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E' già domani

Rossana Rossanda

Scrivere oggi domenica 13 aprile, a meno di 24 ore dai risultati delle elezioni, è scrivere non al buio ma in una fitta penombra. Non al buio perché le possibilità non sono molte, arriveranno in testa Veltroni o Berlusconi, e la sinistra sulla quale la maggioranza di noi punta misurerà la sua consistenza. Ma ci sarà una grande differenza se Berlusconi vince solidamente, Veltroni non ce la fa e la sinistra non raggiunge il fatidico 4 per cento che questa legge elettorale impone, oppure se Veltroni ce la fa e la Sinistra Arcobaleno si consolida su quella frontiera. E un'altra negativa differenza se Veltroni ce la facesse ma la sinistra restasse esclusa dalla scena istituzionale.

Nel primo caso vorrebbe dire che la destra più rozza dell'Europa occidentale s'è impadronita della mente degli italiani, facendo del nostro un paese egoista e miope, nel quale ognuno si è chiuso in quel che crede il suo interesse più immediato mentre d'una democrazia decente più nulla importa; nel secondo caso, se Veltroni la spunta con infinitamente meno mezzi del suo avversario, significa che l'Italia si attesta sugli spalti d'una democrazia moderata ma ancora praticabile e che una sinistra, minoritaria ma ragionata e consistente, può interpellare e incalzare. Se invece questa sinistra scomparisse dalla scena, vorrebbe dire che l'americanizzazione è andata così avanti, che qualsiasi spinta avanzata all'interno di una egemonia liberista sarebbe ridotta al silenzio e alla marginalità.

L'arretramento è già stato grave e la discesa dura da rimontare.

Quanto resta del paese che era stato il più interessante e inconcluso d'Europa fino a quasi quaranta anni fa? Per questo ci siamo battuti contro l'astensionismo che oggi significa non l'ennesima protesta ma la prova d'una immaturità e rancorosa impotenza, dalle quali qualsiasi società non solo non procede ma rischia guasti insanabili.

Non so se ce li saremmo meritati. Certo nessuno potrebbe dichiararsi innocente. Il fatto stesso che siamo oggi a questo rischio, per la prima volta dal 1945, ci costringe a chiederci perché siamo arrivati a tanto e verificare i nostri strumenti, le storie e gli obiettivi. E' un'urgenza, qualunque sia il risultato di queste elezioni; anche se si dovesse verificare l'ipotesi più favorevole. Resterebbe comunque che quasi metà degli italiani guarda a una destra senza più remore, neanche elementarmente antifasciste, e che a una generosa conflittualità sociale s'è sostituito in gran parte dell'elettorato, in forme diverse, un modello di ineguaglianze e marginalizzioni, giudicato inevitabile. Siamo già oltre la società dei due terzi che qualche decennio fa prevedeva - e non ci pareva possibile - il socialdemocratico tedesco Peter Glotz.

Per questo alcuni di noi chiamano a confrontarsi subito con quella parte del paese che ha votato e fatto votare per la Sinistra Arcobaleno, in modo da mettere in atto subito un processo più allargato della somma delle sue sigle. Essa ha raccolto non una delega ma un voto che punta a qualcosa di più e che manca. E' fin evidente per quelle sensibilità diffuse che non stanno in una organizzazione, come la coscienza sempre più pressante del problema ecologico, che sta stretta in un partito per quanto valoroso, e li interpella tutti, e in tutta Europa. E' fin ovvio, ma più complicato, per le culture femministe, che non per caso non si danno una struttura di partito, e che dai partiti vengono regolarmente lusingate e offese; esse attengono a un conflitto millenario irrisolto, che si è affacciato con prepotenza a molte donne e inquieta l'altro sesso. E attraversano tutte le sigle e nessuna. Per ultimo non è altrettanto ovvia l'inquietudine e irresolutezza che attraversa tutto un popolo attorno al movimento operaio, che ha conosciuto vicende gloriose e scontri terribili e - salvo il rispetto per la corrente di Mussi, e i partiti di Diliberto e Bertinotti - non si riconosce nelle sigle di parte del Pci, del Pdci e di Rifondazione comunista. Che ci si appelli a una «identità» inequivoca per opporsi alla deriva dell'ex Pci, si può capire, ma è una posizione difensiva che non riesce a dar conto né della propria debolezza né delle innovazioni fin convulse impresse dal capitalismo diventato ormai il solo modo di produzione mondiale. E più che mai proteiforme e come sempre portatore di quella negazione assoluta dell'umano che è la guerra.

