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La sanguinosa battaglia di Genova

Nick Davies*

Traduciamo e pubblichiamo un articolo apparso sul quotidiano britannico The Guardian il 17 luglio a proposito delle sentenze sui processi per i fatti del G8 del 2001. L'articolo è di Nick Davies. Che cerca di trarre da Genova una lezione per tutte le cosiddette democrazie.

genova 2001 638x425Era poco prima di mezzanotte quando il primo agente di polizia colpì Mark Covell con una manganellata sul braccio sinistro. Covell fece del suo meglio per gridare, in italiano, di essere un giornalista, ma in pochi secondi si trovò circondato da agenti in tenuta antisommossa che lo colpivano con i manganelli. Per qualche secondo, è riuscito a rimanere in piedi, fino a quando un colpo sul ginocchio non lo ha gettato sul pavimento. A faccia in giù nell’oscurità, escoriato e spaventato, si rendeva conto di avere agenti tutt’intorno, che si stavano ammassando per attaccare gli edfici delle scuole Diaz e Pertini, dove 93 manifestanti si erano accampati per passare la notte. La speranza di Covell era che gli agenti passassero attraverso la catena che chiudeva il cancello principale senza più occuparsi di lui. Se fosse andata così, avrebbe potuto alzarsi e correre oltre la strada, per cercare riparo nel centro di Indymedia, dove aveva passato gli ultimi tre giorni a scrivere sul summit del G8 e sulla violenta gestione dell’ordine pubblico. In quel momento, un funzionario di polizia si è lanciato su di lui e gli ha dato un calcio al petto talmente forte da comprimere verso l’interno l’intera parte sinistra della sua gabbia toracica e rompendogli una mezza dozzina di costole, i cui detriti hanno perforato la pleura. Covell, un metro e sessanta, è stato letteralmente sollevato dal pavimento e sbalzato in strada dal calcio. Ha sentito il poliziotto ridere mentre un pensiero si formava nella sua testa: «Non me la caverò». La squadra antisommossa stava ancora trafficando al cancello principale, e allora un gruppo di agenti pensò di ingannare il tempo usando Covell come pallone. Questa serie di calci gli ha procurato la frattura di una mano e lesioni alla spina dorsale. Da qualche parte alle sue spalle, Covell ricorda di aver sentito un altro agente gridare «Basta» prima di sentire il suo corpo trascinato sul pavimento.

A quel punto, un veicolo corazzato della polizia ruppe i cancelli della scuola e 150 agenti, per la maggior parte con caschi, scudi e manganeli, fece irruzione nell’edificio indifeso. Due agenti si fermarono per occuparsi di Covell: uno gli ha rotto la testa con il manganello; l’altro lo ha preso a calci in bocca, facendogli sputare una dozzina di denti. Covell svenne. Ci sono molte buone ragioni per non dimenticare quello che è successo a Covell, che allora aveva 33 anni, quella notte a Genova. La prima è che era solo l’inizio. Per la mezzanotte del 21 luglio 2001, quegli agenti di polizia stavano sciamando in tutti i piani della Diaz, e dispensavano il loro particolare tipo di punizione alle persone che stavan lì, fino a ridurre il dormitorio improvvisato in quella che più tardi uno degli agenti avrebbe descritto come «una macelleria messicana». Loro e i loro colleghi avrebbero poi arrestato illegalmente le vittime in un centro di detenzione, diventato un luogo di puro terrore.

La seconda ragione è che, sette anni dopo, Covell e le altre vittime stanno ancora aspettando giustizia. Lunedì, 15 poliziotti, guardie carcerarie e medici penitenziari sono stati finalmente condannati per la parte avuta nelle violenze–sebbene nessuno di loro andrà in prigione. In Italia, gli imputati non vanno in prigione fino a quando non hanno esaurito tutti i gradi di giudizio; e in questo caso, le condanne e le sentenze saranno cancellate dalla prescrizione, l’anno prossimo. Nel frattempo, i politici che erano responsabili per la polizia e per il personale penitenziario, non hanno mai dato alcuna spiegazione. Le domande fondamentali, su come tutto ciò sia potuto accadere, rimangono inevase e alludono alla terza e più importante ragione per ricordare Genova. Non è semplicemente la storia di un funzionario di polizia che esce dai ranghi, ma qualcosa di peggiore e più preoccupante sotto la superficie. Il fatto che questa storia possa essere raccontata è frutto di sette anni di duro lavoro di un gruppo di coraggiosi pubblici ministeri, guidati da Emilio Zucca. Aiutato da Covell e dal proprio staff, Zucca ha raccolto centinaia di testimonianze e analizzato cinquemila ore di video, oltre che migliaia di fotografie. Messi assieme, raccontano una storia incotrovertibile, che iniziò a svilupparsi mentre Covell sanguinava a terra.

