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L’uso politico dei migranti e la spoliazione dell’Africa

di Cristina Quintavalla

original Landfor campaign e1505255457111La tragedia umanitaria che si sta consumando sotto i nostri occhi, acuita dall‘inarrestabilità dei processi migratori, è resa tanto più drammatica quanto più viene utilizzata a fini politici e sociali, in Italia e in Europa. La questione della fuga di milioni di uomini, donne, bambini dai loro paesi d’origine e l’approdo di molte migliaia di essi sul territorio europeo viene presentata come la conseguenza del sottosviluppo, legato ad economie non industrializzate, rurali, primitive, imputabili ad arretratezza, o a regimi dittatoriali, a guerre intestine e fratricide. Insomma imputabili a storie e responsabilità loro.

Viene messa in scena una sorta di concezione della storia, fondata su una dialettica contrappositiva tra civili/civilizzati/sviluppati/benestanti/capaci/meritevoli e incivili/sottosviluppati/incapaci/poveri/immeritevoli: l’assalto di questi ultimi alla nostra ricchezza, prosperità, sicurezza, civiltà si configurerebbe come una minaccia gravida di insidie e pericoli, causa della disoccupazione, della precarizzazione delle vite, della crisi economica, dell’imbarbarimento sociale.

Di questo si tratta in primo luogo: della costruzione di una narrazione che rende giustificabili i respingimenti collettivi, la chiusura delle frontiere, l’erezione di muri, la militarizzazione delle operazioni di ricerca, la collaborazione con regimi ripetutamente denunciati per violazione dei diritti umani, la detenzione in hotspot in stato di sospensione, quando non di brutale e violenta negazione dei diritti, come sta avvenendo in particolare nel territorio libico, posto sotto il controllo del sedicente governo di Al Serraj, con cui le autorità italiane, con la benedizione delle istituzioni europee, hanno stretto accordi.

L’uso politico dei migranti in secondo luogo serve a intorpidire lo scontro sociale, sino ad annacquare la lotta di classe, che si vorrebbe relegare nella pattumiera della storia, in quanto inattuale, e catalizzare la rabbia, il malcontento, l’insoddisfazione di tutti coloro che in Europa sono colpiti dalla crisi e conducono vite sempre più precarie e ricattabili, sul “nemico interno”, dato in pasto ad un’opinione pubblica resa inferocita. E’ un obiettivo ghiotto: per impedire la lotta tra servi e padroni, viene alimentata quella tra i servi.

In verità i processi migratori sono la resa dei conti che la storia restituisce ad “un’economia che uccide”: che ci piaccia o no siamo in presenza di processi epocali e strutturali, che sono il portato del plurisecolare governo imperiale del mondo, che, pur con varianti – colonialismo, imperialismo, decolonizzazione- si protrae dall’età moderna ai nostri giorni.

La deriva imperialistica, accompagnata dalla ristrutturazione dei processi produttivi, dall’accentramento della produzione nelle mani dei grandi monopoli, trust, cartelli, dalla fusione del capitale bancario con quello industriale, dall’esportazione di capitale, ha consentito che si compisse la più spregiudicata opera di conquista di popoli, terre, risorse, spartiti tra le grandi potenze europee, dal continente africano a quello asiatico, assoggettando milioni di esseri umani, schiavizzati, martoriati, privati dell’elementare diritto all’esistenza.

E’ indissolubile il legame intercorrente tra lo sviluppo economico di alcune grandi potenze – Germania, Francia, Belgio, Inghilterra in particolare- e l’estensione del dominio imperialistico europeo per circa la metà del globo terrestre, soggiogando e sottoponendo ad una sistematica spoliazione oltre un miliardo di esseri umani.