Questo è un problema per molti. Prendo ancora una volta un caso che conosco bene - il mio. Io sono una vecchia comunista, convinta della validità e dei limiti di quella critica del modo di produzione che è il marxismo. Da quando sono stata esclusa dal Pci e dopo la fine del Pdup ho sempre votato per una sinistra alternativa ma non ho mai aderito a una delle sue organizzazioni. Non per essermi convertita, ma al contrario per aver radicalizzato la mia riflessione sul conflitto sociale. E insieme per essere stata interpellata drasticamente come donna dal femminismo, e come essere (per quanto può) pensante dall'ecologia - due dimensioni delle quali la prima non stava nella mia formazione di emancipata, e la seconda non era ancora visibile sul volto del pianeta. Come non intrecciare queste tematiche nella sinistra alternativa che si auspica? Diciamo la verità, ora come ora al di là di qualche benintenzionato riconoscimento, ognuna di queste culture esclude l'altra dal proprio giardino.

Non si tratta di cattive volontà, penso, ma di paradigmi diversi che non si sono incrociati, salvo - e sembra assurdo - nella vita concreta di ciascuna e ciascuno: questa sì li ha incontrati, o vi è inciampata. La questione dei sessi, quella dell'ecosistema, e anche il dolore - come chiamarlo altrimenti - della lunga vicenda e poi sconfitta comunista. Da quando esiste ho votato Rifondazione, l'ho detto, ho stima per molti dei compagni che vi militano, ma non sono mai stata una di loro, perché neanche Rc, nella sua strada talvolta a zig zag, esprime tutte le urgenze «politiche» che il mondo mi scaraventa addosso. Né mi contenterebbero agevoli sommatorie; a fasi differenti e differenti paradigmi politici e culturali - i due piani non sono separabili - o fa fronte una rielaborazione che li assume e ne rompe la separatezza, o non c'è formula in grado di avere un reale impatto.

So bene che non sarà un lavoro facile, è un travaglio - come ogni volta che si cerca di imprimere una svolta dall'interno della ricchezza del vivente, senza tentare scorciatoie. Elaborazione è cosa diversa da una tesi proposta ai più da un gruppo o qualcuno di illuminato, ed è anche diversa dal suo reciproco, cioè un contenitore di voci che non si parlano. Di questa seconda cosa è diventato un esempio preclaro, spero di non offendere nessuno, il manifesto - non solo per un vizio ma anche per una virtù, non precludersi di essere una sonda nelle diversità che esplodevano dalla crisi dei comunismi (e non soltanto dall'89). Non nell'averle troppo sondate sta la debolezza nostra che, spero di nuovo di non offendere nessuno, è innegabile.

Per questo bisogna cominciare a confrontare tesi e ipotesi. Tenendo come obiettivo un fare, un intervento - anche se ogni tanto sarà un semilavorato - contro la tendenza alla catastrofe che si è riaffacciata. Vorrei non essere fraintesa né esprimermi in modo ingeneroso verso chi ha tirato in tempi difficili minoritarissime carrette. Dico soltanto, e non sommessamente, che stanchezze e depressioni o autogiustificazioni sono comprensibilissime, umanissime, eccetera, ma non è davvero il caso di proporre alla gente i risultati di incontri preliminari a porte chiuse, ciascun gruppo per sé, intento a partorire gruppi dirigenti divisi e paralleli, destinati a non incontrarsi mai. Come la maionese impazzita, la sinistra non si coagulerà senza uno o più tuorli freschi. E molto olio di gomito.

So che, simile a una Cassandra - e le Cassandre, ahimé, finiscono male - sto scrivendo da un pezzo che non abbiamo molto tempo davanti a noi. Ma qualcuno mi dimostri che non siamo in affanno e ritirata. Ne vogliamo derivare qualche insegnamento? Vogliamo smettere di nobilmente miagolare sulla crisi della politica altrui e provarci nello sperimentarne noi forme diverse? Affrontando un percorso sicuramente accidentato ma tendendo almeno a sedimentare un corpo di analisi e progetti e azioni condivisi? Condivisi e non precludenti? Portandovi ogni esperienza, collettiva o personale, compiuta o in progress, pur che sia disposta a guardarsi in faccia ed esporsi. Partiti, sindacati, movimenti, culture, singoli che abbiano voglia, anzi bisogno, di parlarsi e ascoltarsi. Non c'è nessuno che non porti su di sé qualche livido, che non conosca l'amarezza di essere stato battuto. E magari qualche risentimento per ingiustizie patite. Ma francamente che cosa importa rispetto alle dimensioni dell'urgenza che ci sta davanti?

Quel che ci ha fatto mettere nell'urna in queste ore la stessa scheda, e senza soverchie illusioni semmai ne abbiamo avute, è che non abbiamo deposto le armi (della critica, tranquilli, sono una pacifista). Vadano in pace coloro che dichiarano la guerra finita. Saranno svegliati fin troppo presto.

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