La polizia fa irruzione nella scuola Diaz. Alcuni di loro gridavano «Black bloc! Vi uccideremo!», ma se avessero davvero pensato di avere di fronte gli anarchici del Blocco nero che avevano causato un violento caos in alcune zone della città nei giorni precedenti, avrebbero commesso un errore. La scuola era stata concessa dalla municipalità di Genova come base per i manifestanti che non avevano nulla a che fare con gli anarchici: avevano anche messo qualcuno di guardia per evitare infiltrazioni. Uno dei primi a vedere la squadra antisommossa fu Michael Geiser, un 35 enne economista belga, che poi ha descritto come in quel momento si era appena messo il pigiama e stava facendo la coda per il bagno, con tanto di spazzolino in mano, quando il raid ebbe inizio. Giesere crede nella forza del dialogo e all’inizio andò verso gli agenti dicendo «Dobbiamo parlare». Poi vide i giubbotti imbottiti, i caschi, i manganelli e cambiò idea scappando per le scale. Altri sono stati più lenti. Erano ancora nei sacchi a pelo. Un gruppo di dieci spagnoli si svegliò con i colpi dei manganelli. Alzarono le mani in segno di resa. E sempre più agenti li picchiavano in testa, tagliando e ferendo e rompendo arti, compreso il braccio di una signora di 65 anni. Da un lato della stanza, alcuni giovani sedevano davanti ai computer e mandavano email a casa. Una di loro era Melanie Jonasch, 28 anni, studente di archeologia a Berlino, volontaria nella gestione dell’edificio, che non era nemmeno stata alle manifestazioni. Lei ancora non riesce a ricordare cosa è successo. Ma molti altri testimoni hanno raccontato come gli agenti le si sono lanciati addosso, picchiandola in testa così forte da farle perdere subito i sensi. Quando cadde, gli agenti la circondarono, picchiandola ancora e prendendola a calci, sbattendole la testa contro una lavagna e lasciandola in una pozza di sangue. Katherina Ottoway, che ha visto tutto questo, ricorda: «Tremava tutta. I suoi occhi erano aperti ma girati. Pensavo che sarebbe morta». Nessuno di quelli che erano a terra è riuscito a evitare ferite. Come Zucca ha scritto nel suo atto d’accusa: «Nel giro di pochi minuti, tutti gli occupanti del piano terra erano stati ridotti in uno stato di completa impotenza, i lamenti dei feriti si mischiavano con il suono delle richieste di ambulanze». Poi i tutori della legge sono saliti lungo le scale. Nel corridoio del primo piano trovarono un gruppo di persone, compreso Geiser, ancora con lo spazzolino in mano. «Qualcuno consigliò di sdraiarci, per far vedere che non facevamo resistenza. E così ho fatto. Gli agenti sono arrivati e hanno iniziato a picchiarci, uno per uno. Mi sono protetto la testa con le mani e ho pensato ‘Devo sopravvivere’. La gente attorno gridava, ‘per favore, basta’. Anche io l’ho detto. Pensavo a una macelleria, ci stavano trattando come animali».