Le pratiche di dominio sono stati il commercio iniquo, l’occupazione diretta o indiretta attraverso la creazione e l’uso di classi dirigenti, spesso autoctone, corrive e complici dei piani di dominazione e sfruttamento, l’esportazione di capitale, la suddivisione delle sfere di influenza. Scrive lo storico Fieldhouse che

Comunque, in regime protezionistico o di libero scambio, la tipica colonia moderna produceva ed esportava materie prime o semilavorati, importando la maggior parte dei manufatti di cui necessitava. Ciò la rendeva complementare alla sua madrepatria industrializzata e la metteva in condizione di sfruttare al massimo la sua dotazione di fattori produttivi e il principio del vantaggio comparato. Tale specializzazione, tuttavia, lasciava la colonia pericolosamente vulnerabile alle fluttuazioni del mercato internazionale, come avvenne nel corso degli anni trenta; inoltre le impediva di realizzare un rapido sviluppo economico attraverso l’industrializzazione[...] Un altro risultato comune a molti paesi è stato un enorme debito con l’estero, contratto per finanziare il nuovo sistema industriale”.

Insomma l’arretratezza economica e sociale delle ex colonie è stato il prodotto storico di relazioni di dipendenza che le società occidentali hanno loro imposto, facendone il serbatoio a cui attingere sia materie prime, sia manodopera a basso costo. Tale rapporto di dipendenza è stato mantenuto anche a seguito della decolonizzazione. Scrive sempre Fieldhouse che

“Nello stesso tempo i capitalisti occidentali riuscirono a fare investimenti in ogni campo in cui intravedevano ampi margini di profitto, con il risultato che, al momento dell’indipendenza, le ‘leve del comando’ dell’economia coloniale erano nelle mani di multinazionali estere. Il colonialismo, dunque, fu soprattutto responsabile dell’eccesso di specializzazione e della povertà di quasi tutte le ex colonie, e la decolonizzazione giunse solo quando, e in quanto, il capitalismo occidentale si convinse che il processo di ristrutturazione delle economie coloniali in base ai suoi interessi era giunto a un punto così avanzato che persino l’indipendenza non avrebbe più potuto invertirlo.”

Giustamente la CEI della Liguria parla di “Fenomeno sociale epocale”ed accusa l’occidente di “smemoratezza storica”

“Nel modo con cui il fenomeno delle migrazioni forzate viene affrontato, è contemporaneamente cancellata la storia: spesso non si riconosce il minimo coinvolgimento nelle cause storiche (economiche, politiche, ambientali, sociali, ecc…) che sono alla base dell’attuale fenomeno delle migrazioni. Questo, di contro, non è per nulla un fenomeno casuale, ma ha salde e profonde radici che legano tra loro gli enormi flussi migratori degli ultimi secoli. Nessuno può tirarsi fuori da questo esame di coscienza.”.

D’altro canto papa Francesco nel III Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari, svoltosi dal 2 al 5 novembre 2016 a Roma, ha detto che «siamo creditori di un debito storico, sociale, economico, politico e ambientale che deve essere saldato». Giustamente i vescovi liguri sottolineano che quella di Francesco “ è un’espressione che rovescia la visione del mondo e pone i popoli sfruttati non tra i debitori dei ricchi, ma tra i creditori degli stessi e non solo da un punto di vista economico e finanziario, ma anche da un punto di vista sociale, ambientale, storico e, pertanto, politico.”

E’ proprio così, come confermano i dati economici. « Troviamo che i Paesi dell’Africa sono, nel complesso, creditori netti nei confronti del resto del mondo per un ammontare di 41,3 miliardi di dollari nel 2015 … Quindi la ricchezza che sta lasciando il continente più povero del mondo è maggiore rispetto a quella che vi sta entrando. » è scritto nel rapporto Honest Accounts 2017, pubblicato nel maggio scorso, in cui viene precisato:

« L’Africa è ricca – nel potenziale di ricchezza mineraria, di lavoratori qualificati, di crescita di nuove imprese e di biodiversità. Gli Africani dovrebbero prosperare, le economie africane dovrebbero essere fiorenti. Eppure molte persone che vivono nei 47 Paesi dell’Africa rimangono intrappolate nella povertà, mentre gran parte della ricchezza del continente viene estratta da coloro che vivono in altri Paesi all’esterno. »

