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Iran: una rivoluzione popolare?

di Michelguglielmo Torri

khomeiniC’è una pressoché totale unanimità nel modo in cui, in Occidente e in Italia, viene descritta la crisi iraniana nata dall’esito delle ultime elezioni presidenziali in Iran. La vittoria a valanga di Mahmoud Ahmadinejad non sarebbe che il risultato di un grossolano broglio elettorale, che ha tolto la vittoria a chi spettava legittimamente: Mir Hossein Mousavi. Il popolo iraniano, giustamente sdegnato, è quindi sceso in piazza. La risposta è stata una repressione brutale, che ha causato decine di morti e portato a centinaia d’arresti. In questa situazione, la «guida suprema» della rivoluzione, Ali Khamenei (di fatto e di diritto il potere ultimo nel sistema politico iraniano), invece di svolgere il ruolo di arbitro al di sopra delle parti che, a norma della costituzione iraniana, gli compete, ha usato la propria autorità per coprire la grossolana manipolazione del risultato elettorale.

Il fatto che la tesi in questione sia sostanzialmente egemonica sui media internazionali non vuole però necessariamente dire che essa sia accurata. In proposito basti pensare a come i media internazionali rappresentino e abbiano per decenni rappresentato la questione palestinese. Cioè distorcendo completamente la realtà effettuale, quale è ed è stata documentata dalla maggior parte delle ricostruzioni storiche più serie.

La differenza fra la visione della questione palestinese e quella della questione iraniana data dai mezzi d’informazione è che, per quanto riguarda le elezioni in Iran e le loro conseguenze, la vulgata prevalente sembra essere largamente condivisa anche da quella che alcuni chiamano la «blogsfera». Essa è cioè condivisa da quell’insieme di blog, liste di controinformazione, siti e giornali online che, forse perchè al di là di una serie di condizionamenti politici e finanziari, spesso forniscono analisi più approfondite e rappresentano posizioni assai più critiche di quelle dei media ufficiali. Così, ad esempio, «Conflicts Forum», sempre informato e sempre all’avanguardia nel denunciare gli intrighi americani in Medio Oriente, intitola il suo più recente articolo sugli eventi in Iran (18 giugno): Liberty leads the people, even in Tehran («La libertà guida il popolo, perfino a Teheran»). Dal canto suo, scrivendo su «Asia Times», un quotidiano online di Hong Kong di altissimo livello qualitativo, il giornalista Pepe Escobar (che, certamente non è filoamericano) inizia un suo recente articolo (25 giugno) affermando: «L’angelo della storia vive in Iran, anche se i progressisti manichei di tutti i colori, particolarmente negli USA, insistono nel credere che la straordinariamente estesa rivolta in Iran non sia nulla più che una “rivoluzione colorata” organizzata dalla CIA».

In realtà, in questo suo incipit, Escobar allude all’altra versione, presente nella blogsfera, anche se in posizione subordinata rispetto a quella dominante. Tale tesi è, appunto, che la rivolta in Iran non sia null’altro che una nuova «rivoluzione colorata», come quelle verificatesi negli scorsi anni nello spazio post sovietico. Secondo la definizione di un discusso analista francese, Thierry Meyssan, le «rivoluzioni colorate» sono «dei cambiamenti di regime che hanno l’apparenza di una rivoluzione, dato che mobilitano vasti settori della popolazione, ma che sono in effetti dei colpi di stato, dato che non mirano a cambiare le strutture sociali, ma intendono sostituire un’élite con un’altra per condurre una politica economica ed estera a favore degli USA.»

Da questo punto di vista sono significativi due fatti, denunciati ad esempio da Bill Van Auken del World Socialist Web Site. Il primo è che la protesta di massa «è stata in larga misura confinata alla classe media urbana e agli strati più privilegiati, attratti dalla promessa di “riforma” fatta dal candidato dell’opposizione [Mousavi]». Il secondo fatto è che la riforma in questione, «a parte vaghe promesse di libertà personali più ampie, consiste nel ridurre le frizioni fra Washington e Teheran, nell’aprire ulteriormente l’Iran al capitale straniero, nel mettere in moto un processo più rapido di privatizzazione delle industrie statali e nel por termine ai limitati programmi assistenziali, usati da Ahmadinejad per assicurare al regime una base popolare.»

In sostanza quindi, gli eventi di giugno possono essere interpretati in modo antitetico: vi è una tesi di maggioranza, secondo cui siamo di fronte ad una rivoluzione popolare genuina e spontanea, scatenata da vistosi brogli elettorali; vi è poi una tesi di minoranza, secondo cui vi è una mobilitazione che, pur sembrando di massa, è in realtà condotta solo da una parte della popolazione, la quale, forse senza esserne cosciente, viene manipolata da una o più potenze straniere. Da quest’ultimo punto di vista, l’insurrezione in Iran, più ancora che alle «rivoluzioni colorate», assomiglierebbe alle dimostrazioni di massa che, in Cile, furono il preludio e la giustificazione del sanguinoso colpo di stato che pose fine al governo democratico di Allende, portando al potere il sanguinario regime dittatoriale capeggiato da Augusto Pinochet.