Gli agenti abbatterono le porte delle stanze che portavano fuori dal corridoio. In una stanza trovarono Dan MacQuillan e Norman Blair, arrivati da Stansted per mostrare il loro appoggio «a una società libera e uguale dove le persone vivono in armonia». I due inglesi e il loro amico neozelandese Sam Buchanan avevano sentito l’attacco ai piani inferiori e stavano cercando di nascondersi sotto alcuni tavoli nell’angolo di una stanza buia. Una decina di agenti fece irruzione e li scovò con una torcia e, per quanto MacQuillan stesse con le mani alzate dicendo ‘Piano, piano’, li picchiarono, causandogli molte ferite e tagli e rompendo il polso di MacQuillan. Norman Blair ricorda: «Potevo sentire il veleno e il loro odio». Gieser era nel corridoio: «La scena attorno a me era coperta di sangue, dappertutto. Un poliziotto gridò ‘Basta’. Una parola che sembrava una speranza. Eppure non si fermavano. Continuavano con piacere. Alla fine si sono fermati, ma come se si togliesse un giocattolo a un bambino, riluttanti». In quel momento c’erano agenti in tutti i quattro piani dell’edificio, che prendevano a calci e picchiavano. Molte vittime hanno descritto una specie di sistema della violenza, con ogni agente che picchiava ogni persona che si trovasse davanti, prima di passare alla successiva, mentre un collega picchiava quella di prima. Sembrava importante che chiunque fosse ferito. Nicola Doherty, 26 anni, un’assistente di Londra, ha descritto come il suo partner Richard Moth si sia sdraiato per proteggerla: «Potevo sentire ogni colpo sul suo corpo. I poliziotti si spostavano oltre Richard per colpire ogni mia parte esposta». Ha cercato di proteggersi la testa con le mani e le hanno rotto un polso.

In uno dei corridoi, gli agenti avevano ordinato a un gruppo di giovani uomini e donne di inginocchiarsi per poterli picchiare meglio sulle spalle e sulla testa. E’ stato in quel momento che Daniel Albercht, 21 anni, studente di violoncello di Berlino, ha riportato una frattura alla testa talmente profonda da avere bisogno di un’operazione chirurgica per fermare l’emorragia celebrale. Attorno all’edificio, gli agenti avevano impugnato i manganelli al contrario, per usare l’impungatura a L come un martello. E in tutta questa violenza, ci sono stati momenti in cui la polizia ha preferito l’umiliazione: l’agente che stava a gambe divaricate di fronte a una donna ferita e inginocchiata, le ha preso la testa per tirarsela verso l’inguine, prima di girarsi e fare la stessa cosa con Daniel Albercht, inginocchiato accanto a lei; l’agente che durante i pestaggi ha usato il coltello per tagliare una ciocca di capelli alle sue vittime, compreso Nicola Doherty; gli insulti continui; l’agente che ha chiesto a un gruppo di persone se stavano bene e ha reagito con una nuova manganellata a chi ha detto ‘No’. Qualcuno è sfuggito, almeno per un po’. Karl Boro è riuscito a raggiungere il tetto ma poi ha fatto l’errore di rientrare nell’edificio, dove lo hanno ridotto con un braccio ferito, una frattura cranica e sangue nel petto. Jaraslaw Engel, dalla Polonia, era riuscito a usare le impalcature attorno all’edificio per uscire dalla scuola, ma è stato intercettato in strada da alcuni agenti, che gli hanno rotto la testa, prima di mettersi a fumare mentre il suo sangue bagnava l’asfalto. Due degli ultimi a essere presi sono stati una coppia di studenti tedeschi, Lena Zuhlke, di 24 anni, e il suo compagno Niels Martensen. Si erano nascosti in un armadietto delle pulizie, al piano superiore. Hanno sentito gli agenti avvicinarsi, sbattendo i manganelli lungo i muri. La porta dell’armadietto si aprì, Martensen è stato trascinato fuori e picchiato da una decina di agenti in semicerchio attorno a lui. Zulkhe è scappata nel corridoio e si è nascosta nei bagni. Gli agenti l’hanno vista, inseguita e trascinata per i dreadlock. Nel corridoio, hanno giocato con lei come cani con un coniglio. E’ stata picchiata in testa e presa a calci quando era a terra, fino a che non le hanno rotto le costole. E’ stata bloccata al muro, dove un agente le ha dato una ginocchiata all’inguine, mentre gli altri continuavano a pestarla con i manganelli. Quando è scviolata a terra, hanno continuato a picchiarla: «Sembrava che si divertissero e quando gridavo sembrava che si divertissero di più».

