dell’attuale società industriale di massa. Il che spiega, per altro, anche certa indubbia simpatia che la società sovietica dimostrò più volte per le manifestazioni della massificazione, caratterizzanti in particolare gli USA e scambiate come prodotti inevitabili del progresso umano verso la libertà e la democrazia.

17 - vlo in N. Lenin – G. Zinoviev, Contre le courant, tome 1, Paris 1970: 137ss; o in Lenin, Opere complete. XXI, Roma Editori riuniti 1966: 311ss.

18 - Si noti come, fin dal 1915, Lenin e Zinov’ev potessero caratterizzare “il cammino per la rivoluzione socialista” come un lungo processo, nel quale a rivoluzioni vittoriose possono alternarsi vittoriose contro-rivoluzioni. Lo si noti per avvertire tutto l’impoverimento di consapevolezza teorica, che evidentemente caratterizzava ormai il movimento comunista, quando ebbe bisogno di Mao, negli anni sessanta, per ‘scoprire’ che, con la presa del potere, la lotta di classe non è terminata e ciò, che il proletariato ha acquisito può anche riperderlo.

19 - E’ interessante che nei primi anni sessanta, particolarmente sotto l’impulso di scritti di Galvano Della Volpe, l’ambiente comunista italiano tornerà a tematizzare questa differenza fra i due tipi di democrazia, postulando però un’improbabile linea Rousseau/Marx/Lenin, come caratterizzante la democrazia effettiva.

20 - vlo in L.D. Trockij, Europe et Amerique. Où va la France?, Paris Anthropos 1971: 101ss.

21 - Si noti che questa strategia sarà anche della Germania nazista.

22 - In un qualche modo paradossale, questo ragionamento sembra ripresentarsi in quei comunisti, che –oggi- auspicano un rafforzamento politico (e perfino militare!) dell’Europa: le classi capitalistiche europee non basterebbero alla realizzazione di questi obiettivi, nonostante gli evidenti vantaggi, che ne deriverebbero loro nei confronti della politica USA. Le classi capitalistiche europee dovrebbero, allora, ricorrere al sostegno della sinistra e degli stessi comunisti. In questo modo gli strati sociali subalterni e le forze politiche non legate al potere capitalistico si conquisterebbero un effettivo ruolo politico a livello Europeo.

23 - VII Congresso nazionale del PCI. Risoluzioni e documenti dell’Ufficio d’Informazione dei Partiti comunisti e operai (1947-1951), Roma 1951: 70.

24 - Svoltosi a Roma dal 3 all’8 aprile del 1951, dopo che il governo italiano aveva aderito alla NATO e, quindi, non solo dopo che la politica aggressiva degli Usa aveva dato un’ulteriore prova chiarissima di sé, ma anche il servilismo del governo italiano non poteva esser più messo in dubbio da nessuna persona ragionevole. E’ facile comprendere, dunque, come proprio in codesta occasione il Pci si preoccupasse di esibire un’ampia prova documentaria della politica di pace condotta dall’Urss e dal Movimento comunista europeo in generale. Com’è ovvio, l’inasprimento in ambito di politica estera da parte dei Paesi capitalistici corrispondeva a violenti scontri di classe riguardo ai problemi sociali ed economici interni ai singoli paesi. Alla data del VII Congresso del Pci, ad es., i lavoratori uccisi per la violenza poliziesca sono 62, di cui 48 comunisti (in tutto l’arco della legislatura 1948-1953 diventeranno 75 con 5104 feriti e 61.243 condannati per complessivi 20.426 anni di carcere (Storia del Pci attraverso i Congressi, a cura di A. Cecchi Roma Newton Compton 1977: 100s).

25 - vlo in VII Congresso…:70.
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