Quale delle due tesi è la più convincente? Al momento gli eventi in corso sono confusi e sarebbero di difficile interpretazione anche in presenza di una situazione di piena accessibilità agli eventi stessi (il che, dato l’atteggiamento del regime iraniano, sicuramente non è il caso). In questa situazione, non sembra che vi sia altro da fare, per formarsi un’opinione, se non interrogarsi sugli esiti dell’elezione presidenziale. In altre parole, la «vittoria a valanga» di Ahmadinejad è frutto di estesi brogli elettorali o, effettivamente, rappresenta la volontà del popolo iraniano? Perché, del tutto indipendentemente dalla simpatia o dall’antipatia che si può avere per Ahmadinejad, è chiaro che, se la maggioranza degli iraniani ha votato per lui, quella in corso è un’insurrezione del tutto illegittima che, non solo l’attuale regime, ma qualsiasi governo democratico non potrebbe che reprimere (auspicabilmente senza usare i metodi sanguinari impiegati dall’attuale dirigenza di Teheran). Se, invece, la vittoria di Ahmadinejad è frutto di brogli, allora siamo effettivamente di fronte ad un movimento popolare del tutto legittimo.

La tesi dei brogli, entusiasticamente sposata dai media internazionali, ha avuto il suo momento d’inizio nella dichiarazione fatta da Mousavi, diverse ore prima della chiusura delle urne, di aver vinto le elezioni. Questa dichiarazione aveva il preciso fine di delegittimare in anticipo l’eventuale vittoria del suo avversario. Alla dichiarazione di Mousavi è seguito, poco dopo la chiusura delle urne, l’annuncio della vittoria di Ahmadinejad. Poco dopo, ma quando era ormai possibile avere una quantità di voti scrutinati sufficiente ad arrivare a proiezioni statistiche abbastanza accurate.

Ciò nonostante, la dichiarazione di vittoria di Ahmadinejad, fatta prematuramente, come risposta alla precedente presa di posizione di Mousavi, ha rappresentato il momento d’avvio dell’attacco dei media internazionali alla credibilità dei risultati elettorali.

Nel portare avanti la loro campagna, i media e i commentatori hanno però dimenticato una serie di fatti. Il primo è che, dal marzo 2009, in Iran sono stati condotti più di trenta sondaggi sulle intenzioni di voto. Come riporta l’analista Esam al-Amin: «I sondaggi hanno ampiamente variato fra i due concorrenti [Ahmadinejad e Mousavi], ma, se si fa la media dei loro risultati, Ahmadinejad risulta in ogni caso il vincitore.» Tuttavia – continua al-Amin – se, fra le organizzazioni che hanno condotto i sondaggi, si escludono quelle dichiaratamente a favore di Mousavi (che, in alcuni sondaggi, gli hanno attribuito un irrealistico margine di vittoria del 30%), «il vantaggio medio di Ahmadinejad su Mousavi si amplierebbe a 21 punti percentuali.»

A questi risultati, al-Amin aggiunge quelli dell’unico sondaggio commissionato da occidentali, cioè quello condotto per conto dalla britannica BBC e dall’americana ABC News dal CPO (Center for Public Opinion) della New American Foundation, un’istituzione nota per l’accuratezza dei sondaggi condotti in molti paesi musulmani fin dal 2005. Ebbene, il CPO prediceva un numero di votanti pari all’89% degli aventi diritto, con un’intenzione di voto a favore di Ahmadinejad pari al doppio di quella a favore di Mousavi.

Al momento delle elezioni, il numero di votanti è stato sostanzialmente quello predetto dal CPO (l’85% degli aventi diritto); il numero di voti ad Ahmadinejad, poi, è stato pari a 24,5 milioni, cioè il 62,6% dei votanti, contro 13,2 milioni di voti a Mousavi, pari al 33,8% dei votanti. Di nuovo una conferma quasi perfetta delle previsioni del CPO.

D’altra parte, se i media occidentali si sono dimenticati di questi sondaggi, si sono anche dimenticati di un reportage del 23 maggio 2007 di ABC News. L’autorevole catena televisiva americana, sulla base di fonti legate all’intelligence, aveva testualmente affermato: « La CIA ha ricevuto l’approvazione segreta presidenziale per organizzare un’operazione “nera” clandestina per destabilizzare il governo iraniano».

Questa dichiarazione era stata preceduta, il 16 e il 27 maggio, da articoli sul «Telegraph» di Londra che andavano nello stesso senso. Ad essa, infine, era seguito, il 29 giugno 2008, un servizio del «New Yorker», di cui era autore un ben noto specialista di intelligence, Seymour Hersh. Hersh, di nuovo, parlava di un piano approvato l’anno prima da Bush, finanziato con 400 milioni di dollari e «finalizzato a destabilizzare la leadership religiosa del paese [l’Iran]».

Insomma, l’azione repressiva delle autorità nei confronti dei dimostranti ha assunto dimensioni di violenza assolutamente odiose, che non si possono non condannare. Ciò non toglie che è assai dubbio che, a differenza di quanto sostengono i media internazionali, i dimostranti rappresentino veramente la maggioranza del popolo iraniano.

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