Gli agenti trovarono un estintore e spruzzarono la schiuma sulle ferite di Martensen. La sua compagna è stata trascinata per le scale, dai capelli, testa in avanti. Hanno portato Zulkhe fino al piano terra, dove avevano radunato tutti i prigionieri dagli altri piani, in un caos di sangue ed escrementi. L’hanno gettata su altre due persone, immobili, tanto che Zulkhe chiese cautamente se erano ancora vivi. Senza risposta, anche lei si accasciò sul pavimento, incapace di muovere il braccio destro, e di fermare il tremore al braccio sinistro e alle gambe, nonché il sangue. Un gruppo di agenti passava lì vicino, e ciascuno si tolse il fazzoletto per sputarle addosso. Perché dei tutori della legge possono comportarsi con tanto disprezzo della legge? La semplice risposta può essere quella che veniva gridata dai manifestanti fuori dalla scuola, che scelsero una parola che sapevano i poliziotti avrebbero capito. «Bastardi». Ma c’è qualcos’altro, qui, qualcosa emerso più chiaramento nei giorni successivi.

Covell e decine di altre vittime furono portate nell’ospedale San Martino, dove gli agenti camminavano nei corridoi facendo suonare i manganelli nel palmo delle mani, ordinando ai feriti di non guardare fuori dalla finestra o di non muoversi, tenendoli ammanettati e poi, spesso con le ferite ancora non chiuse, portandoli con decine di altri manifestanti nel centro di detenzione di Bolzaneto. I segni di qualcosa di peggiore apparvero all’inizio in modo superficiale. Alcuni agenti avevano canzoni fasciste come suonerie dei loro telefonini e parlavano con entusiasmo di Mussolini e Pinochet. Più volte, è stato ordinato ai prigionieri di gridare «Viva il duce». Alcune volte, i prigionieri sono stati minacciati per costringerli a cantare canzoni fasciste. Le 222 persone detenute a Bolzaneto sono state sottoposte a condizioni che i pubblici ministeri hanno descritto come tortura. Al loro arrivo, venivano marchiati con una croce di vernice su ogni guancia e molti di loro sono stati costretti a camminare in mezzo a due linee parallele di funzionari che li prendevano a calci e a manganellate. La maggior parte è stata ammassata in celle grandi, con oltre 30 persone. Lì venivano costretti a rimanere in piedi per molto tempo, con la faccia verso il muro, le braccia alzate e le gambe larghe. Chi non ce la faceva, veniva insultato, picchiato umiliato. Mohammed Tabach, con una gamba artificiale, non poteva farcela e si è beccato due spruzzate di spray urticante in faccia e poi un pestaggio particolarmente brutale. Norman Blair avrebbe poi ricordato che mentre stava in questa posizione, un agente gli chiese: «Chi è il tuo governo»? «La persona prima di me aveva risposto Polizei e io ho fatto la stessa cosa per non essere picchiato». Stefan Bauer ha osato replicare: quando un agente che parlava tedesco gli ha chiesto di dove fosse, lui ha risposto che era dell’Unione europea e aveva il diritto di andare dove voleva. E’ stato preso, picchiato, spruzzato con lo spray urticante, spogliato nudo e gettato sotto una doccia gelata. I suoi vestiti sono stati gettati via ed è stato rimandato nella cella gelata solo con addosso una tuta da ospedale. Tremando sul freddo marmo della cella, i prigionieri non ricevevano né coperte, né cibo e gli veniva negato il diritto di fare una telefonata a un legale, cui avrebbero avuto diritto. Dalle altre celle si sentivano urla e pianti. Agli uomini e alle donne con i dreadlock sono stati tagliati grossolonamente i capelli fino alla cute. Marco Bistacchia è stato portato davanti a un agente, spogliato, fatto inginocchiare, abbaiare come un cane e gridare «Viva la polizia italiana». Un agente ha detto al quotidiano italiano La Repubblica, in condizioni di anonimato, di aver visto alcuni agenti urinare addosso ai detenuti e picchiarli per essersi rifiutati di cantare Faccetta nera, una canzone dell’era fascista. Ester Percivati, una giovane donna turca, ricorda le guardie che la insultavano mentre andava in bagno, dove un’agente donna l’ha costretta a infilare la testa nella tazza, mentre un maschio commentava, «Bel culo! Ci vuoi un manganello?». Molte donne hanno riferito di minacce di stupro. Perfino l’infermeria era pericolosa. Richard Moth, coperto di tagli ed escoriazioni, ha avuto suture sulla testa e sulle gambe senza anestesia: «Un’esperienza molto dolorosa. Dovevano tenermi fermo. ». Tra i condannati di lunedì c’è anche personale medico della prigione. Tutti sono d’accordo che non si trattava di un modo per far parlare i detenuti, ma solo di un esercizio di paura. Che ha funzionato. Nelle dichiarazioni, i prigionieri hanno descritto le loro sensazioni di impotenza, di isolamento dal resto del mondo, in un mondo senza leggi né regole. La polizia ha perfino fatto firmare delle dichiarazioni di rinuncia a tutte le tutele legali. Un uomo, David Laroquelle, ha testimoniato di essersi rifiutato di firmare, e di aver avuto tre costole rotte. Anche Percivati si è rifiutata, ed è stata sbattuta contro un moro, occhiali rotti e naso sanguinante. Il mondo esterno ha ricevuto alcuni resoconti molto distorti di tutto questo. Nell’ospedale di San Martino, il giorno dopo il suo pestaggio, Covell si sentì scuotere da una persona che gli sembrò essere dell’ambasciata britannica. Solo quando ha visto il fotografo accanto a lei ha capito che era una reporter del Daily Mail. In prima pagina, il giorno dopo, c’era un resoconto del tutto falso che lo descriveva come il cervello delle rivolte. [Quattro lunghi anni più tardi, il Mail ha chiesto scusa e ha pagato a Covell il risarcimento per l’invasione della privacy]. Mentre i suoi cittadini venivano picchiati e tormentato in uno stato di detenzione illegale, i portavoce del primo ministro Tony Blair, dichiarava: «La polizia italiana ha dovuto svolgere un compito difficile. Il primo ministro crede che lo abbiano fatto». La polizia italiana ha fornito ai media una ricca messe di falsità. Perfino mentre i corpi sangunanti venivano portati via dalla Diaz, gli agenti dicevano ai giornalisti che le ambulanze che erano sul posto non avevano nulla a che vedere con il blitz e che le ferite, chiaramente freschissime, erano vecchie e che l’edificio era pieno di violenti estremisti che avevano attaccato gli agenti. Il giorno dopo, alti funzionari hanno tenuto una conferenza stampa per annunciare che tutte le persone trovate nell’edificio sarebbero state accusate di resistenza e di associazione a delinquere finalizzata al saccheggio. I tribunali italiani hanno fatto cadere ogni capo d’accusa contro ogni persona. Compreso Covell. I tentativi della polizia di accusarlo di una serie di reati molto gravi sono stati descritti dal pm Zucca come «grotteschi».