Tale spoliazione è il prodotto dell’estrazione di plus-valore, conseguito attraverso il rimpatrio dei profitti, l’uscita illegale di flussi finanziari, la riduzione di imposte alle società multinazionali -“che deliberatamente registrano in modo errato il valore delle loro importazioni o esportazioni per ridurre le imposte” ed esercitano pressioni sui governi da loro sostenuti per ridurre la pressione fiscale – , attraverso il ricatto del debito, i cui interessi sono sempre più esosi, e la razzia di risorse preziose. “La sola ricchezza minerale potenziale del Sudafrica è stimata essere pari a circa 2.500 miliardi di dollari… » - si dice nel Rapporto -, senza parlare del coltan, dell’oro, dell’argento, del tungsteno, del rame, del cobalto, dello stagno, dei fosfati, del manganese, dei diamanti, rubati dalle multinazionali agli altri paesi dell’Africa, che dispone del 30 % delle risorse mondiali.

I numeri sono sconvolgenti:

Honest accounts image

Per l’accaparramento di queste risorse si stanno attualmente combattendo in Africa ben 33 sanguinosi conflitti, che hanno prodotto milioni di morti, un lucrosissimo commercio di armi, con cui ingrassano le classi dirigenti di molti paesi occidentali, e la fuga di centinaia di migliaia di disperati dalle zone di conflitto.

Quella che si consuma sotto i nostri occhi è dunque un’altra dialettica storica: quella tra servi e padroni, che si sta dispiegando a livello internazionale, in un mondo diviso tra i nuovi schiavi e il grande capitale economico finanziario.

Hegel nella Fenomenologia dello spirito afferma che agli albori della storia la lotta per la vita e per la morte si è risolta con la riduzione in servitù di un uomo da parte del vincitore, trasformatosi in padrone. Il servo per effetto di tale rapporto è ridotto alla dimensione puramente corporea, animalesca, di cui il padrone dispone liberamente per soddisfare il suo appetito, consumando l’altro da sé e riducendolo ad oggetto. Non è un caso che oggi venga intentato un gigantesco atto d’accusa nei confronti dei servi, funzionale a denigrarli, e dunque a giustificare una più sistematica opera di disumanizzante dominio. Ma è il servo – scrive Hegel – colui che indica la verità di questo rapporto, poiché ha in sé, seppur molto inconsapevolmente, la verità dell’autocoscienza, che consiste nell’indipendenza e nella certezza di sé.

D’altro canto non ci può essere futuro per il capitalismo senza politiche imperialistiche, e non c’è rimedio alla legge dello “sviluppo ineguale e combinato”, proprio di un sistema economico produttivo in mano alle grandi oligarchie finanziarie, fondato sulla divisione internazionale del lavoro, sull’accaparramento delle risorse e delle fonti energetiche.

Le orecchie da lupo spuntano sotto l’ immagine degli aiuti internazionali: a fronte di 19 mld di aiuti (“aiutiamoli a casa loro”!) più di 200 mld in modo diretto o indiretto defluiscono dall’Africa verso le multinazionali e la grande finanza.

Non aiutiamoli più, per carità! Fermiamo le grandi multinazionali e mandiamole via dal continente africano. Si risarcisca l’Africa per il saccheggio sistematico subito e per i danni all’ambiente e i cambiamenti climatici prodotti.

Magari solo per una decina di anni. E poi contiamo i migranti.

Potremmo allora guardare il mondo dalla verità del servo, di colui che è stato ridotto in servitù.

Fanon, il medico algerino autore dei Dannati della terra, libro che denunciò il colonialismo, in particolare quello francese, sostiene che alla crisi profonda della civiltà occidentale, in preda ad un processo di disintegrazione tecnologica, ambientale, culturale, spirituale, debba corrispondere la nascita di un uomo nuovo, che tenga conto certo delle tesi prodigiose prodotte dalla cultura europea, ma anche dell’incontro con quei milioni di esseri umani che l’Europa colonialista e imperialista ha voluto dimenticare, ignorare, denigrare per giustificare il suo dominio.

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