In quella stessa conferenza stampa, la polizia mostrò un bagaglio di quelle che secondo loro erano armi. C’erano sbarre, martelli, chiodi che gli agenti stessi avevano preso da un magazzino di edilizia vicino alla scuola. C’erano strutture di zaini in alluminio, presentate come armi offensive; 17 macchine fotografiche; 13 paia di occhialetti da piscina; 10 coltellini e una bottiglia di lozione solare. Mostrarono anche due bottiglie molotov che, ha concluso Zucca, la polizia aveva trovato prima in un’altra zona della città e portato alla Diaz dopo la fine del raid. Questa disonestà pubblica era parte di un più ampio sforzo per insabbiare quello che era successo. Nella notte del raid, un reparto di 59 poliziotti è entrato nell’edificio di fronte alla Diazx, dove Covell e altri avevano allestito il loro centro media e dove, elemento cruciale, era sistemato un gruppo di avvocati che avevano raccolto le prove della violenza della polizia nelle manifestazioni dei giorni precedenti. Gli agenti sono entrati nella stanza degli avvocati, minacciato gli occupanti, distrutto i computer, sequestrato gli hard-disk e portato via qualsiasi cosa contenesse foto o filmati. Mentre i tribunali rifiutavano di convalidare le accuse contro gli arrestati, la polizia riuscì ad ottenere un ordine di espulsione per tutti gli stranieri, con il divieto di ritorno in Italia per cinque anni. Così, i testimoni venivano tolti di scena. Come per le accuse, gli ordini di espulsione sono stati poi cancellati, in quanto illegali, dal tribunale.

Zucca si è aperto la strada attraverso anni di dinieghi e insabbiamenti. Nel suo resoconto, ha scritto che tutto i funzionari di alto rango hanno negato di aver avuto un ruolo: «Non un solo funzionario ha ammesso di aver avuto un ruolo di comando in qualche aspetto dell’operazione». Un funzionario che aveva era stato ripreso in un video sul posto, ha poi spiegato che era fuori servizio e che era lì sono per assicurarsi che i suoi uomini non fossero feriti. Le dichiarazioni della polizia sono state mutevoli e contraddittorie e contraddette dalla valanga di prove delle vittime e di molti video: «Non un solo agente dei 150 presenti ha riferito informazioni precise su un episodio individuale». Senza Zucca, senza l’atteggiamento fermo dei tribunali italiani, senza il lavoro di Covell nell’assemblare i video girati durante il raid alla Diaz, la polizia avrebbe potuto schivare la responsabilità e avrebbe potuto assicurarsi false accuse e perfino sentenze di condanna contro le vittime. Oltre al processo per Bolzaneto, concluso lunedì, 28 altri agenti, alcuni molto in alto nei ranghi, sono sotto processo per il raid alla Diaz. E di nuovo la giustizia è stata compromessa. Nessun politico italiano è stato chiamato a rispondere, nonostante il forte sospetto che la polizia abbia agito come se qualcuno avesse promesso l’impunità. Un ministro ha visitato Bolzaneto mentre i detenuti venivano maltrattati e apparentemente non ha visto nulla oppure non ha visto nulla che ha pensato di dover fermare. Un altro, Gianfranco Fini, ex segretario nazionale del partito neo-fascista Msi, e allora vice primo ministro–secondo i resoconti dei media di allora–era nel quartier generale della polizia. Non gli è mai stato chiesto di spiegare che ordini abbia dato. Molti delle centinaia di tutori della legge coinvolti nella Diaz e a Bolzaneto se la sono cavata senza alcuna punizione o accusa. Nessuno è stato sospeso; alcuni sono stati promossi. Nessuno degli agenti processati per Bolzaneto è stato accusato di tortura–la legge italiana non prevede questo reato. Alcuni alti funzionari che in origine avrebbero dovuto essere accusati per il raid alla Diaz sono stati scagionati semplicemente perché Zucca non è riuscito a provare l’esistenza di una catena di comando. Anche adesso, il processo a 28 agenti è a rischio perché il primo ministro Silvio Berlusconi sta spingendo un disegno di legge per rinviare tutti i processi che hanno a che fae con fatti accaduti prima del giugno 2002. Nessuno è stato incriminato per la violenza inflitta a Covell. Come dice uno degli avvocati delle vittime, Massimo Pastore: «Nessuno vuole ascoltare ciò che questa storia ha da dire». Si tratta di fascismo. Ci sono molte voci sul fatto che la polizia, i carabinieri e il personale penitenziario appartenessero a gruppi fascisti, ma non sono state trovate le prove. Pastore dice che così, comunque, si manca il punto principale: «Non è questione di pochi fascisti ubriachi. Nessuno ha detto ‘no’. Questa è la cultura del fascismo». Al cuore, tutto ciò coinvolge quello che Zucca nel suo rapporto descrive come «una situazione in cui ogni stato di diritto è stato sospeso».

Cinquantadue giorni dopo l’attacco alla scuola Diaz, 19 uomini hanno usato aerei carichi di passeggeri come bombe volanti e hanno modificato il nucleo dei principi su cui le democrazie occidentali si erano basate. Da allora, politici che mai accetterebbero di essere chiamati fascisti, hanno accettato intercettazioni telefoniche di massa e controllo delle email, detenzioni senza processo, torture sistematiche, annegamento simulato dei detenuti, arresti domiciliari illimitati e l’uccisione mirata dei sospetti, mentre le procedure dell’estradizione sono state sostituite dalle extraordinary rendition. Non è fascismo con dittatori in stivali e schiuma alla bocca. E’ il pragmatismo di politici rovesciati dal didentro. Ma l’esito sembra molto simile. Genova ci dice che quando lo stato si sente minacciato, lo stato di diritto può essere sospeso. Ovunque.

 

*The Guardian

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